mercoledì 1 febbraio 2012

Non è costui il carpentiere?



Di seguito il Vangelo di oggi, 1 febbraio, mercoledi della IV settimana del Tempo Ordinario, con un commento,  un testo breve di sant' Agostino e una riflessione del Cardinal Biffi, Arcivescovo Emerito di Bologna.

                                                                        Predicazione di Gesù a Nazaret, Miniatura


Grazie alla fede, la vita nuova sorta dal battesimo, 
plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. 
Nella misura della sua libera disponibilità, 
i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo 
vengono lentamente purificati e trasformati, 
in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita. 
La "fede che si rende operosa per mezzo della carità" 
diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione 
che cambia tutta la vita dell’uomo.

Benedetto XVI, Porta fidei




Dal Vangelo secondo Marco 6,1-6. 


Partito quindi di là, andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando.


IL COMMENTO 


I discepoli seguono Gesù di ritorno nella sua Patria dove impareranno quanto seria sia la chiamata che li aveva raggiunti. Lo sguardo di Gesù li aveva colti nelle loro ore, al lavoro, in famiglia, persino sui luoghi del peccato. Quello sguardo si era fatto parole, irresistibili, vive, efficaci, energiche, come una spada a doppio taglio giunta sino al fondo della loro anima scrutandone i recessi; improvvisamente si erano sentiti conosciuti, ed amati, come mai. Impossibile non seguirlo, non lasciarsi attrarre da quell'Uomo che gli era entrato dentro e non si era scandalizzato di loro. Peccatori, impostori, erano quello che erano, rozzi ed ignoranti, ma Lui li aveva guardati e aveva sfiorato il fondo del loro cuore, e lo aveva amato. Non aveva posto condizioni, era tutto gratuito, era un cammino di libertà che si schiudeva, e non si poteva resistere. Li aveva strappati alla casa, alla famiglia, alla Patria. Erano con Lui, e questo bastava a lasciar tutto in un istante e seguirlo.


Avevano visto miracoli, li aveva compiuti anche a casa loro. Segni d'un Cielo che era diventato Terra, e di una Terra che s'era innalzata sino a diventare Cielo. Erano stati testimoni delle vittorie di Gesù, sui demoni, i peggiori, i più pericolosi; avevano visto la libertà sui volti stupiti di chi aveva passato una vita oppresso dalla schiavitù. Avevano contemplato le opere e le parole di Gesù, senza capire, come storditi e con il cuore indurito, interrogandosi su chi fosse in realtà. Si erano impauriti nella tempesta, avevano dubitato e mormorato. Ma erano ancora lì, con Lui, dietro di Lui, seguendone le orme.


E ora era Nazaret, la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici, la sua Patria. Ora lo avrebbero conosciuto meglio, sulle tracce della sua storia, tra le pieghe della sua vita nella carne. Ed erano giunti, di sabato, nella Sinagoga; la sua scuola, i suoi maestri, le sue preghiere. Ma succede qualcosa d'imprevisto, e ancora una volta, come tante altre, le parole di Gesù scuoteranno le loro esistenze, trancieranno certezze, illumineranno, formeranno. Nazaret sarà l'esperienza dello scandalo.


La Patria di Gesù, la carne della carne di Lui, imbattendosi nelle sue parole, si ribella, si agita, ed è stupore, e sono domande, ed è scandalo. Questa parola - skandalon - significa letteralmente "pietra che fa inciampare". Gesù, per la sua Patria, per amici e parenti, era come un sasso capitato tra i piedi, e tutti, tranne Maria, v'erano inciampati. La profezia è come frustrata, il potere che Gesù aveva manifestato nei villaggi vicini e perfino in terra pagana, si infrange sui bastioni della carne. Quel vedere e soffermarsi solo sui tratti somatici, quel controllo doganale dei documenti anagrafici, quel rimestare nei ricordi per restarne imprigionati, quei criteri soffocati nell'evidenza della ragione piantata sulla superficie, impediscono a Gesù di operare prodigi. E' lo scherzo che gioca la carne. Essa è come fiore del campo, al mattino fiorisce, al tramonto dissecca. E' incapace di distendere lo sguardo oltre le apparenze, è meschina. La governano gli umori, i sentimenti, e sono vapori, vanità di vanità, che il vento porta via in un baleno: affetti, amori, passioni, la melma che muove la carne. A Nazaret come nelle nostre case, nelle nostre famiglie. Gelosie, invidie, competizioni, speranze, progetti, regole e leggi, tutto quanto agita le relazioni familiari, i legami di sangue. Anche quando gli affetti sembrano più puri, il veleno della corruzione ne mina la limpidezza e la gratuità. Ne siamo tutti testimoni, anche i bimbi più piccoli ne fanno esperienza quotidiana. Le domande che si scambiavano a Nazaret di fronte a Gesù, sono le stesse che sorgono nei nostri cuori e chiudono i battenti in faccia al potere di Cristo. 


