mercoledì 19 marzo 2014

Un missionario travolgente di Cristo Redentore



Cardinale Leonardo Sandri: Giovanni Paolo II,gigante della spiritualità pastorale, fu un missionario travolgente di Cristo Redentore

Intervento del Cardinale Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, alla “Cattedra di san Giusto”. “La vita e la figura del beato Giovanni Paolo II” -  Splendor Sanctitatis in Trieste-mercoledì 19 marzo 2014
Eccellenza Reverendissima,
Distinte Autorità, Confratelli sacerdoti,
Cari Rappresentanti delle Chiese e comunità ecclesiali e di altre Religioni,
amici partecipanti alla Cattedra di San Giusto,
Il mio grazie all’Arcivescovo Mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste, per questo invito è molto cordiale e lo estendo subito al Vicario Episcopale, Mons. Ettore Malnati: sono due amici, coi quali nella Curia Romana ho condiviso in epoche diverse l’onore di collaborare alla “sollicitudo omnium ecclesiarum”, che connota il ministero del Vescovo di Roma. 
1. Stasera il primo pensiero, in questa storica cattedrale di San Giusto, va con profonda riconoscenza a Papa Francesco perché ne ricordiamo l’inizio del Servizio Petrino. Siamo a pochi giorni dal 13 marzo, primo anniversario della elezione, e risentiamo quel – “buona sera” rivolto alla Città e al mondo (…urbi et orbi) – sorprendente perché del tutto insolito nella sua normalità. Desidero anch’io porgerlo a ciascuno di voi con cordialità e considerare con voi quanto il saluto di “Pietro” possa rincuorare e incoraggiare perché richiama la cura fedele che il pastore eterno, Cristo Gesù, riserva ad ogni uomo e donna di ogni tempo e luogo. Era il 19 marzo quando Papa Francesco, accompagnato dai patriarchi ed arcivescovi maggiori delle Chiese Orientali, scese nelle grotte vaticane a venerare il sepolcro dell’apostolo. Nell’omelia della Messa di San Giuseppe, che seguì subito dopo, egli disse che la sua missione era quella di custodire. Perché ciò avvenga sempre facciamo nostra la preghiera della tradizione cattolica per il Pontefice romano: “Dominus conservet Eum”. Il Signore custodisca Lui perché possa a sua volta custodirci tutti nella divina benevolenza.
2. L’immagine del custode della “casa di Dio” (cf Tim 3,15), nella quale abita la sua famiglia (LG 6), è senz’altro applicabile a quel gigante della spiritualità pastorale, che è stato Giovanni Paolo II, vicino alla canonizzazione insieme all’indimenticabile Giovanni XXIII.
La memoria del mio cuore, torna ad un’altra sera in questo momento! Quella del 2 aprile 2005, quando alle 21.37 ebbi il compito – lo dico sempre con timore e tremore – di annunciare che era “tornato alla Casa del Padre…il nostro amato Papa Giovanni Paolo II”. Fu un “balzo” quello che egli aveva compiuto, dal tempo all’eternità, dopo la lunga malattia, che ci aveva consegnato la figura di un pontefice pellegrino nelle regioni più oscure della estrema debolezza umana, provvida ormai del solo silenzio, tanto simile a quella del Crocifisso appena prima dell’emisit spiritum (Mt 27,50). Da quel balzo esistenziale, scaturì l’immenso abbraccio della Chiesa universale e del mondo, che insieme si sentivano “familia Dei”. Benché avessero perso un padre e un fratello sulla terra, sapevano in realtà di poter contare, grazie alla sua orante presenza spirituale, sul vero Custode dell’umanità, fedele sempre, anche oltre la morte, lo stesso, ieri, oggi e nei secoli:  Gesù, il Figlio di Dio, il “Redentore dell’Uomo”. Ce lo aveva insegnato proprio lui, Papa Wojtyla, fin dall’inizio del pontificato e in modo tanto entusiasmante e convincente, perché ne aveva profonda certezza dottrinale e appassionata prova esistenziale.
