martedì 5 aprile 2016

Tra immagini e teologia



I volti della misericordia nell’arte.

(Lucetta Scaraffia) Subito dopo l’indizione da parte di Francesco del giubileo della misericordia si sono moltiplicate le pubblicazioni dedicate a questa dimensione fondativa della tradizione cristiana, e fra queste spicca il bel libro di Giovanni Santambrogio I volti della misericordia nell’arte (Milano, Ancora, 2016, pagine 159, euro 29,50). Con il risultato di mettere in evidenza un fatto, segnalato di recente dal cardinale Kasper, e cioè che era stato imperdonabilmente trascurato fino ad ora «un tema tanto centrale e fondamentale» anche nella teologia, «ridotto a un piccolo sottolemma della giustizia, su cui, inoltre, gli autori spesso si mostrano in difficoltà». Al punto che — come ha scritto nella bella introduzione Ferruccio de Bortoli pubblicata per intero in questa pagina — il termine sembrava prerogativa quasi solo di Allah, «potente e misericordioso», magari così invocato dai fondamentalisti.
Il libro di Santambrogio è senza dubbio uno degli esempi più riusciti di questo filone di indagine, grazie al fatto che sa mescolare riflessioni teologiche e un’ottima conoscenza della storia dell’arte, insieme alle più recenti omelie di Papa Francesco. Un libro colto, vivace e originale, a cominciare dalla scelta delle immagini considerate significative per comprendere la misericordia.
Prima opera d’arte evocata è infatti la Vocazione di san Matteo di Caravaggio, strettamente collegata alla vocazione sacerdotale di Francesco, come lo stesso Pontefice ha più volte raccontato, capolavoro che è anche una perfetta rappresentazione del suo motto episcopalemiserando atque eligendo (“ebbe misericordia di lui e lo scelse”). Misericordia è quindi — ce lo insegna Gesù — perdonare e scegliere un peccatore, perché, come scrive Santambrogio, in questo quadro Caravaggio «racconta in maniera esemplare che cos’è l’incontro e cos’è l’orizzonte infinito e drammaticamente concreto della misericordia». E il fatto che, mentre Gesù e Pietro sono vestiti con tuniche antiche, Matteo e i suoi compagni abbiano vestiti cinquecenteschi ci fa capire che «la chiamata dell’apostolo si ripete nella storia attraverso altrettante chiamate che raggiungono ciascun uomo».
Alla domanda di cosa sia misericordia, Rembrandt ha risposto con il meraviglioso quadro del Ritorno del figliol prodigo, dipinto in tarda età, nel quale il prolungato abbraccio con cui il padre stringe il figlio che temeva perduto è carico dell’amore profondo di chi sa che cosa è la vera accoglienza.
La terza intensa raffigurazione della misericordia Santambrogio la trova nella Trinità di Masaccio, e in particolare nel corpo e nel volto del Figlio. Qui la raffigurazione ortodossa del mistero trinitario si fonde con una rappresentazione più umana, in cui la presenza ai piedi di Cristo di Maria e di Giovanni evocano l’amore familiare. Qui «l’amore si presenta realisticamente» e diventa più comprensibile a tutti.
Ma anche Maria, soprattutto nella sua immagine più misericordiosa, quella in cui accoglie e protegge i figli sotto il suo mantello, è scelta dall’autore come icona della misericordia. Nel trittico di Piero della Francesca il mistero della misericordia divina trova in Maria il punto più alto di raffigurazione: è proprio l’impassibilità delle figure del grande artista, indifferenti alle emozioni, che «conduce chi guarda nelle profondità del mistero svelandone i tratti per gradi e lasciando sempre aperto il desiderio di conoscenza».
L’autore conclude il suo percorso di meditazione passando infine a immagini che hanno raffigurato le opere di misericordia corporale e quelle di misericordia spirituale. Naturalmente le prime si prestano maggiormente alla dimensione figurativa, come dimostra la serie dipinta dal Caravaggio, che comprende anche un’immagine che oggi percepiamo come inquietante: una giovane donna che allatta un prigioniero anziano. Questa immagine, che riprende un racconto dello storico romano Valerio Massimo, in cui una figlia garantiva la sopravvivenza al padre prigioniero con il suo latte, sintetizza due opere di misericordia: visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati. Si tratta di una raffigurazione sintetica di grande forza, tanto che successivamente sarebbe divenuta l’icona della Pietà romana per i giubilei secenteschi, quando la Chiesa, dimostrando la sua misericordia anche tramite la propaganda artistica, intendeva rispondere alle accuse dei riformati.
Tornare a queste immagini antiche suggerisce dunque uno sguardo profondo e coinvolgente, costituendo un esercizio prezioso per questo giubileo. 
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Nessuno è perduto 
(Ferruccio De Bortoli) La misericordia è rimasta a lungo nel ripostiglio polveroso della dottrina cattolica. Eppure, come scrive nel suo bel libroMisericordia il cardinale Walter Kasper, è un concetto fondamentale del Vangelo. Perché questa parola chiave dell’insegnamento e della pratica pastorale è stata sottovalutata o dimenticata?