Il Salmo 50 fotografa la realtà di ogni uomo: "Nel peccato mi ha concepito mia madre". Il peccato originale si trasmette come una malattia ereditaria, è necessario un intervento alla radice per estirparlo. Non si tratta di selezione eugenetica, Dio non pensa come l'uomo; se così fosse saremmo tutti embrioni strappati al seno di nostra madre. Lo scandalo della carne si manifesta nell'incapacità di amare l'altro così come è, di lasciarlo libero, senza far mancare aiuto e misericordia. Quantameraviglia, la stessa di Gesù di fronte all'incredulità dei suoi compaesani, quando ci ritroviamo rifiutati e disprezzati. E quanti accanimenti per ovviare a questo, per indurre gli altri ad accettarci, a riconoscerci il ruolo e l'identità. Quanti genitori legano i figli sino a soffocarli, spesso subdolamente; o sono incapaci di correggere per paura di essere rifiutati; quanti coniugi vivono in un continuo compromesso che accumula fascine al fuoco del risentimento; e quante esplosioni e incendi, e devastazioni, e matrimoni distrutti, e figli sbandati. La carne non può superare il suo limite, e questo è il peccato. Per questo Gesù dirà che chi non odia suo padre, sua madre, il marito, la moglie, i fratelli, i figli, la Patria, persino la propria vita, non può essere suo discepolo. Non può seguirlo. Chi ama la sua vita, chi fa un assoluto di questa vita di carne fatta di schemi, relazioni, criteri, affettività, la perderà, gli sfuggirà di mano come sfugge qualcosa di mano quando si inciampa. Chi fonda la sua vita sulla carne vivrà la maledizione della corruzione, non vedrà alcun bene, sarà cieco e senza discernimento, e inciamperà, si scandalizzerà.


La carne è un diaframma che si frappone tra lo spirito dell'uomo e Dio, ne impedisce il contatto libero e gioioso. La carne spinge all'adulazione, all'autogratificazione, alla difesa; la carne usa di tutto e di tutti per se stessa, non conosce gratuità. E, all'apparire della sofferenza, del fallimento, della solitudine, si scandalizza. La carne, nello svelarsi per ciò che è, si disintegra ed è il terremoto dell'esistenza, tutto crolla, e lo scandalo ci uccide. E' l'esperienza di Pietro, profonda, simile a quella di ciascuno di noi. Il Padre dal Cielo gli rivela il cuore della fede, l'identità di Gesù, e gli schiude le labbra per proclamare che quell'uomo che viene da Nazaret è il Figlio di Dio, il Kyrios, il Signore. Pietro assapora la beatitudine di chi ha superato i vincoli e l'impotenza della carne, l'intimità con Dio, e, per questo, s'è visto chiamato e costituito come pietra di fondamento della Chiesa. La fede donata dal Padre, il tesoro nel vaso di creta della sua natura così fragile. Ma l'annuncio della passione risveglia la carne ancora viva, l'uomo vecchio erompe in un grido di difesa e cristallizza in parole di sdegno lo scandalo provocato dalla Croce. 


