giovedì 6 giugno 2013

La ricchezza del mio cuore è infinita come il mare...



"La ricchezza del mio cuore è infinita come il mare, così profondo il mio amore: più te ne do, più ne ho, perché entrambi sono infiniti".
William Shakespeare (1564 – 1616)

*
VENERDÌ DELLA
TERZA SETTIMANA DOPO PENTECOSTE

SACRATISSIMO CUORE DI GES
Ù

Anno C - Solennità
MESSALE

Antifona d'Ingresso  
Sal 32,11.19
Di generazione in generazione
durano i pensieri del suo Cuore,
per salvare dalla morte i suoi figli
e nutrirli in tempo di fame.
  
Colletta

O Padre, che nel Cuore del tuo dilettissimo Figlio ci dai la gioia di celebrare le grandi opere del tuo amore per noi, f
a' che da questa fonte inesauribile attingiamo l'abbondanza dei tuoi doni. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te...
 
Oppure:
O Dio, fonte di ogni bene, che nel Cuore del tuo Figlio ci hai aperto i tesori infiniti del tuo amore, f
a' che rendendogli l'omaggio della nostra fede adempiamo anche al dovere di una giusta riparazione. Per il nostro Signore...

Oppure:
Dio grande e fedele, che hai fatto conoscere ai piccoli il mistero insondabile del Cuore di Cristo, formaci alla scuola del tuo Spirito, perché nella fede del tuo Figlio che ha condiviso la nostra debolezza per farci eredi della tua gloria, sappiamo accoglierci gli uni gli altri con animo mite e generoso, e rimanere in te che sei l'amore. Per il nostro Signore...


LITURGIA DELLA PAROLA


Prima Lettura
  Ez 34, 11-16
Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare.
 

Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.
Le farò uscire dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele, nelle valli e in tutti i luoghi abitati della regione.
Le condurrò in ottime pasture e il loro pascolo sarà sui monti alti d’Israele; là si adageranno su fertili pascoli e pasceranno in abbondanza sui monti d’Israele. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio.
Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia».


Salmo Responsoriale
  Salmo 22
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
 
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincàstro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.
   Seconda Lettura  Rm 5, 5-11
Dio dimostra il suo amore verso di noi.


Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione

Canto al Vangelo   Gv 10,14
Alleluia, alleluia.

Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.

Oppure: Mt 11,29

Prendete il mio giogo sopra di voi.
Alleluia.

  
  
Vangelo  
Lc 15, 3-7

Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta.

Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei e agli scribi questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”.
Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione».

*
Il commento

Le parole oranti del Signore che si rivolgono al Padre in un'estatica benedizione ci schiudono oggi una finestra sui sentimenti più intimi di Dio. Possiamo avventurarci nel cuore del Padre e conoscere quello di cui si compiace. La relazione di profonda comunione tra Padre e Figlio, la conoscenza reciproca che è, secondo il linguaggio della Scrittura, un'unione profonda e indissolubile. Il Padre e il Figlio uniti nell'esultanza e nella gioia di fronte al Mistero rivelato ai "piccoli", gli "infanti" secondo la traduzione in latino della Vulgata, etimologicamente coloro che non hanno ancora l'uso della parola, i "fanciulli", i "bambini", i "lattanti". Dio rivela il Suo cuore a chi ancora non sa parlare. Le sue sono le parole per chi non ha parole. E invece noi siamo imbottiti di parole, spesso vuote, buttate alla rinfusa per cercare di razionalizzare pensieri irrazionali. Ma non abbiamo posto per le parole di Dio. La sapienza e l'intelligenza mondane, figlie del principe di questo mondo, affogano il nostro cuore e strozzano la nostra mente. Siamo impermeabili alla Parola fatta carne. Ci crediamo adulti perché presumiamo di condurre le nostre esistenze attraverso le parole. Chiacchiere, per giustificare, per legare, per sciogliere, per ingannare, per sedurre, per vincere, per vendicare, per uccidere. La Scrittura mette in guardia dal troppo e dal vano parlare: "Le parole della bocca dell'uomo sono acqua profonda... con la bocca l'uomo sazia il suo stomaco, egli si sazia con il prodotto delle sue labbra. Morte e vita sono in potere della lingua, e chi l'accarezza ne mangerà i frutti" (Pr. 18, 4. 20-21). C'è come un'ingordigia nelle nostre parole, non ce diamo conto, le accarezziamo credendo di trovarne beneficio, per gustarne invece gli amari frutti: divisioni, liti, invidie, passioni. Un laccio è la nostra lingua e ci tiene imprigionati. E' questa una delle radici più profonde della nostra infelicità, siamo schiavi delle nostre parole. 