Una spiegazione ce la fornisce lo stesso Kasper quando s’interroga sui complessi contemporanei della Chiesa, sempre in bilico tra aperture moderniste e rigidità dottrinali. La misericordia è stata a lungo scambiata per debolezza teologica, quasi rappresentasse una visione dolciastra o melodrammatica della fede. «Una morbidezza esangue ed estenuata». Ciò ha comportato una definizione algida e metafisica del divino. Distante, freddo. Non in grado di soffrire con noi, di partecipare alle nostre miserie, di condividere le nostre povertà. Un Dio così descritto può incutere timore, rispetto, ma difficilmente può apparire simpatico, nota Kasper. La misericordia è stata poi confusa con la giustizia divina, che è un’altra cosa. I peccati vengono puniti anche se Gesù accoglie il pubblicano e lo perdona. Ma lo perdona perché si è umiliato e si è pentito.
Così è accaduto — per questa prolungata assenza della parola nel nostro linguaggio pubblico — che l’invocazione al Dio misericordioso l’abbiamo ascoltata quasi soltanto da parte islamica, come se appartenesse unicamente alla sfera religiosa dei musulmani. E non di rado pronunciata da estremisti a sigillo di azioni terroristiche, mossi da un odio cieco e da un fanatismo religioso che non hanno nulla di misericordioso. Ma, riflettendo, anche nel nostro lessico familiare la misericordia era scomparsa. Un termine desueto, ingiallito, come una cartolina d’altri tempi. Un’espressione arcaica. «Non ha avuto misericordia». Un modo di dire. Ma non più in uso.
Il Novecento dei totalitarismi e dei massacri, delle inutili sofferenze, aveva contribuito a depotenziare il concetto di misericordia, a svilirlo nella sua dimensione di arrendevole rassegnazione al destino di violenza di troppe guerre ravvicinate e dittature sanguinose. Era difficile trovarla tra massacri e genocidi. Dov’era finita la misericordia di Dio? E dov’era finito lo stesso Dio davanti ai cancelli di Auschwitz (Jonas)? Dove si era eclissato (Buber)? O era addirittura morto (Nietzsche)?
Il pontificato di Francesco ha eletto la misericordia a tema guida della propria predicazione quotidiana. Accompagnata da un’altra parola chiave: tenerezza. Il giubileo straordinario corona questa intuizione del Papa gesuita che si dichiara peccatore e dice: «Chi sono io per poter giudicare?». E si batte per una Chiesa povera e con cuore, cioè misericordiosa. Partecipe dei destini di ognuno di noi.
La misericordia è raccontata nei Vangeli da molte parabole. La particolarità di questo libro, ideato e scritto da Giovanni Santambrogio, è quella di arricchire le parabole e i testi evangelici sulla misericordia con alcuni dipinti celebri che ne sono, se vogliamo, la migliore delle illustrazioni.
La vocazione di Matteo del Caravaggio ci racconta che la misericordia è esperienza casuale, improvvisa. È sorpresa di vita. Un momento illuminante che affascinò anche lo sconosciuto vescovo argentino Bergoglio tutte le volte che a Roma gli capitava di entrare in San Luigi dei Francesi. Il dito di Gesù che indica Matteo. Il futuro Papa si sentì come lui. Matteo era un pubblicano, un pubblico peccatore. «I pubblicani e le prostitute vi passano davanti, vi precedono nel Regno di Dio» (Matteo, 21, 31). L’abbraccio che Gesù riserva ai peccatori desta scandalo anche tra i suoi seguaci. Ma come? Noi abbiamo fatto tanti sacrifici, applichiamo le regole e tu banchetti con gli altri? Spiega Enzo Bianchi nel suo splendido libro Raccontare l’Amore che la buona notizia del Vangelo è per chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di Dio. Come Matteo. Francesco dice di essersi sentito, al momento dell’elezione in conclave, come «un peccatore al quale il Signore ha guardato». S’identifica nel quadro di Caravaggio e nella parabola del fariseo e del pubblicano, descritta da Luca. E quel brusio di incomprensione che accompagna nei Vangeli le scelte scandalose di Gesù è forse paragonabile alle resistenze della Curia, alle incomprensioni dei porporati? Alle insofferenze di una nomenclatura della Chiesa che a volte appare solo aggrappata, come il ricco delle Scritture, al vestito di porpora e di bisso? Il ricco che si contrappone a Lazzaro e il cui destino è l’Inferno? Ma la ricchezza non è una colpa. Zaccheo si salva. Lo è quando non la si condivide o la si costruisce sfruttando e impoverendo gli altri. Dante non mette i ricchi all’Inferno, riserva il contrappasso agli avari (i massi da spingere) e agli scialacquatori (inseguiti da cagne nere).