Pietro è inciampato perchè voleva correre davanti a Cristo, guidarlo sui sentieri del mondo e della carne, secondo la sua logica, quella che non conosce il Cielo. E Pietro dovrà sentirsi apostrofare da Gesù come satana, colui che della carne ha il dominio guidandone il pensiero, così diverso da quello di Dio. E nello stesso tempo Pietro diviene scandalo per Gesù, la pietra che invece di fondare la Chiesa, si frappone come ostacolo al suo cammino verso il compimento della volontà del Padre. E' lo scandalo della Patria di Gesù, incapace di uscire dalla conoscenza effimera della carne. I suoi pensano d'aver capito, di sapere, e non si rendono conto che non possono credere perchè cercano gli uni negli altri la gloria, la sostanza, il peso della vita, secondo il significato della parola greca. Chiedono vita ai legami di sangue, alle tradizioni dei padri, alle conoscenze epidermiche, e cadono e si spengono i loro occhi, e rifiutano ogni miracolo. E' la maledizione di chi non vede oltre il fatto biologico, ed il bene, l'amore misericordioso di Dio, scivola via. Come succede a noi, ogni giorno.


Per questo Gesù dirà a Nicodemo che occorre rinascere dall'alto, entrare in un nuovo seno, che è quello della Chiesa, il fonte battesimale. Immergendosi nell'acqua del battesimo si odia tutto quello che si frappone come un ostacolo a Cristo, alla sua vita, allo Spirito Santo. E l'uomo nuovo è libero, come il vento, e vive ogni relazione liberamente, seguendo le orme di Cristo, anche quando conducono per sentieri impervi e che non vorremmo percorrere. Come sarà per Pietro, che, da vecchio, sarà condotto dove la sua carne non vorrà andare. Per questo non si può cercare di raccattate i cocci delle nostre relazioni, e andare a seppellire i morti lasciati lungo la via, tutti i rapporti familiari che non possono essere sanati per la forza della carne, della buona volontà, delle terapie di coppia; non si tratta neanche di andare a salutare quelli di casa, di cercare di spiegarsi, di lasciarsi in pace dentro promesse e propositi che non compiremo mai. Chi guarda indietro con rimpianto, chi pensa a quel che avrebbe potuto fare, chi ancora cerca nella carne l'impulso ad essere di Cristo, non può seguirlo.


Ma il Signore passa e chiama, e la sua Parola scende fino all'intimo, e recide le radici velenose, e fa male certo, ma è un dolore che libera, e fa nuove tutte le cose. Non possiamo essere se non seguendo il Signore. Non possiamo amare se non odiando la schiavitù della carne. Essa è redenta e sanata, liberata e santificata da Cristo. L'incarnazione fa nuova la carne, la conduce alla Croce e la innalza sino al Cielo. E' il cuore della fede della Chiesa, la risurrezione di Cristo e la risurrezione della carne. Ma essa non avviene senza la Croce, scandalo e stoltezza per chi non vuol ascoltare, salvezza per chi accoglie l'annuncio del Signore.


A Nazaret i discepoli hanno cominciato ad imparare tutto questo, come noi nella Chiesa. Essa è un segno del Cielo, che trascende la carne accettando e prendendo su di lei il rifiuto e il disprezzo. E, a poco a poco, attraverso un lungo cammino, impareranno che l'unica Patria, l'unica famiglia di Gesù sono quelle composte da chi ascolta e custodisce e compie la Parola di Dio. Quella stessa Parola che li aveva intercettati tra le reti della carne, li libererà, ne farà uomini nuovi, e si compirà in loro per la grazia dello Spirito Santo; saranno così, come ognuno di noi, per tutte le generazioni, i veri parenti di Gesù, i suoi fratelli, le sue sorelle, la sua madre; ed ogni luogo che calcheranno sarà la sua Patria, sino a giungere a quella celeste, il Regno promesso che ci attende in Cristo Gesù.




