lunedì 1 settembre 2014

Spermiogramma allegato



Fecondazione eterologa: psicologia del “donatore”

di Francesco Agnoli
Con la sentenza della Corte Costituzionale, presieduta dal loquace Giuseppe Tesauro, il concetto  di famiglia naturale presente nella nostra Costituzione è stato buttato alle ortiche. Come ha notato su Avvenire Paolo Maddalena, presidente emerito della Corte Costituzionale, “l’unica volta in cui la Costituzione fa riferimento al concetto di ‘natura’ è nell’articolo 29, a proposito del matrimonio, definito appunto società naturale”.
La fecondazione eterologa è invece quanto di più artificiale possa esistere, non solo perché smembra le figure genitoriali (dividendo padre genetico da padre sociale e madre genetica da madre sociale), e introduce di fatto l’eugenetica, ma anche perché immette nella filiazione il dominio del mercato. Trasformando la naturale procreazione in artificiale produzione.
Quale è l’elemento più evidente di questa invasione del mercato
nella filiazione?
La nascita delle banche degli ovuli e del seme, inevitabile laddove vi sia fecondazione artificiale eterologa, e la figura del donatore. Banche e donatore. La prima parola indica la verità delle cose: stiamo parlando di compravendita, relativamente all’uomo. La seconda, donatore, è una creazione orwelliana: a parte pochissimi casi di donatori ideologici, l’uomo e la donna che seminano figli loro in giro per il mondo sono venditori che si inseriscono nel ricco mercato alimentato dalla disperazione e dal capriccio.
Debora Spar, docente di Business Administration alla Harvard Business School, ha scritto un testo, Baby Business (Sperling & Kupfer), in cui descrive in modo asettico il mercato del seme, degli ovuli, degli uteri in affitto, soprattutto negli Usa… Riguardo al venditore di seme di solito costui viene attirato tramite materiale promozionale cartaceo, oppure attraverso proclami in rete, e riceve circa 70-80 dollari per volta. Ogni campione di seme è sufficiente per 3-6 fiale, ognuna delle quali viene rivenduta per una cifra tra i 250 e i 400 dollari, con un margine di guadagno per le banche di circa il 2000 per cento. Quanti poveri figli –”nati” da una masturbazione a pagamento, invece che da un atto d’amore- può spargere in giro il poveretto? In Italia, prima della legge 40, vi furono persone, in qualche caso malati di aids, che arrivarono a donare centinaia di volte; quanto alle donne “esisteva un vero e proprio mercato di ovociti rubati, e anche molti embrioni cambiavano proprietario” (Chiara Valentini). Il mercato degli ovuli muove cifre molto più alte: infatti la cosiddetta ovodonazione è assai pericolosa. Le donne che vendono i loro ovuli vivono sulla loro pelle una pratica altamente invasiva, che può determinare emorragie, sterilità, tumori e talora persino la morte. Le denunce di questo crescono di continuo nei paesi in cui l’eterologa è legale da tempo. Ma pecunia non olet: nel 2004 molti centri per la fertilità americani proponevano cataloghi di ovuli con un costo tra i 3000 e gli 8000 dollari!
Se il movente principale della vendita del proprio patrimonio genetico (l’unico che si possa vendere: non si commerciano né il sangue, né i reni, ma il proprio patrimonio genetico sì!) è il denaro, resta da chiedersi chi siano questi venditori.
Secondo Willy Pasini, psichiatra e sessuologo, “bisogna dire che talvolta il donatore stesso può percepire in maniera psicologicamente negativa la sua funzione di stallone. Per esempio in una ricerca condotta da Tekavcic, un certo numero di donatori intervistati un anno dopo hanno detto di aver sentito uno sgradevole sentimento di responsabilità nei confronti del figlio nato dal loro sperma. Il 25% di questi donatori avevano pensato una volta o l’altra alla realtà del loro figlio biologico, il 20% avrebbero voluto conoscere questo bambino e il 10% hanno rimpianto di aver dato il loro sperma. E’ stato pure segnalato il caso di un donatore professionale danese che avrebbe avuto una grave depressione con tentativo di suicidio quando è stato schiantato dall’idea delle responsabilità che pesavano su di lui nei confronti dei numerosi figli che aveva ‘seminato’ in Danimarca“.
Leonardo D’Ancona, psicologo e psicoanalista, denunciava già negli anni Ottanta che “da parte del donatore si evidenziano problemi di grande importanza emotiva; si deve dire, anzitutto, che il donatore professionale può essere tale per il fatto di avere una personalità instabile e nevrotica; salvo eccezioni, chi è sereno e soddisfatto di se stesso, non sceglie infatti di fare il donatore di seme. Queste scelte hanno un significato ‘riparativo’, cioè tendono a realizzare ciò che non si è verificato naturalmente in se stessi… vi è anche chi dà il proprio seme come esibizione della propria forza…“, della propria “potenza” (Luciano Ragno, Un figlio ad ogni costo, Roma, 1984).
Cercando in internet, si trovano annunci, con annesse generalità e dietro promessa di pagamento, di questo tenore: “Sono sano al 100% e posso dimostrarlo: ho test che certificano che non ho hiv, sifilide, clamydia nè altra malattia sessuale trasmissibile col seme. Ho anche uno spermiogramma certificante che ho una ottima mobilità… Sono alto 180, capelli castani, occhi neri mai nessuna malattia nè problema al mio Dna…posso mandarvi anche delle foto…”. Oppure ci sono mogli che gestiscono gli affari dei mariti: “Salve sono la moglie di un over 50 bellissimo (in gioventù), intelligentissimo, atleta, carattere pacato, salute di ferro…peccato aver fatto solo due splendidi figli! E’ per questo che penso possa essere un ottimo donatore. Ma l’età è così tassativa?“.
I figli oggi si producono andando in banca o in rete. E’ la famiglia “artificiale” al posto di quella naturale dei padri costituenti.
Il Foglio