Il ritorno del figliol prodigo, dipinto da Rembrandt in età matura, svela lo stato d’animo dell’autore, forse accoglie i segni dei suoi lutti, ritrae il senso dell’attesa, la speranza di una svolta. Lo sguardo all’orizzonte di un padre in ansia per il destino del suo figlio più ribelle. Lo riconosce «quando era ancora lontano» e gli corre incontro gettandogli le braccia al collo. È la grandezza della misericordia divina. L’amore verso chi si è perduto. È il pastore che va in cerca della sua pecora smarrita pur avendone altre novantanove e correndo il rischio di lasciarle incustodite. Nessuno è perduto. Il riscatto è possibile. La misericordia è lo strumento che disegna il cammino della redenzione. Una riabilitazione che può apparire ingiusta al figlio più disciplinato. E non è compresa dalle persone che nella penombra assistono, nel quadro di Rembrandt, all’abbraccio fra il padre ben vestito e in lacrime e il figlio che, perduta la sua eredità, ha condiviso il giaciglio con i porci senza potersi cibare delle loro carrube.
E la rappresentazione di Dio, del volto del Padre, della Trinità, che trasmettono in molte opere d’arte una immagine distaccata e austera, irraggiungibile nella severità dei tratti, possono esprimere i sentimenti della misericordia o no? L’affresco della Trinità, conservato in Santa Maria Novella a Firenze, è scelto da Santambrogio per la semplice ragione che, nell’affrontare il grande mistero di Dio uno e trino, Masaccio si avvicina il più possibile ai fedeli che lo contemplano. Ne suscita lo stupore, ne comprende il disagio nell’interpretazione del dogma. Non è un quadro di culto, di sola e irraggiungibile bellezza, ma è un racconto umano, quasi didascalico, nella rappresentazione della famiglia divina. Anche questo un segno della misericordia, a giudizio dell’autore. La sofferenza, le passioni, il dolore di Dio sono quelli di ognuno di noi. Forse il segno artistico — ha ragione Santambrogio — si fa vicino al sentire popolare. Una sintesi perfetta tra mistero della fede e vita quotidiana.
Salve, Regina, mater misericordiae. L’antifona è conosciuta. Nel capitolo dedicato alla madre di Gesù, Santambrogio spiega quanto sia stata tormentata, a livello di dottrina, la definizione della sua figura. E il riconoscimento di quel mater misericordiae è arrivato solo nel 1980 con l’enciclica Dives in misericordia di Giovanni Paolo II. Al di fuori di queste sfumature dottrinali che lasciamo agli esperti, non si può non riconoscere che nel vissuto popolare e familiare di ciascuno di noi, credente o no, la figura di Maria è stata sempre quella più accessibile, perché madre indulgente e comprensiva. Proverbi, detti, modi di dire ne sono una costante testimonianza. Una figura rispettata anche dai non credenti e persino dagli anticlericali. Il Polittico della Misericordia di Piero della Francesca è scelto come il dipinto che esprime nel contempo la regalità e la semplicità di Maria. Ed è significativa la riproposizione dell’inno alla Vergine dal Canto XXXIII del Paradiso dantesco. «Donna, se’ tanto grande e tanto vali». Nella Commedia, san Bernardo prega la Vergine per consentire a Dante di elevarsi alla vista di Dio. E quel raggio di luce divina, «l’amor che move il Sole e l’altre stelle», è forse racchiuso nella luminosità dello sguardo che Maria ha nelPolittico.
L’ultima parte del libro di Santambrogio è una piccola ma significativa storia delle opere di misericordia: l’importanza delle confraternite, il dovere di assistere gli ammalati, soccorrere i bisognosi. A partire dall’epoca medievale. E soprattutto dopo la Riforma. Uno degli esempi che l’autore ci propone è quello dell’ospedale Maggiore Ca’ Granda di Milano. Se ci pensiamo, tutti i ritratti dei benefattori che sono ancora conservati negli archivi, a figura intera o a mezza (se il contributo era minore), sono tante immagini di ordinaria misericordia, testimonianze del dovere cristiano della carità, della restituzione. Le Sette opere di misericordia del Caravaggio, commissionato per documentare l’opera dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, nel quale vi è tutta la veridicità del dolore, raffigura magnificamente i volti della malattia e della speranza. Un ciclo di affreschi attribuiti al Ghirlandaio e alla sua scuola testimoniano invece della misericordia dei «Buonomini» a Firenze, che si presero cura anche dei cosiddetti poveri vergognosi. Ci insegnano che la persona va rispetta nel suo insieme, che va assistita senza umiliarla e offenderla, senza colpevolizzarla per la sua condizione, elevandola nello spirito evangelico, ma molto più laicamente trattandola con la dignità che spetta a un cittadino.
La miseria non è una colpa. Come purtroppo siamo portati a pensare nell’economia di mercato. Ma anche se lo fosse, la misericordia è condivisione, è sentire con il cuore, immedesimarsi nella condizione dell’altro. Un prossimo che troppo spesso non vediamo. O, peggio, ci appare soltanto come il riflesso vanitoso di noi stessi.
L'Osservatore Romano