Siamo stanchi dei nostri sforzi, dei tentativi, delle sfide, oppressi da leggi e moralismi. Non ce la facciamo più. Schiavi di speranze infrante, di rincorse a perdifiato sui sentieri dei compromessi, per acciuffare un sorriso, uno sguardo di benevolenza, sperando di rifiatare nell'affetto di chi ci è accanto. E nulla, qualche aperitivo che ci è parso preludere al banchetto agognato, al riposo sperato, e d'un colpo, invece di una tavola imbandita, ci siamo ritrovati soli di nuovo, nel mezzo di una strada da percorrere ancora, senza forze, con una delusione in più sulle spalle. Un figlio, per quanto santo e giusto, è forse il ristoro? Una figlia che si sposa con l'uomo ideale, cristiano, di sani valori, con la testa sulle spalle, è forse il riposo? La moglie, il marito, al chiudersi della giornata, sono forse il porto sospirato? Unirsi, quando è concesso, è forse il capolinea di tanta fatica? Non ci si ritrova poi, comunque, soli? Carne della propria carne, è vero, ma è pur sempre qualcosa di parziale, incompleto, che rimanda a un di più, a qualcosa che superi le barriere del tempo e dello spazio. E una buona semina del Vangelo, i miracoli nei cristiani affidati, le vite ricostruite, il potere di Cristo operante nei fratelli, è questo il riposo per il quale siamo venuti al mondo, per cui siamo preti, apostoli, missionari? Non si tratta ora di quando si fa di tutto ciò un assoluto, porta spalancata sulle più cocenti delusioni. Si tratta piuttosto di quel desiderio di pace e riposo che cerchiamo, semplicemente, proprio nel Signore e nelle sue cose, dove più subdolo si può annidare l'inganno del demonio. La parvenza di rettitudine nasconde la perversione di voler fare della terra il Cielo, della carne il Paradiso. Comunismo, rivoluzioni, lotta alle ingiustizie, non sono aspetti lontani da noi. Basta scrutare il nostro cuore e cercare l'atteggiamento che abbiamo di fronte alle crisi economiche, ai provvedimenti del Governo, ai fatti di cronaca. E comprendere come, al di là di ogni pretesa rettitudine, il nostro cuore è attaccato al denaro, alla carne, al mondo. E a tutto ciò chiediamo la vita, il riposo e il ristoro. Come a una vacanza, a una settimana bianca, a quello staccare per un po' la spina grazie al quale ci illudiamo di rigenerarci... Mentre la storia scorre, e i personaggi e gli eventi non riposano mai. Possiamo fare delle cose più sante un giocattolo di Lego da costruire per rifugiarci al riparo della precarietà, materiale e spirituale. Una croce d'oro esibita sul petto che scaccia perversamente la Croce autentica che ci inchioda alla volontà di Dio. La sicurezza religiosa che butta fuori la precarietà nella quale, sola, si può davvero sperimentare l'opera di Dio, la sua prossimità, il suo amore. E' al centro della propria umiltà, della verità, che è l'unica nella quale il Dio vero è presente e operante. La verità che è la nostra totale precarietà. La storia ci ha fatti piccoli, poveri, "tapini", ultimi, secondo l'accezione del termine "umile" che compare nel Vangelo di oggi. Nella terra, nell'humus dove ci troviamo, possiamo raggiungere, o meglio, possiamo essere accolti nel riposo vero, perché è esattamente il luogo dove Cristo è disceso. Il Signore s'è abbassato sino a noi, umiliato nella morte, mite come un agnellino condotto al macello. Lui s'è offerto volontariamente laddove noi dobbiamo andare senza nessuna voglia. Mite dove noi recalcitriamo. E Lui stesso, pur essendo Figlio, ha "imparato" l'obbedienza dalle cose che patì.