Tutti ricordiamo l’omelia del 22 ottobre 1978: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa! Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.”
Questa antropologia teologica l’aveva appresa dal Concilio Ecumenico Vaticano II, di cui si ritenne sempre figlio docile, avendovi partecipato come giovane vescovo. Nel memorabile testo della Gaudium et Spes al n. 22, infatti, si afferma: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione […] Tale e così grande è il mistero dell’uomo, che chiaro si rivela agli occhi dei credenti, attraverso la rivelazione cristiana. Per Cristo e con Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo vangelo ci opprime”.
Si tratta di una visione dell’uomo e del suo destino appresa soprattutto dal vangelo. E’ l’evangelista Giovanni ad assicurarci che Gesù: “ […] conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (2, 24s). Per questo il beato Giovanni Paolo II l’aveva consegnata come programma del suo servizio papale nella prima enciclica, la Redemptor hominis, facendosi poi missionario travolgente di questa verità in ogni continente, mai fermandosi e mai risparmiandosi davanti alle ricorrenti difficoltà e resistenze. Anzi, proprio in esse si faceva intercessore e mediatore, o meglio segno del Mediatore tra Dio e gli uomini e perenne Intercessore, che è Cristo, il Redentore dell’uomo. Così poté elaborare la sua antropologia – tutta “personale e pastorale”, di cui vorrei citare solo una tra le perle più luminose: “Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via «alla casa del Padre», ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all'uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può esser fermata da nessuno. Questa è l'esigenza del bene temporale e del bene eterno dell'uomo. La Chiesa, per riguardo a Cristo ed in ragione di quel mistero che costituisce la vita della Chiesa stessa, non può rimanere insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell'uomo, così come non può rimanere indifferente a ciò che lo minaccia “ (RH n. 13).
3. E’ questa forse la dimensione più nota della figura e della missione di Giovanni Paolo II, e senz’altro la più accattivante, quella che i media del mondo intero ritengono la più attenta alla “post-modernità” in cui viviamo. E’ presentata come la più confacente all’odierno contesto culturale, alla società “post-cristiana” o alla cosiddetta “città secolare”, avulsa da ogni riferimento religioso, che è tipica delle aree più evolute del pianeta e, perciò, dell’Europa. Con volontà decisa e perseverante, egli seppe effettivamente entrare nell’umano, nello spessore più profondo del pensiero e dell’agire, interessandosi alle sofferenze e alle contraddizioni più preoccupanti, come alle speranze ed alle aspirazioni più vere, e “facendosi prossimo”, sia come credente sia come pastore, ad ogni uomo e donna in ogni latitudine geografica, storica e religiosa.
Ma ne mortificheremmo la figura e la missione, fino a renderle irriconoscibili, se non fosse chiaramente sottolineato il movente tutto religioso, che animava questo mistico pastore, ossia la dimensione assolutamente cristiana, appassionata e sempre più convinta, nella quale visse fino in fondo il suo essere uomo. In essa collocò saldamente il suo servizio pastorale, che ne fu – potremmo dire - “cristificato”!  Entrò nelle pieghe più recondite dell’umano, sempre e soltanto a motivo di Cristo, spinto dall’intimo desiderio di conformarsi a Lui solo. E’ questa l’esemplarità per la quale Papa Francesco, impegnando l’autorità apostolica, lo iscriverà nell’albo dei santi “a gloria della Santissima Trinità, ad esaltazione della fede cattolica e ad incremento della vita cristiana”, come recita in termini suggestivi la formula di canonizzazione.
Lo prova il congedo reso dal mondo intero al Papa di Roma e confluito in quel venerdì 8 aprile 2005, quando il Cardinale Decano Joseph Ratzinger gli chiese di benedirci ancora una volta “dalla finestra della Casa del Padre”. La sua eredità sta, infatti, nella divina benedizione per ciascuno di noi.
