venerdì 26 luglio 2013

"Sete di speranza, sete di Dio"



 Di seguito il testo della prima catechesi tenuta mercoledì 24 luglio dal cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, alla GMG di Rio 2013.
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Il percorso di catechesi che viene indicato per questa GMG di Rio de Janeiro chiede di cominciare mettendo a tema l’attesa di speranza che è nel cuore di ogni uomo e l’annuncio che Dio, in Gesù Cristo, si offre a noi come la vera speranza.
Nel riflessione sulla speranza in epoca moderna spicca l’opera di uno scrittore francese, Charles Péguy, morto nel corso della prima guerra mondiale, il 15 settembre 1914. L’opera a cui mi riferisco è un poema che ha come titolo Il Portico del Mistero della Seconda Virtù e fu pubblicato nel 1911. A cento anni di distanza non ha perduto nulla della sua attualità e intendo prenderlo come guida per la nostra riflessione. La lettura di un testo poetico esigerà particolare attenzione e quindi imporrà un rigore di silenzio e di attesa per non perdere figure e sonorità; non avendo voi il testo sotto mano, so di chiedervi un sacrificio di attenzione ancora più rilevante. Sono certo però che sarà un’esperienza non usuale di bellezza. Incominciamo:
«La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
La fede, no, non mi stupisce.
Non desta stupore.
Io risplendo talmente nella mia creazione.
Nel sole e nella luna e nelle stelle.
In tutte le mie creature.
Negli astri del firmamento e nei pesci del mare.
Nell'universo delle mie creature. Sulla faccia della terra e sulla faccia delle acque.
Nei movimenti degli astri che sono nel cielo.
Nel vento che soffia sul mare e nel vento che soffia nella valle.
Nella calma valle.
Nella quieta valle.
Nelle piante e nelle bestie e nelle bestie delle foreste.
E nell'uomo.
Mia creatura.
Nei popoli e negli uomini e nei re e nei popoli.
Nell'uomo e nella donna sua compagna.
E soprattutto nei bambini.
Mie creature.
Nello sguardo e nella voce dei bambini.
Perché i bambini sono mie creature.
Più degli uomini. Non sono ancora stati disfatti dalla vita. Dalla terra.
E tra tutti sono i miei servitori.
Prima di tutti.
E la voce dei bambini è più pura della voce del vento nella calma della valle.
Nella quieta valle.
E lo sguardo dei bambini è più puro dell'azzurro del cielo, del bianco latteo del cielo, e di un raggio di stella nella calma notte»
(Ch. PÉGUY, Il portico del mistero della seconda virtù, 1911).
C’è una profonda verità in queste parole, una verità che si spoglia di ogni sorpresa una volta che accettiamo di rifletterci sopra. È proprio vero che il mistero della vita che ci circonda ha un’evidenza tale che può essere negato solo dalla presunzione di un materialismo greve e cieco. L’aprirsi al mistero, e quindi incamminarsi all’incontro con Dio, dovrebbe essere un atteggiamento spontaneo per un uomo appena avvertito della realtà che gli sta attorno e della realtà che egli è, soprattutto colta nella sua immagine originaria, più incorrotta ma anche più fragile, quella del bambino, la vita umana ricondotta alla sua essenza.
È vero anche che così tutto non è risolto. L’apertura al mistero potrebbe prendere strade confuse e non sfociare nella fede autentica, potrebbe cioè rifiutarsi all’incontro con un Dio che si offre nel volto non attraente di un uomo crocifisso e nella testimonianza esile, seppure proposta con sicurezza, che alcune donne e alcuni uomini offrono della sua risurrezione. In questi nostri giorni non è raro che un’aspirazione anche sincera alla spiritualità si perda in un vago spiritualismo, rifiutando l’impatto con la storicità di Gesù Cristo e della sua Chiesa. L’aspirazione a un senso “oltre” della vita può prendere addirittura strade perverse, in cui si cerca ogni forma di eccesso – inclusi il demoniaco, le droghe, il gioco d’azzardo –, fino alle esperienze distruttive della persona.
Eppure, anche in questi volti negativi e inquietanti del nostro tempo non vogliamo vedere solo un desiderio di annientamento, un “cupio dissolvi” in cui si compendiano le tendenze nichilistiche oggi assai diffuse, spostando sul versante negativo della distruzione di sé quel desiderio di annientamento mistico in Cristo che i Padri della Chiesa avevano letto nelle parole della lettera ai Filippesi con cui Paolo si dice disposto a morire pur di essere una cosa sola con Cristo (cfr. Fil 1,23). Occorre andare oltre questa lettura puramente negativa della contemporaneità e riconoscere nelle sue stesse contraddizioni il permanere di un’apertura alla trascendenza, che costituisce il terreno dell’accoglienza del dono della rivelazione di Dio in Gesù di Nazaret. C’è un’apertura alla fede che è ineliminabile dal cuore dell’uomo e che fa della fede qualcosa che non può stupirci, perché non stupisce Dio: «La fede, no, non mi stupisce».