E anche oggi il Signore ci chiama. Affaticati e oppressi, ci cerca per insegnarci la mitezza e l'umiltà che sgorgano dal suo cuore. Ascoltare e andare: è questa la volontà di Dio per noi. Andare e fermarsi presso di Lui, per vedere con gli occhi del cuore dove Lui abita; e stare con Lui, alla scuola della sua vita per imparare a vivere. Si tratta di lasciare che la sua Parola penetri sino al fondo di noi stessi, per farsi carne del cuore e pensiero della mente, parole sulle labbra e gesti nelle membra, giorno per giorno, situazione dopo situazione. Tenere l'orecchio aperto come un discepolo, nell'unico atteggiamento che si addice a chi, dopo tanti sforzi vani e frustranti, si è scoperto piccolo, senza parole per rispondere alle grandi e alle piccole questioni della vita. Stare ai suoi piedi, cercando e desiderando, negli eventi che feriscono il matrimonio, che ci svelano inermi di fronte alla vita e alle debolezze dei figli, che ci umiliano sul lavoro, in ogni circostanza l'unica cosa buona e necessaria, la sua Parola, la sua vita, il suo amore. In questo atteggiamento del cuore, e solo in esso, troveremo ristoro, riposo per il nostro intimo, per le nostre anime. Attraverso la storia di ogni giorno il Signore ci chiama ad entrare nel suo riposo, nello shabbat preparato per noi, e nasconderci nella fenditura della roccia, nel suo cuore squarciato dalla lama malvagia dei nostri peccati, nel "tutto" del Padre consegnato al Figlio, la sua misericordia infinita. Se oggi ascoltiamo la sua voce non induriamo il nostro cuore, ma lasciamoci sedurre dalla sua misericordia, per accogliere con docilità la sua Parola che viene a farsi carne crocifissa nella nostra carne.


Andare al Signore è già imparare ad essere miti e umili di cuore. "Mite" è "colui che è stato domato", che ha "imparato" ad obbedire. Etimologicamente la mansuetudine, o la mitezza, è la caratteristica dell'animale ammansito perché sia docile nel sottoporsi al giogo. Siamo stati creati per imparare da Lui l'autentica umanità, attraverso il suo giogo soave che rende soave la carne, per natura così simile a quella di un animale selvatico. Per questo, proprio la Croce è l'unica scuola adatta a noi; ciò che ci sembra assurdo e inaccettabile nella nostra vita è l'unico giogo adeguato alla nostra carne indomabile. Tutto il resto, i nostri e gli altrui pensieri, i criteri e i regolamenti, ci schiacciano rendendoci ogni volta più orgogliosi. Andare al Signore significa dunque lasciarsi abbracciare dal suo giogo, e stare crocifissi con Cristo. "Imparate da me" dice il Signore. Il termine adottato rimanda a un rapporto e a una relazione profonde, ben al di là di una conoscenza superficiale: a quella tra Didaskalo e Discepolo, tra il Maestro e l'allievo. "Imparare", dunque, è la coniugazione di un'intimità che si realizza pienamente solo dove il Signore si consegna amandoci "sino alla fine", sulla sua Croce gloriosa. Così potremo "conoscere" Lui perché Lui si è voluto "rivelare" a noi, non con una speculazione filosofica, con libri e spot pubblicitari, ma con la Parola annunciata dalla Chiesa, la predicazione di Cristo e Cristo crocifisso, incarnato nei suoi apostoli e martiri. "Venite a me" significa allora ascoltare e così accogliere il suo giogo come una Buona Notizia; aprire il cuore e lasciarsi amare da Gesù, per diventare miti e umili di fronte a persone e fatti della storiaIl mite, infatti, "possiede la terra", vive nel mondo una porzione di Cielo, perché dalla Croce, ben piantata nel suolo ma puntata verso l'alto, abbraccia uomini ed eventi nell'amore che discerne e "conosce" il Padre che in essi si "rivela" guidando la storia con la sua volontà provvidente; come Mosè, il mite conosce la propria debolezza, non se ne scandalizza, e si lascia condurre. E' mite chi ha imparato che la lotta d'ogni giorno non è contro le creature di carne, contro suocere o mariti o mogli o figli o colleghi di lavoro o coinquilini di condominio. Sa che la lotta, invece, è contro il demonio, il padre della menzogna e dell'orgoglio, e desidera imparare come le uniche armi vittoriose su di lui sono l'umiltà e la mitezza, seguendo le orme di Cristo lasciate per noi laddove Lui stesso ha imparato, la via del Calvario. La Croce è l'unico giogo che non pesa, l'unico carico leggero, l'unico adatto a noi, perché Gesù Cristo è l'unico che si è adeguato a noi, "facendosi peccato perché i peccati non ci allontanassero da Lui" (Ode VII di Salomone). Carne, mondo, desideri, progetti, leggi, tutto è per noi troppo pesante, inadeguato. Tutto troppo terreno. Siamo fatti per Dio, siamo suoi. Per questo non v'è altro giogo perfetto per noi se non il giogo di Cristo. La Croce, dove siamo figli nel Figlio nel compiere la volontà dello stesso Padre, l'unica pace, il vero riposo. Le nostre braccia distese con le sue, per la moglie, il marito, i figli, per ogni uomo. Oggi, nella semplicità delle ore che ci accolgono, negli incontri, nelle cose da fare e ripetere mille volte, si compie una liturgia d'amore. La nostra vita è il dono del Figlio al Padre. Siamo il tesoro di Dio, il frutto dell'intimità divina. Siamo chiamati per andare a Cristo: solo così potremo essere veramente noi stessi, laddove Lui è divenuto ciascuno di noi, per farci, in Lui, figli amatissimi. Istante dopo istante conformati alla sua immagine, e così accolti nel riposo che solo un cuore docile e obbediente può gustare, anche se nulla nella nostra vita riposa, né il male, né il dolore, né le avversità. Un riposo crocifisso, un ristoro nel mezzo della battaglia. Immersi con Cristo nella sua preghiera di lode e benedizione, che si compie ogni istante reclinando il capo sulla Croce, spirando vita per riaverla piena e compiuta. 