Lo prova tutto il suo pontificato. Per questo vorrei soffermarmi sulla celebrazione che vide raccolti nella Basilica di San Pietro, attorno alle sue spoglie mortali, quanti avevano avuto “il compito e il privilegio di stargli vicino come suoi diretti collaboratori” per il quotidiano nella Curia Romana. All’omelia potei tracciare una “sintesi del suo vasto e ricco magistero”. Richiamai la Novo millennio ineunte, nella quale egli aveva indicato il Concilio Ecumenico Vaticano II quale "sicura bussola" per orientare il cammino della Chiesa (n. 57) e l'impegno per la santità,  definita "misura alta della vita cristiana" (n. 31), quale priorità per ogni battezzato. Citai l'Anno del Rosario, quale apice della devozione alla Vergine Maria, solida e filiale, che lo accompagnò per tutta la vita; come pure l’Anno dell'Eucaristia, quello della sua morte, per ribadire la centralità del mistero pasquale in tutta la sua esistenza. Nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, aveva del resto confidato il segreto della sua totale dedizione a Cristo, al Vangelo e alla Chiesa: "Da oltre mezzo secolo - scriveva il Papa - ogni giorno, da quel 2 novembre 1946 in cui celebrai la mia prima Messa nella cripta di san Leonardo della cattedrale del Wawel a Cracovia, i miei occhi sono raccolti sull'ostia e sul calice... Ogni giorno la mia fede ha potuto riconoscere nel pane e nel vino consacrati il divino Viandante che un giorno si mise a fianco dei due discepoli di Emmaus per aprire i loro occhi alla luce e il cuore alla speranza (cfr Lc 24,13-35)" (n. 59). Il profilo eucaristico di Giovanni Paolo II traspare evidente nella Lettera apostolica Mane nobiscum Domine (Resta con noi Signore). Ma lo esprimeva lo stesso motto episcopale: totus tuus ego sum, col quale si presentava a Cristo ogni giorno per le mani della "Madre del suo Maestro", come leggiamo nel testamento spirituale. Il Signore, del resto, gli concesse di celebrare una personalissima "Messa" in unione alla Passione, amando come Cristo fino alla fine nella perseveranza del dolore a bene della Chiesa e del mondo. Noi suoi collaboratori abbiamo avuto la grazia di accompagnarlo con trepidazione, specie negli ultimi mesi, preparati come eravamo dalle soste davanti al Santissimo Sacramento, che Giovanni Paolo II imponeva ad ogni suo programma pubblico, quasi un’eco di quelle ricorrenti nella Cappella privata, dove rimaneva assorto con i dossiers da esaminare tra le mani, affinché ogni scelta scaturisse dalla volontà di Dio.
Ecco il tesoro della sua vita: il Cristo Eucaristico!
Per esso era disposto a vendere tutto. Lo mostravano la sua semplicità e povertà di vita. Quale ammirazione suscitava la modestia dell'arredamento privato: cose, parole e gesti, da tutto traspariva un senso di distacco e il totale abbandono in Dio.
4. Cari amici, ma noi stasera siamo a Trieste e io non l’ho dimenticato! Vi confido il desiderio che ho cercato di appagare rileggendo il magistero offerto alla vostra Città. Egli la visitò il 1° e 2 maggio 1992.    Il saluto alla cittadinanza in Piazza Duomo, la visita al Santuario della Madonna al Monte Grisa, l’incontro con i sacerdoti e i religiosi, il mondo della cultura, le monache di san Cipriano, gli amministratori e i politici, la grande Messa in Piazza dell’Unità d’Italia, e infine al Porto: sempre vi parlò a cuore aperto! Al congedo dai triestini disse: “È la prima volta che mi è dato di visitare questo lembo di terra adriatica e di fermarmi proprio sul Molo […] Da questo luogo, centro dinamico di scambi e di commercio, è possibile ammirare sia la naturale bellezza del mare, porta aperta sul mondo, sia i complessi impianti industriali, che sono il risultato della tecnica congiunta all’ingegno dell’uomo. […]lo sguardo si allarga alle vicine aree dei Balcani, e a tutte le nazioni del Centro e dell’Est dell’Europa. I recenti avvenimenti, che hanno rapidamente mutato l’assetto politico di una vasta parte del vecchio Continente, hanno suscitato speranze di nuove intese e hanno reso possibili collaborazioni e scambi commerciali sino a qualche tempo fa del tutto insperati. L’internazionalità e la libertà possono essere considerate a giusto titolo i due elementi caratteristici del ruolo sociale ed economico di questo Porto e della popolazione di Trieste, che qui trova uno dei suoi maggiori punti di riferimento”. Non mi sostituisco a voi nel compito, doveroso e felice, di riappropriarvi del dono ineguagliabile ricevuto in quella storica visita.