Sant'Agostino (354-430), vescovo d'Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorsi


« Non è costui il carpentiere ? »


Poiché la superbia ci ha fatto allontanare, l'umiltà ci farà ritornare... Come il medico, stabilita la diagnosi, cura la malattia nella sua causa, anche tu guarisci l'origine del male, guarisci la superbia ; allora non ci sarà più in te alcun male. Per guarire la tua superbia, il Figlio di Dio e sceso ; si è fatto umile. Perché inorgoglirti ? Per te Dio si è fatto umile. Forse ti vergogneresti a imitare l'umiltà di un uomo ; imita almeno l'umiltà di Dio. Il Figlio di Dio si è fatto umile ; è venuto nell'uomo. A te, viene ordinato di essere umile ; non ti viene domandato di diventare una bestia. Lui, Dio, si è fatto uomo. Tu, uomo, riconosci che sei uomo ; tutta la tua umiltà consiste nel conoscerti.
Ascolta Dio come ti insegna l'umiltà : « Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato » (Gv 6, 38). Sono venuto, umile, ad insegnare l'umiltà, come maestro di umiltà. Colui che viene a me, viene incorporato in me ; diviene umile. Chi aderisce a me sarà umile ; non fa la mia volontà, ma quella di Dio. Perciò non sarà respinto (Gv 6, 37), come quando era superbo.


* * * 



Riporto di seguito un contributo di Giacomo Biffi, Arcivescovo Emerito di Bologna, che traggo
da "L'Osservatore Romano" del 20 gennaio scorso.


 


«Chi dice la gente che io sia?» domanda anche oggi Gesù

IDENTIKIT DEL MESSIA


di Giacomo Biffi
Cardinale arcivescovo emerito di Bologna

 

Ciò che primariamente colpisce nel magistero di Gesù è la straordinaria chiarezza di idee. Tutto è lucidamente enunciato senza ambiguità o tentennamenti. Le esitazioni, il rifugio nel soggettivismo, le formule dubitative («forse», «secondo me», «mi parrebbe»), così frequenti nel nostro dire, non si incontrano mai nei suoi discorsi, dai quali sono lontanissimi i vezzi, le civetterie,l’apparente arrendevolezza del “pensiero debole”. Gesù manifesta anzi una sicurezza che sarebbe persino irritante, se non fossimo contestualmente conquistati dall’oggettiva elevatezza e luminosità del suo insegnamento.

Pur nella grande varietà degli argomenti toccati, non c’è frammentazione o incoerenza nella visione di Cristo. Tutto è raccolto e unificato attorno a due temi fondamentali sempre ricorrenti: quello del Padre (un padre che sta all’origine di qualsivoglia esistenza) e quello del Regno, traguardo di ogni tensione delle creature e del loro peregrinare nella storia. In lui però non c’è nulla né del pensatore distratto, così assorto nelle sue alte elucubrazioni da non accorgersi nemmeno più delle piccole cose, né del superuomo che disdegna di lasciarsi impigliare negli accadimenti senza rilevanza e senza gloria. Al contrario: Gesù si dimostra un osservatore attento — anzi interessato e compiaciuto — della realtà “feriale” nella quale siamo tutti immersi.

Le cose più umili vengono utilizzate nei suoi paragoni: i bicchieri e i piatti da lavare, la lucerna e il lucerniere, il sale da usare in cucina, il bicchiere d’acqua fresca, il vino vecchio che è più buono, il vestito rattoppato, la pagliuzza e la trave, la cruna degli aghi, i danni provocati dalle tarme e dalla ruggine, gli effimeri fiori del campo, le prime foglie del fico, l’arbusto di senape, il seme che cade in terreni diversamente accoglienti e produttivi, la rete dei pescatori che raccoglie al tempo stesso pesci commestibili e pesci da buttare, la pecora che si allontana dal gregge e si perde. E questo è un elenco che si potrebbe molto allungare.

Quanto s’è detto dovrebbe bastare a persuaderci che Gesù non ha somiglianza alcuna con l’ideologo che — tutto preso dalle sue grandiose teorie — non riesce più a vedere e a prendere in considerazione le vicissitudini spicciole della gente comune. E proprio questa sua sensibilità per le piccole cose concrete e l’arte sua inimitabile di incastonarle nei ragionamenti più alti gli consentono di parlare a tutti, anche ai semplici, delle verità più sublimi con la mediazione di un linguaggio limpido e originale; un linguaggio che ci appare ben diverso da quello di molti pensatori professionisti e di non pochi attori della scena politica.