Contempliamo oggi il cuore di Dio, "l'uomo dei dolori", l'Agnello senza macchia. Contempliamo il suo amore per riconoscere i nostri peccati. Come Giobbe mettiamo la mano sulla bocca, impariamo il silenzio stupito dell'infante. E' tutto troppo più grande di noi. Non sappiamo. Non conosciamo. Non capiamo. Accettiamolo. Conosciamo Dio per sentito dire, impariamo allora a conoscerlo attraverso gli occhi di un cuore puro, piccolo, infante. Lasciamo che la vita e la storia che il Padre traccia per noi distrugga le sicurezze, gli schemi, i criteri. Lasciamo che la Croce che oggi ci accoglie sia il crogiolo dove bruciare quello che di noi appartiene alla carne a al mondo. Chiediamo con il Salmo che Dio metta una sentinella alla porta delle nostre labbra, che il suo Spirito ci difenda da inutili parole. Che Dio faccia oggi, e ogni giorno, il miracolo di ricrearci piccoli, infanti appena divezzati in braccio alla propria madre, abbandonati nelle viscere di misericordia del Padre. E lì, tra le sue braccia, tranquilli e sereni, senza aspirare a cose troppo alte e senza pretendere nulla, saziandoci delle sue Parole, miele dolcissimo, le uniche parole di vita.

COMMENTO2


E’ interessante vedere come oggi, che si celebra la festa del Cuore sacratissimo di Gesù, le letture proposte dalla Liturgia ci indichino fondamentalmente il buon Pastore. Non senza motivo il Signore dice: “venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ….” (Mt 11,28); “porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri …..” (Is 40,11).

