giovedì 11 luglio 2013

In cerca di una città affidabile



Cosa ci ha ricordato Papa Francesco a Lampedusa. 


(Stefano Semplici, Presidente del Comitato internazionale di bioetica dell’Unesco) È bella la coincidenza fra la pubblicazione della Lumen fidei e il viaggio di Papa Francesco a Lampedusa. Il quarto capitolo dell’enciclica propone una fede che rinuncia all’intransigenza in nome della «convivenza che rispetta l’altro» (34), rivelando in questo modo «quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi». L’unica risposta possibile all’esperienza della verità come dono dell’amore è l’umiltà che non si impone con la violenza e non schiaccia gli altri. È proprio per questo che la fede in Cristo «non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei». Tutti desiderano vivere in una «città affidabile». La Chiesa testimonia e trasmette l’esempio di un’unità che non si regge «sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura», ma su un fondamento di gran lunga più semplice e solido: la «gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare» (50-51). Le parole e i gesti di Lampedusa, lungi dall’essere i veicoli mediatici di una predicazione religiosa carismatica che lascia intatti i meccanismi e le responsabilità della politica, danno alla proposta della Lumen fidei l’immediata concretezza di un obiettivo, di un impegno che ha il volto dei poveri che hanno attraversato il “nostro” mare in cerca di un futuro migliore e rompono le bolle di sapone della nostra indifferenza di fronte ai tanti che in queste acque sono morti.
Non è un altro modo di pensare rispetto alla politica. È un modo altro di pensare la costruzione della città degli uomini e dunque di concepire e vivere appunto la politica.
Il vescovo venuto quasi dalla «fine del mondo» conosce la complessità delle cose del mondo. Non ha chiesto di cambiare la Convenzione di Ginevra del 1951, che, come tutti gli accordi successivi a essa ispirati, impone di accogliere soltanto chi fugge da una guerra o comunque da territori nei quali «la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Papa Francesco sa che chi sente ogni giorno la sua vita e la sua libertà minacciate semplicemente dalla povertà non ha diritto a essere considerato un “rifugiato”. La stessa Unione europea, in una direttiva adottata nel dicembre del 2008, ha riconosciuto agli Stati membri la possibilità di rilasciare permessi di soggiorno per motivi «caritatevoli» o «umanitari», escludendo tuttavia ogni obbligo di farlo.
Chi è rimasto fuori dal perimetro di un benessere peraltro sempre meno sicuro continuerà a cercare di entrare. Perché è quello che faremmo anche noi. Perché è quello che i poveri hanno sempre fatto. E di fronte alla pressione crescente di questa fuga dal bisogno il realismo di quanti sostengono che aprire le porte a un’invasione non aiuterebbe alla fine nessuno continuerà a squadernare i suoi solidi argomenti.
Il Papa, però, non ha posto una questione di controllo delle frontiere. Ha posto e pone, dall’inizio del suo pontificato, una ben più profonda questione di giustizia, di organizzazione e strutture del potere, di gestione delle risorse e distribuzione delle ricchezze. E ha saldato queste urgenze alla questione antropologica sulla quale la Chiesa insiste da tempo: il senso della nostra libertà; l’alternativa fra la tenerezza che abbraccia e rispetta e il mero calcolo dell’interesse; la dimensione pubblica dei valori che davvero uniscono.
In questa prospettiva va letto il passaggio più duro della sua omelia a Lampedusa: la richiesta della grazia di piangere sulla nostra indifferenza. Una richiesta che non vale una generica esortazione alla solidarietà e si volge immediatamente alla «crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo» e per i quali il Papa chiede perdono.
È dunque di queste decisioni socio-economiche che dobbiamo occuparci, per strappare finalmente il velo dell’anonimato che le protegge e sottoporle alle regole e al buon funzionamento di istituzioni trasparenti, eque e globali nell’esercizio di una responsabilità per tutti i popoli e tutti gli esseri umani, piuttosto che per gli effetti di morte che troppo spesso producono. Per dirla nel linguaggio della filosofia politica, la città affidabile che chiede Francesco ha bisogno di un cosmopolitismo che non è dei buoni sentimenti, ma appunto delle istituzioni e delle persone che le governano. Istituzioni che non devono omologare le differenze, ma offrire al contrario a tutte le differenze la possibilità di dare «abbondanti frutti», come ha augurato il Papa agli immigrati musulmani che iniziavano il Ramadan.
Già Paolo VI, nella Octogesima adveniens, aveva sottolineato la novità e l’urgenza del tema del «diritto all’emigrazione», in tutta la sua ampiezza, per la costruzione di una «giustizia autentica» e di una «pace duratura». Francesco ci ricorda, con il sorriso della fede, che per il cristiano la sfida della povertà è inaggirabile, perché al cristiano non è possibile «respingere la supplica di un povero» (Siracide, 4, 4).
Per tutti resta il monito dello stesso Papa Montini nella Populorum progressio. Quando l’ingiustizia «grida verso il cielo», perché popolazioni intere vivono sprovviste di ciò che è necessario a garantire anche solo il livello minimo della loro dignità, può diventare grande perfino «la tentazione di respingere con la violenza simili ingiurie» (30). La violenza — proseguiva Paolo VI — è «quasi sempre fonte di nuove ingiustizie». Ma non c’è violenza in quelle barche in mezzo al mare. E non basta non lasciarle affondare. Occorre evitare che partano. Usando le armi dello sviluppo che vince la povertà e non quelle della forza.
L'Osservatore Romano

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- Primo: farsi carico dell'altro. Ascoltiamo Francesco (di Livia Turco in “l'Unità”)

“Il Messaggero”- Rassegna "Fine settimana"
(Alessandro Campi) La visita di Papa Francesco a Lampedusa – dove ha equiparato la morte degli immigranti in mare ad una intollerabile strage degli innocenti e ha tuonato contro la «globalizzazione dell’indifferenza» – sembra aver confermato i tratti caratteristici (...)