sabato 20 settembre 2014

Genialità del Vangelo



A Como la beatificazione di Giovannina Franchi. 

(Diego Coletti, Vescovo di Como) «La pietà è un dono dello Spirito Santo che tante volte viene frainteso o considerato in modo superficiale e invece tocca nel cuore la nostra identità e la nostra vita cristiana. Questo dono non si identifica con l’avere compassione di qualcuno, ma indica l’appartenenza a Dio e il legame profondo con Lui. Un legame che dà senso a tutta la nostra vita e che ci mantiene saldi, in comunione con il Padre, anche nei momenti più difficili e travagliati». 
Papa Francesco, il 4 giugno 2014, pronunciò queste parole durante la catechesi nell’udienza generale del mercoledì. Quella mattina, in piazza San Pietro, eravamo presenti anche noi, come pellegrini della diocesi di Como, giunti a Roma per esprimere al Pontefice la gratitudine sincera per i doni che la nostra Chiesa ha ricevuto nel volgere di tre anni: la canonizzazione di san Luigi Guanella (23 ottobre 2011), la beatificazione dell’arciprete Nicolò Rusca (21 aprile 2013), la beatificazione di madre Giovannina Franchi (1807-1872), che sabato mattina, 20 settembre 2014, sarà presieduta a Como dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, in rappresentanza di Papa Francesco. Tre testimoni che hanno declinato il dono della pietà con semplicità e concretezza.
Nella Como della seconda metà dell’Ottocento, madre Franchi, fondatrice delle suore infermiere dell’Addolorata, seconda di sette figli di una famiglia della buona borghesia cittadina (il padre era un affermato funzionario di governo), si dedicò con passione, efficacia e umiltà alle periferie, materiali ed esistenziali, che vedeva intorno a lei, bisognose di cure mediche ma anche spirituali. Non distolse lo sguardo dall’umanità deturpata da malattie, povertà, fame, miseria e tante altre fragilità. Fu proprio il dono della pietà, nel senso descritto dal Papa, ad aprirle gli occhi e il cuore, e a renderla capace di riconoscere, in quei volti, tanti fratelli e sorelle ai quali dare persino la vita, pur di non far mancare loro il necessario sostegno.
Era disponibile per tutti, «con gran cuore», come raccomandava alle sue prime compagne: malati di ogni età (con una sensibilità particolare per i moribondi, «che si avvicinano all’eternità»), anziani, ex prostitute, carcerate. Nella sua agenda non mancavano impegni più ordinari, come il catechismo. E la sua casa di via Vitani aprì le porte anche alle catecumene provenienti dalla Svizzera — per le quali era indispensabile un sostegno spirituale — e persino al vescovo Bernardino Frascolla, di Foggia, mandato in esilio per le sue posizioni antigovernative, al quale fu concessa la detenzione coatta presso la residenza di madre Franchi e della pia unione da poco nata. Monsignor Frascolla, che definì l’opera di madre Giovannina «un granello di senapa che si moltiplicherà», celebrò in quegli anni, nella piccola cappella del palazzo vescovile di Como, l’ordinazione sacerdotale di un altro grande esempio di carità, Luigi Guanella.
Riconosciamo in madre Franchi una grandissima «genialità evangelica». Andando oltre ogni pregiudizio, metteva al centro delle sue azioni la persona. Da qui si mosse la sua attività di assistenza, così variegata, che innervò la comunità e si sviluppò in collaborazione con la Chiesa diocesana. La scelta per i “piccoli” non fu avventurosa o improvvisata, ma fondata su una fede vera, che troviamo sintetizzata nei tre capisaldi della regola di vita della congregazione nata con lei: il Crocifisso, l’Eucaristia, la Madonna addolorata. È la prova concreta che se prendiamo sul serio il Vangelo la nostra vita non può che «lievitare bene», come fa il buon pane.
Le circostanze della morte ci confermano la grande generosità della madre Giovannina. Durante l’epidemia di vaiolo nero che afflisse la città di Como fra il 1871 e il 1872, andò lei stessa ad assistere le persone colpite dal morbo, preservando le consorelle e portando diretto conforto agli infermi. Contrasse il contagio in una forma tanto grave da morirne. Nella preghiera che l’accompagnò negli ultimi istanti, non chiese che le venissero risparmiate sofferenze, ma offrì la sua vita «in sacrificio di espiazione per ottenere alla mia città la salvezza da questo flagello». I documenti dell’epoca ci dicono che, dopo il 23 febbraio 1872, in Como non si registrarono altri decessi per vaiolo nero.
Gli scritti della madre, non molti, giunti fino a noi, ci dicono che coltivò per tutta la vita un profondo legame di amicizia con il Padre e il Figlio, attraverso l’azione dello Spirito Santo. Le sue intuizioni spirituali continuano, dopo più di centosessant’anni, a portare frutto nelle realtà ospedaliere, assistenziali ed educative presenti nella diocesi di Como, ma anche in Lombardia, a Roma, a Lugano e Buenos Aires.
L'Osservatore Romano