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Senza più padri né madri: è il futuro, bellezza
di Rino Cammilleri
Nell’Ottocento furoreggiavano i cosiddetti feuilleton, romanzi zeppi di intrighi, contorte vicende familiari, saghe complicatissime di poveri che un colpo di scena faceva ritrovare nobili o nobili che un colpo di scena gettava sul lastrico. Quasi sempre spuntava un figlio segreto o perduto, che ribaltava la situazione e permetteva all’autore di sciogliere nodi ingarbugliati con un coup de theatre finale. A questo tipo di fiction non si sottraevano neppure i romanzieri più celebrati, e anche il più volte portato sugli schermi Jane Eyre finisce con un’eredità inaspettata che rovescia i tavoli.
Ma quella era fantasia. Oggi la scienza l’ha realizzata (infatti, è appropriato chiamarla fantascienza). Sì, perché grazie alla fecondazione eterologa non sai mai di chi sei figlio e un padre sconosciuto può saltar fuori quando meno te l’aspetti. Infatti, un donatore anonimo può fecondare un sacco di donne, col risultato di mettere in giro un sacco di ragazzini che non sanno di avere lo stesso padre. L’idea viene utilizzata da un’esordiente nel campo della narrativa, Susanna Manzin, che ci ha imbastito attorno il romanzo Il destino del fuco. Qui la sorte fa confluire nello stesso agriturismo, negli stessi giorni, un gruppo eterogeneo di persone, due delle quali sono donne che hanno fatto ricorso alla fecondazione eterologa. Ne hanno avuto due figli, adesso ventenni, un maschio e una femmina. I due giovani sono amicissimi, e forse qualcosa di più. Dalle conversazioni udite, il padrone dell’agriturismo, fatti due conti, scopre che il padre dei due giovani è lui, perché vent’anni prima aveva donato il seme nella clinica in cui quelli sono nati. Perciò sono fratelli e in procinto di commettere incesto. 
La scoperta lo mette in subbuglio e il subbuglio porta allo svelamento dell’inghippo. Tragedia incombe. Questa è l’amara riflessione della ragazza, la cui madre l’ha concepita artificialmente per motivi ideologici, quando la realtà le si palesa: «Se penso che si mettono al mondo bambini da un solo padre, tutti coetanei, nella stessa città. E nessuno pensa che quei bambini potranno un giorno conoscersi, frequentarsi, innamorarsi (…). E pensare che mia madre mi ha riempito la testa di ecologia. E io sono stata fatta in un laboratorio». E adesso? Già, perché il vero padre tiene famiglia felice ed ha pure due bambini. Così, l’agriturismo diventa un castello dei destini incrociati e, comunque vada a finire (ovviamente, non diremo nulla del finale), sono tutti perdenti. Una storia del genere, la si giri come si vuole, non può finir bene, perché quando l’apprendista stregone interviene sul corso naturale delle cose il risultato è il danno. Irrimediabile. 
La legge avalla il «diritto al figlio», ma deve anche avallare il diritto del figlio, divenuto maggiorenne, a sapere chi sia suo padre. Con tutto quel che ne deriva in termini legali, ricco pasto per avvocati e notai. Certo, la domanda del romanzo è: e se due, senza sapere di essere fratelli, procreano? La risposta è facile: se, come presumibile, nasceranno figli malformati, si può ricorrere all’aborto. Oppure attendere con pazienza che la Scienza risolva anche questo problema con qualche altra diavoleria. Attendiamo dunque il momento in cui la situazione sociale sarà così ingarbugliata da richiedere una decisione (legislativa) drastica: i figli si faranno solo sotto controllo e selezione statali, la copula servirà solo per divertirsi. Brave new world. Eh, Aldous Huxley era davvero un profeta, vedrete che prima o poi gli faranno il monumento a cavallo. 
Per quanto riguarda la nostra scrittrice esordiente, ci permettiamo un paio di consigli. Un plot del genere forse avrebbe richiesto un maggiore scavo psicologico dei personaggi e, dunque, l’impiego di un maggior numero di pagine. Infine, un appropriato editing avrebbe ovviato ad alcune ripetizioni. Ma questo è solo un problema di scrittura, trascurabile in un’opera prima e risolvibile in un’opera seconda.