5. Ma da Trieste, che per la geografia e la storia, la tradizione culturale e religiosa, appare una sorta di “microcosmo mitteleuropeo”, desidero riconoscere con gratitudine a Giovanni Paolo II il molto che egli ha compiuto di straordinario e imprevedibile affinché tutte le chiese e le nazioni del continente godessero di quella libertà religiosa e civile, cui hanno diritto. E in essa contribuissero a realizzare quella armonia internazionale, mai del tutto conquistata ma sempre da ricercare perché possibile, nella quella ciascuno dia il meglio di sé a bene di tutti.
La vocazione dell’Europa è l’incontro e il dialogo. Ed è anche la vostra vocazione, cari triestini! Essa trae vigore dalle radici cristiane europee, ancora feconde, benché talora ignorate contro ogni evidenza. Come terra di confine, mai votata alla chiusura, siete preparati al “nuovo”, che avete imparato nei secoli a considerare una positiva opportunità.
Dalla vostra Terra, collocata nel cuore dell’Europa ma decisamente aperta a Oriente, non posso dimenticare che il “primo papa slavo” spese la vita perché la Chiesa e l’umanità respirassero “a due polmoni”. Si impegnò sul piano religioso, ben sapendo che non si danno separazioni di ambiti quando si parla all’uomo e perciò che lo avrebbe coinvolto nella sua totalità. Volle offrire ai figli della tradizione latina la possibilità di “conoscere in pienezza il  tesoro [dell’Oriente cristiano] e sentire così, insieme al Papa, la passione perché sia restituita alla chiesa e al mondo la piena manifestazione della cattolicità della Chiesa” (n. 1) - come espresse nella lettera apostolica Orientale lumen. Perciò convocò nel vivo del dibattito e dell’azione ecclesiale le Chiese Orientali, cattoliche e non, al completo. Del resto: “…la varietà nella Chiesa non solo non nuoce alla sua unità, ma anzi, la manifesta” (OE 2). Il loro patrimonio spirituale, radicato nell’insegnamento degli Apostoli e dei Padri, ha, infatti, generato venerabili tradizioni liturgiche, teologiche e disciplinari. Esse provano quanto il “pensiero di Cristo” sia capace in ogni tempo e luogo di dialogare proficuamente con la realtà umana e la storia. Grazie ad esse, la Chiesa intera può parlare più da vicino all’uomo contemporaneo e in modo comprensibile e convincente, perché unanime. Nell’Orientale lumen troviamo una acuta esortazione: “Le parole dell’Occidente hanno bisogno della parole dell’Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze” (n. 28). Sapeva in tal modo di lavorare efficacemente per l’unità dei cristiani. E’ il decreto conciliare Orientalium ecclesiarum al n. 1 ad attestare, infatti, che le Chiese Orientali sono “testimoni viventi delle origini” e perciò ad auspicare che, come tali, “fioriscano e assolvano con rinnovato vigore apostolico la missione loro affidata […] di promuovere l’unità di tutti i cristiani, specialmente orientali, secondo il decreto sull’ecumenismo […], in primo luogo con la preghiera, l’esempio della vita, la scrupolosa fedeltà alle antiche tradizioni orientali, la mutua e più profonda conoscenza, la collaborazione e la fraterna stima delle cose e degli animi” (OE 1; 24).  Sono un dono per tutta la Chiesa e il futuro della missione evangelizzatrice è sicuro solo se rimane saldamente ancorato a “ciò che è fin dal principio” (cf Gv prologo). Delle origini cristiane sono le custodi per la prossimità alla fondativa esperienza apostolica che esse possono vantare.