La prima lettura ci dice come, al tempo del profeta Ezechiele, il popolo di Dio fosse disperso perché mal governato da cattivi pastori e come Egli volesse porre rimedio a tale stato di cose. Ma dichiara di suscitare un pastore: Davide; non senza che questo sia un’ allusione a Cristo Figlio di Davide, che sarà Salvatore e Redentore. Nessuna forza disgregatrice avrà il sopravvento di fronte alla presenza attiva del Signore in mezzo al Suo Popolo, la Chiesa. Ci sono certo cattivi pastori che si comportano da mercenari facilitando l’ opera diabolica (Diavolo significa disgregatore), erodendo il tessuto connettivo della Chiesa cioè la vera Fede, ma il Signore è il buon Pastore, che ha dato la vita per le pecore, e nessuno potrà strapparle dalle sue mani (cfr. Gv 10:28).
Avranno rigogliosi pascoli sui monti di Israele: Siamo nel mondo ma non siamo del mondo, non si tratta per noi di fuggire il mondo ed il nostro tempo, ma dobbiamo approfittare dei monti di Israele, spazi e tempi in cui il Signore ci porta in un luogo in disparte per riposare (cfr. Mc 6, 31). La S. Messa domenicale, la Confessione frequente, la preghiera profonda e continua, l’ incontro con le persone care ed i fratelli nella Fede, le amicizie edificanti …. Sono per noi oasi e dei monti.

Nella seconda lettura, san Paolo ci presenta Gesù (il Salvatore) come Redentore. Per noi è difficile comprendere il concetto di redenzione, liberazione sotto compenso, ma ora non si tratta di puro riscatto. Il Signore ha condiviso in tutto eccetto il peccato la nostra condizione umana (Eb 4,15), nella sua Persona restaura l’ orientamento al bene dell’uomo caduto, chiamandolo alla comunione con Lui. L’ uomo non è tanto irrecuperabile, quanto piuttosto disorientato, e tuttavia alla ricerca del paradiso perduto. Ma non potrà raggiungere la meta del bene con le sue sole forze; chi si unisce al Signore, che compendia in sé la debolezza umana e la Grazia, si lascerà anche stringere al cuore e portare sulle spalle dal Buon Pastore. Dio si è fatto come noi per farci come Lui; è il mistero dell’Admirabile commercium: ha assunto la nostra umanità per donarci la sua divinità. Ci permette di entrare nella vita divina con tutto il nostro essere. La prova del suo amore è che Lui ci ha amati per primo, quando eravamo nemici, e non si limita a toglierci dal male, ma ci fa entrare nel movimento di eterno amore che unisce le Persone della beata Trinità, saremo salvati mediante la sua vita (Rm 5:10).

Nella parabola evangelica della pecorella smarrita riecheggia la pagina del profeta Ezechiele della prima lettura. Forse questa parabola doveva essere rivolta ai farisei che dividevano l’ umanità in due categorie: chi osserva la legge e chi non lo fa. La parabola ci fa capire come questa visione non corrisponda al cuore di Dio. Il Signore vuole che nessuno si perda, ma che si converta e viva (cfr. Ez 33,11). Certamente Egli non ammette che si trasgredisca neppure una virgola della legge, ma la perfezione è dono di Dio, da coltivare pazientemente vivere nell’umiltà. Inoltre i confronti con altri, oltre alla superbia spirituale, ci espongono alla severità ed ai giudizi temerari. Il Signore non giudica nessuno prima della sua ora, e senza avergli dedicato ogni amorosa sollecitudine (cfr. Lc 13, 1-9).
In ogni modo l’ esigenza di Gesù è molto più radicale di quella dei farisei che si accontentano dell’osservanza materiale della legge. Per Gesù l’uomo vale davanti a Dio per ciò che è nel profondo di se stesso, non solo per le opere ma anche per i pensieri; così, per esempio, nel caso di un uomo che guarda una donna (cfr Mt 5,27-32) pur senza violare fisicamente il sesto comandamento.

Quando Gesù incontra un peccatore non tollera che i discepoli lo allontanino, perché questa volta non è venuto per giudicare ma per salvare ciò che sembrava perduto per sempre.

Gesù infinitamente esigente è anche infinitamente buono, siede a mensa con i pubblicani e i peccatori. Proprio perché infinitamente puro prova infinita compassione per i corrotti dal peccato. Oggi la S. Liturgia chiede ai pastori di avere un cuore come quello di Cristo: abbiate in voi i medesimi sentimenti che furono di Cristo Gesù (Fil 2,5); imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29). Ma pare che alla solennità odierna si addica particolarmente il Salmo 130: soprattutto per chiunque è irretito dal peccato, al seguito di ambizioni troppo alte, infelicitando se stesso.

*
V.a.:
  
14 Giu 2012
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