Gesù si dimostra poi sempre un uomo sovranamente libero. Nessuno riesce a distoglierlo dai suoi intenti. È libero di fronte a quelli del suo clan, i quali, dopo averlo preso per matto (cfr. Marco, 3, 21), si immaginano di poter ricavare qualche vantaggio dal suo successo e dalla sua notorietà e cercano di riprendere i rapporti (cfr. Marco, 3, 31-34).

È libero di fronte ai capi del suo popolo e ai suoi avversari, che cercano di ostacolarlo nel suo ministero, e ai quali risponde seccamente: «Il Padre mio lavora sempre e anch’io lavoro» (Giovanni, 5, 17). Egli riconosce e rispetta l’autorità, ma non ha timori reverenziali nei confronti delle persone che ne sono investite. Basti pensare alle invettive rivolte ai farisei e agli scribi (cfr. Matteo, 23, 32). Ai sadducei, che ricoprivano le più alte cariche sacerdotali, non esita a manifestare il suo dissenso nei termini più decisi: «Voi vi ingannate, poiché non conoscete né le Scritture né la potenza di Dio» (Matteo, 22, 29). Con il tetrarca di Galilea, Erode, non fa proprio complimenti: «Andate a dire a quella volpe...» (cfr.Luca, 13, 32).

Del resto, la sua franchezza è esplicitamente riconosciuta anche da quelli che gli sono ostili, come i farisei e gli erodiani che una volta così gli si rivolgono: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio» (Marc o , 12, 14). Gesù è libero perfino dalla «apparenza della virtù»; vale a dire, non lo preoccupano affatto i giudizi malevoli e manifestamente infondati che la gente può formulare su di lui. Egli va avanti per la sua strada, anche a prezzo del deterioramento della sua buona fama: «È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: “Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori”» (Matteo, 11, 19). Si direbbe che ritenga valido anche per sé l’ammonimento che rivolge agli altri: «Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (cfr. Luca, 6, 26).

Sono eccezionali in Gesù la solidità psicologica e il dominio di sé. È tranquillo e impavido nel bel mezzo di una tempesta che rischia di rovesciargli la barca (cfr.Marco, 4, 35-41), così come con impressionante forza d’animo affronta e quasi ipnotizza la folla inferocita di Nazaret che si propone di ucciderlo: «Tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò» (Luca, 4, 28-30).

Non è però un imperturbabile gentleman della società vittoriana, che si fa un punto d’onore di non lasciar trapelare all’esterno le proprie emozioni. Al contrario, Gesù non ha alcun ritegno a mostrarsi sconvolto, come per esempio davanti alle lacrime di Maria, la sorella di Lazzaro: «Quando la vide piangere (...) si commosse profondamente»; anzi «si turbò», precisa l’evangelista (cfr. Giovanni, 11, 33). E al pensiero della morte dell’amico, «scoppiò in pianto» anche lui; tanto che i presenti commentano: «Vedi come l’amava» (cfr. Giovanni, 11, 35-36). Contemplando dall’alto Gerusalemme, alla prospettiva della sua distruzione non sa frenare le lacrime: «Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace”» (cfr.Luca, 10, 41-42).

Ma sa anche entusiasmarsi, lasciandosi contagiare dalla gioia dei discepoli, felici di aver portato a termine la loro prima esperienza di evangelizzazione: «I settantadue tornarono pieni di gioia (...) In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra”» (cfr. Luca, 10, 17-21).

Gesù era dunque un uomo che sapeva piangere e sapeva stare allegro. Che sapesse piangere è esplicitamente documentato, come s’è visto; che sapesse anche stare lietamente in compagnia, lo si deduce se non altro dal piacere con cui i pubblicani — che erano di solito gaudenti e bontemponi — l’accoglievano alla loro mensa. Quando aveva di fronte della gente affaticata ed esausta, provvedeva fattivamente a sostentarla. Ma certo non doveva avere l’abitudine di rovinare la serenità e la giocondità di un convito con riflessioni troppo malinconiche o con richiami intempestivi alla fame nel mondo.