Il profilo ecumenico, dunque, è straordinario in Giovanni Paolo II e si è aperto in modo eclatante a livello interreligioso. Chi non ricorda la convocazione dei Rappresentanti delle religioni del mondo intero ad Assisi?
Sono perciò tanto lieto della presenza di fratelli di varie confessioni cristiane ed esponenti di diverse religioni a questo incontro. In obbedienza di fede a Dio cerchiamo, nel pieno rispetto della identità di ciascuno, di servire insieme l’uomo, il più possibile con parole comprensibili. Tra queste l’adorazione resa a Dio solo e perciò l’abbandono dei molti idoli del nostro tempo per ribadire sempre che solo l’Assoluto potrà essere la casa comune dell’umanità.
6. Posso, perciò, soffermarmi ora sul magistero di pace, che ha reso oltremodo grande e universalmente amato il beato Giovanni Paolo II. Fiorisce anch’esso dal dialogo ecumenico e interreligioso appena raccomandati, ma scaturiva sempre e soprattutto dalla sua profonda spiritualità: così parole e gesti alimentavano uno sguardo di pace, col quale seppe cambiare il mondo e non solo l’Europa. Un recente articolo, molto interessante, ha indagato su un quotidiano nazionale alcuni percorsi letterari del novecento, individuando uno “sguardo che cambiò il mondo” (cfr Claudio Magris in Dialoghi – Corriere della Sera del 13 marzo 2014, p.36). Mi sono permesso di accostare l’idea a quel “maestro dello sguardo” che fu Papa Wojtyla. Sensibile senz’altro all’ambito letterario, specie poetico e teatrale, non poté probabilmente, se non ad un certo punto soltanto, interessarsi direttamente al riguardo. Ma, quale figlio del novecento e traghettatore della chiesa e della famiglia umana verso il terzo millennio, captò – come è tipico dei grandi – le inquietudini e le aspirazioni del suo tempo. Esperimentò anch’egli “l’insufficienza della vita” e “l’inautenticità della condizione umana”. Ben conscio della tragicità della storia per averne fatto esperienza nella sua stessa carne e in quella della sua nazione, Giovanni Paolo II si fece sollecito maestro di pace “nei fatti e nella verità”. Non esitò a porsi con l’autorità personale, e da un certo momento con quella apostolica, nel vortice di ogni conflitti. Temette l’inadeguatezza della vicenda umana, comprendendo bene quanto lo spirito ambisse un “Oltre”. Non la ritenne mai “inevitabile”. Era convinto che ciò fosse, piuttosto, il risultato dell’operare umano lasciato a se stesso. Mai accettò di precludere all’uomo l’orizzonte dell’Assoluto, che gli dischiude invece lo sguardo di Cristo. Sapeva che il segreto della pace personale e sociale scaturiva da quello sguardo come da sorgente sempre fresca. E avvicinava l’uomo a Cristo, perché il suo amore, quando incontra la fragile libertà umana che si affida, sa operare l’atteso miracolo della riconciliazione. Credeva fermamente che Cristo “è la nostra pace” (Ef 2,14ss) e che “di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne” (ibid.). Il muro: ricordiamo quello del pianto a Gerusalemme ove si recò pellegrino nell’anno giubilare. Là dove cristiani, ebrei e musulmani nella loro diversità e nei loro conflitti sono quotidianamente gli uni accanto agli altri, proprio là, rinnovò la preghiera per il popolo eletto. Sì, da quel luogo, sovrastato dalla spianata di un tempio che ospitò chiese cristiane ed oggi moschee, non lontano dal Calvario e dal Sepolcro del Crocifisso che è Risorto. Nella messa del 24 marzo 2000 al Monte delle Beatitudini disse che “Gesù non solo proclama le Beatitudini. Egli vive le Beatitudini. Egli è le Beatitudini. Guardandolo, vedrete  cosa significa  essere poveri in spirito, miti e misericordiosi, afflitti, avere fame e sete della giustizia, essere puri di cuore, operatori di pace, perseguitati. Per questo motivo ha il diritto  di affermare “Venite, seguitemi!”. Non dice semplicemente, “Fate ciò che dico”. Egli dice “Venite, seguitemi!”.