Leggiamo ora un famoso episodio della sua vita, secondo la narrazione di Matteo: «Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli”» (Matteo, 16, 13-17).

Come si vede, Gesù stesso propone qui il “problema di Cristo”. Ed è stimolante rilevare come Gesù sia interessato a un duplice tipo di investigazione: innanzitutto: La gente chi dice che io sia? Quali sono su di me le opinioni del mondo? Poi: Voi chi dite che io sia? Voi che siete la mia Chiesa, voi che vi esprimete ufficialmente per bocca di Pietro, che cosa dite agli uomini di me?

Ad ascoltare la «gente» non si raccoglie, a proposito di Cristo, una certezza, ma piuttosto una molteplicità di opinioni. Passiamole un po’ in rassegna, facendone in qualche modo tre gruppi, così da semplificare il discorso.

Gesù è per molti un mito, che ha arricchito e adornato l’esistenza, senza aver lui l’esistenza; qualcosa come Orfeo nell’antico mondo greco e, più modestamente, come Babbo Natale nel moderno Occidente secolarizzato. Oppure è un uomo leggendario che, proprio perché non è mai esistito, ha potuto essere rivestito a poco a poco dei caratteri della divinità. O, se si vuole, è un’idea divina, una fede, uno slancio dello spirito, che ha assunto progressivamente nella coscienza di una comunità di uomini sembianza e natura di uomo. Insomma, una grandezza sovrumana, ma irreale.

Gesù — dicono altri — è un uomo, straordinariamente ma semplicemente uomo, che con il suo fascino eccezionale, la sua intelligenza sublime, la sua meravigliosa personalità, ha impresso un corso nuovo alla storia universale: in una parola, un genio. C’è chi dice: un genio religioso, che, avendo intuito con chiarezza e intensità inarrivabili l’ultima verità delle cose, ha scoperto la paternità di Dio, il culto «in spirito e verità», la legge della carità. C’è chi dice: un genio filosofico, che ha rivelato il valore della coscienza soggettiva e il primato del mondo interiore su quello esteriore. C’è chi dice: un genio sociale, che ha affermato la sostanziale uguaglianza tra gli uomini e ha esaltato la ricerca della giustizia. C’è chi dice: un genio politico, che ha introdotto nella storia umana l’impegno e l’ideale della liberazione da tutte le prepotenze e da tutte le oppressioni esteriori. Insomma, una grandezza reale, ma non sovrumana.

Gesù — dice una terza opinione — è un uomo certamente esistito, ma del quale non è possibile sapere niente di certo: i documenti in nostro possesso ci parlano tutti del Cristo che è stato oggetto della fede, dell’amore, dell’adorazione della comunità primitiva, ma non ci mettono in condizione di chiarire chi sia stato veramente in se stesso il Gesù della storia. Insomma, un enigma storico che non sarà mai risolto.

C’è da notare che, in genere, i giudizi che circolano tra la «gente» sono intenzionalmente positivi e benevoli: nessuno, o quasi nessuno, parla male di lui. Istituire la critica di queste opinioni, mostrandone sia il bagliore di verità che c’è in ciascuna sia i suoi limiti e la sua globale inconsistenza, è un lavoro di analisi lungo, ma non difficile, e in altra sede anche doveroso per il cristiano che vuol vivere la sua fede in modo intellettualmente maturo. Ma noi non ce lo proponiamo, in questa che vuol essere una meditazione e si prefigge solo il confronto tra le due posizioni (quella della gente e quella della Chiesa), per rilevare i due diversi modi di accostare il mistero di Cristo e prendere consapevolezza della loro totale e assoluta incompatibilità.

Questa riflessione vuol solo inquietare, fino a estinguere, se possibile, la coesistenza nel nostro spirito di mondo e Chiesa, delle opinioni della gente e della conoscenza donataci dal Padre, per crescere nella limpidità della fede e nella coerenza della vita.