7. Con Giovanni Paolo II la pace divenne imperativo e beatitudine quotidiani per tutta la Chiesa in termini esistenziali. Coinvolse i singoli e le comunità, elevandola a misura di autenticità della sequela cristiana, prima di giungere – come seppe fare in diverse circostanze - alla denuncia davanti ai potenti della terra. Ne comunicò l’ansia, considerandola il pane di ogni giorno per i discepoli di Cristo. Sempre assorto nel suo Signore, passava da quella esperienza trasfigurante allo sguardo di pace che regalava alle persone e alle comunità, alle innumerevoli nazioni visitate. Penso all’immagine esposta alla loggia centrale della Basilica di San Pietro il primo maggio 2011, giorno della sua beatificazione. Rivedremo quello stesso sguardo, libero e sereno, gioioso ma insieme pacato perché vagliato nel fuoco del dolore e dell’amore, alla sua canonizzazione. Sarà la domenica della Divina Misericordia da lui istituita. Il gaudio pasquale si ravviverà ancora di più quando per la prima volta lo invocheremo con l’appellativo di santo.
Egli ci affida la responsabilità della pace, dopo averla tante volte posta nel cuore di San Francesco d’Assisi. Ci dice di legare indissolubilmente le opere di pace alla collaborazione con tutte le confessioni cristiane e le religioni del mondo. Ci assicura che il metodo più fecondo per renderla stabile è la fiducia nei giovani. Fu lui a mettere il servizio alla pace sulle loro spalle dopo avervi posto la croce delle Giornate Mondiali della Gioventù. Sono i giovani il “crocevia” della pace e sempre loro la più sicura risorsa per il migliore avvenire tra i popoli.
8. Gli siamo grati per il magistero di pace vissuto nella sua carne, compresa quella paterna indignazione che abbiamo colto nelle parole pronunciate dalla finestra del Palazzo Apostolico alla vigilia del conflitto bellico in Iraq. Allora il suo sguardo si fece cupo: come quello di Gesù, quando decise di andare a Gerusalemme nonostante le sicure prospettive dell’immolazione finale. “Non abbiate paura”! E’ l’esortazione evangelica, con la quale svegliò il mondo, il “papa venuto da un paese lontano” la sera dell’elezione, pronto com’era a lasciarsi “correggere” dal suo popolo, se si fosse sbagliato. Mai arretrò, benché le notti fossero oscure, affinché non si attardasse il giorno della pace.
Lo pensiamo vicino ad un altro pastore buono, al beato Giovanni XXIII. Ambedue furono amici sinceri dell’Oriente e uomini di pace, perciò possiamo confidare ad essi la nostra apprensione e la pena, che si fanno preghiera, per la Terra Santa, la Siria, l’Iraq, l’Egitto e l’intero Medio Oriente: là dove risuonò per la prima volta l’annuncio della pace evangelica, essa è ferita tanto gravemente. Siamo al fianco dei fratelli e delle sorelle di Ucraina avvolti in una stagione terribile che non vuole cedere il passo alla primavera della pace. 