Anche se molto diverse tra loro, le opinioni della «gente» hanno in comune il ritenere Gesù di Nazaret un “caso classificabile”: «uno dei profeti». È un mito? La storia è piena di miti. È un’idea che ha segnato la vicenda umana? Sarebbe paragonabile alla gnosi del mondo antico o al marxismo del mondo moderno. Un genio religioso? Possiamo annoverarlo con Buddha, con Mosè, con Maometto. Un filosofo? Platone e Aristotele lo possono prendere in loro compagnia. Un indagatore del sociale? Potrebbe stare con gli Enciclopedisti del XVIII secolo e con Marx. Un agitatore? Come lui e più efficaci di lui, ci sarebbero Spartaco, Masaniello, Bakunin. Un liberatore? Mettiamolo con Simón Bolivar e con Giuseppe Garibaldi. Un uomo di cui non si può sapere nulla di certo? Se ne danno altri esempi: Omero, Pitagora, lo stesso Socrate sarebbero a lui assimilabili.

Sembrerebbe di capire che lo sforzo inconscio della «gente», pur manifestandosi in ipotesi molto disparate e pur esprimendosi in giudizi solitamente benigni, sia quello di ridurre Gesù di Nazaret a qualcosa di già contemplato, di risaputo, di “normale”: l’importante è metterlo in qualche scompartimento previsto dalla esperienza umana; così, quando è sistemato in un cassetto ed etichettato, non è più un caso unico e non può turbare più.

Se la caratteristica del parere della «gente» è la pluralità delle opinioni, la connotazione della risposta ecclesiale è l’unità. Non c’è pluralismo nella Chiesa a proposito di Gesù Cristo: la risposta di Pietro è la risposta di tutti. L’identità della convinzione di ciascuno di noi con la fede di Pietro è la “pietra” di paragone che giudica la legittimità dell’appartenenza ecclesiale. Chi altera questa fede non può avere posto nella Chiesa. La comunità apostolica non conosce su questo punto alcuna propensione all’irenismo. «Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo» (2 Giovanni, 10). «Vi metto in guardia dalle bestie in forma d’uomo, che non solo voi non dovete accogliere, ma, se è possibile, neppure incontrare. Solo dovete pregare per loro perché si convertano, il che è difficile » (Ignazio, Agli Smirnesi IV, 1). «Sono cani rabbiosi, che mordono di nascosto; voi dovete guardarvi da costoro, che sono difficilmente curabili» (Ignazio, Agli Efesini VII, 1).

E mentre le “opinioni” mondane su Gesù di Nazaret tendono, come si è visto, a renderlo classificabile, la fede ecclesiale, che si esprime per bocca di Pietro, sottolinea la sua assoluta unicità: Gesù di Nazaret è «il Cristo, il figlio del Vivente, il figlio di Dio». Gesù di Nazaret è «il»: un caso a sé del tutto imparagonabile.

Come si è potuto vedere, il nocciolo del problema cristologico sta proprio qui: Gesù è “uno dei...” o “il”?; è catalogabile o è un caso a sé? la sua comparsa nel mondo è un fatto importante, ma commisurabile con i nostri metri di giudizio, o è un evento unico, decisivo, irripetibile?

Questa è la questione. Essere “cristiani” significa avere capito che Gesù è “il”, che non ci sono qualifiche adeguate a lui, che è una singolarità assoluta. Ne viene come conseguenza esistenziale che anche il nostro rapporto con lui non sopporta altre connotazioni che la “unicità”. La nostra conoscenza di lui non può essere quella che vale per le altre cose e le altre persone, ma è una luce che ci è data dall’alto: «Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli». Il riconoscimento della sua signoria non è la conclusione di un teorema, ma una docilità allo Spirito Santo: «Nessuno può dire: Gesù è Signore, se non nello Spirito Santo» (1 Corinzi, 12, 3). Il nostro amore per lui non può tollerare confronti: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Matteo, 10, 37). Il nostro puntare la vita per lui non può che essere totale, assoluto, definitivo, come nessuna militanza è ragionevole che sia: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Matteo, 10, 39).

© L'Osservatore Romano 20 gennaio 2012