9. Per noi partecipanti alla Cattedra di San Giusto, forse anche a nome dei giovani di Trieste, questa sera è possibile decidere di fare qualcosa di più per la pace, dialogando con essa nelle nostre coscienze e lasciandoci condurre per mano dai due Papi. Forse per questo, incontrando la Congregazione per le Chiese Orientali il 21 novembre scorso, Papa Francesco li unì nel ricordo, mentre esprimeva la sua sollecitudine per le “pietre vive” che in Terra Santa e in altri Paesi del Medio Oriente confessano la fede cristiana accanto alle memorie storiche della Redenzione. Cito: “Il mio pensiero va a Gerusalemme, là dove tutti siamo spiritualmente nati (cfr Sal 87,4). Le auguro ogni consolazione perché possa essere veramente profezia di quella convocazione definitiva, da oriente a occidente, disposta da Dio (cfr Is 43,5). I beati Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, instancabili operatori di pace sulla terra, siano nostri intercessori in cielo, con la Tuttasanta Madre di Dio, che ci ha dato il Principe della Pace”. A nostra volta, potremo essere “consolazione e profezia” per loro se crederemo alla preghiera, la quale “disarma l’insipienza e genera dialogo là dove il conflitto è aperto. Se sarà sincera e perseverante, renderà la nostra voce mite e ferma, capace di farsi ascoltare anche dai Responsabili delle Nazioni” (ibid.).
10. Su questi propositi, che ci ha suggerito il papa venuto questa volta “dalla fine del mondo”, chiediamo la benedizione di Dio per intercessione del beato Giovanni Paolo II. C’è ancora un ricordo che mi commuove intensamente sul tema della benedizione. Negli ultimi giorni di Papa Wojtyla ebbi il privilegio di pronunciare a qualche Angelus domenicale le sue parole e di dare la benedizione papale. In una occasione potei vederlo dal monitor televisivo farsi il segno della croce: immensa era la fatica superata però dalla devozione, con la quale bramava il dono di Dio impartito a suo nome. La croce fu la via da lui percorsa in piena coscienza fino alla fine onde pervenire alla pace senza fine, che è il compimento di ogni divina benedizione. Fu la convinzione comunicata al mondo tante volte e nelle più svariate circostanze, come quella del venerdì santo 1994 al Colosseo, quando evocò un compito comune a tutti i battezzati: “…dobbiamo dire insieme Oriente e Occidente: ne evacuetur crux (cf 1 Cor 1,17). Non sia svuotata la croce di Cristo, perché se si svuota la croce di Cristo, l’uomo non ha più radici, non ha più prospettive: è distrutto! … Questo è il grido di Roma, il grido di Costantinopoli, il grido di Mosca. E’ il grido di tutta la cristianità: delle Americhe, dell’Africa, dell’Asia, di tutti. E’ il grido della nuova evangelizzazione” (AAS 87 – 1995 - 88). Il volto si fece severo, ma era segnato da viva speranza. La parola grave e per nulla affrettata. Come se dettasse un testamento: non svuotate la croce per non distruggere l’uomo! 

Cari amici di Trieste, ci accompagni sempre la benedizione della croce, che il beato Pontefice seppe carpire, con l’ardore del vero credente, giorno per giorno fin quando giunse alla estrema nudità della fede. La sua parola si spense, quel giorno! Proprio allora fu l’erede in pienezza di quella “Chiesa del silenzio”, la cui voce, anche grazie al figlio divenuto Papa, era finalmente tornata sicura! Giovanni Paolo II aiuti pure noi a lasciare tracce della pace evangelica sui sentieri della Chiesa e del mondo di oggi. Con le parole e le opere. Nei fatti e nella verità! Grazie.
Il Sismografo

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“iI Foglio” - Rassegna "Fine settimana" 
(Matteo Matzuzzi) Nella Roma che si prepara a proclamare solennemente santo Giovanni Paolo II il prossimo 27 aprile, dopo la beatificazione a tempo di record avvenuta nel 2011 grazie alla dispensa pontificia firmata da Benedetto XVI, il suo magistero in fatto di (...)