Ma continuiamo ad ascoltare il nostro poeta:
«La carità, dice Dio, non mi stupisce.
Non desta stupore.
Queste povere creature sono così infelici che, a meno di avere un cuore di pietra, come potrebbero non avere carità le une per le altre.
Come potrebbero non avere carità per i loro fratelli.
Come potrebbero non togliersi il pane di bocca, il pane quotidiano, per darlo a dei bambini infelici che passano.
E per loro mio figlio ha avuto una tale carità.
Mio figlio loro fratello. Una così grande carità».
Anche in queste parole è difficile contestare Péguy. Basta riflettere sul fatto che la cosiddetta “regola d’oro”, sia pure nella forma negativa – «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te» –, la si ritrova in pressoché tutte le culture e le religioni. Alla base c’è una radice di fratellanza che scaturisce dal riconoscimento di una comune natura che, anche quando viene offuscata da contese e guerre, non può essere ultimamente negata. Le tante forme di solidarietà che si sviluppano in diversi contesti, soprattutto dove la povertà preme, lo stanno a dimostrare. Lo dimostra anche, ahimè, il modo con cui le nostre società metabolizzano senza alcun problema la presenza caritativa della Chiesa e dei cattolici, mentre sono ben pronte a gridare all’ingerenza ogni volta che Chiesa e cattolici si pongono a difesa di questa o quella dimensione dell’umano che il pensiero diffuso vorrebbe abbattere: dalla dignità della persona dal suo concepimento al suo termine naturale fino al riconoscimento della specificità della famiglia come unione stabile di un uomo e di una donna o al riconoscimento della libertà educativa e della stessa libertà religiosa. Non che si voglia con questo mettere in dubbio lo slancio caritativo delle nostre comunità, ma occorre vegliare affinché la presenza della Chiesa non venga ridotta a quella di “crocerossina” della società, delle sue piaghe, dovendo invece assicurare un forte legame tra carità e verità, e così pure tra carità e giustizia, come ha ampiamente illustrato Benedetto XVI nella enciclica Caritas in veritate. E papa Francesco, spiegando che l’annuncio del Vangelo deve passare per la strada della povertà, avendo come unica ricchezza il dono ricevuto da Dio, ha ricordato: «La Chiesa non è una ong: è un’altra cosa, più importante. Nasce da questa gratuità ricevuta e annunziata» (Omelia alla Messa mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, 11 giugno 2013).
Nei versi che ho sopra ricordato del poema di Péguy è presente, sul finire un’affermazione che merita ulteriore attenzione: «E per loro mio figlio ha avuto una tale carità. / Mio figlio loro fratello. / Una così grande carità». Il poeta ricorda che c’è una modello supremo di carità: quello che Cristo ha mostrato verso l’umanità. La pienezza della carità la si coglie nel dono che Cristo fa di se stesso agli uomini (cfr. Fil 2,4-11). E questa carità non è soltanto un modello, bensì il fondamento di ogni carità. Se dalla formula negativa della “regola d’oro” vogliamo passare a quella positiva – «tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12) – abbiamo bisogno di un superamento di noi stessi che solo la grazia può concedere, soprattutto quando questo primo comandamento viene completato, sul fronte della misura e dell’intensità, con altre parole di Gesù: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12). La misura cristiana della carità è l’amore stesso di Dio, un amore quindi che solo Dio può dare. 
Le traduzioni del poema di Péguy su questo punto oscillano tra due interpretazioni. Nel testo francese si legge: «Et mon fils a eu d’eux une telle charité», una frase che si può tradurre sì con: «E per loro mio figlio ha avuto una tale carità», ma anche: «E da loro mio figlio ha avuto una tale carità». Con l’acutezza di sguardo propria di un poeta, Péguy attira la nostra attenzione sul fatto che la presenza del Figlio di Dio tra noi vive e continua a vivere grazie alla carità dell’accoglienza: quella di Maria anzitutto, ma poi anche quella dei discepoli, del gruppo delle donne che lo sostenne nella sua predicazione itinerante, di chi lo ospitò nella sua ultima cena, di chi ne accolse il corpo nel suo sepolcro, della comunità che nella preghiera ne invoca lo Spirito. C’è un tessuto di carità che circonda Gesù, che non impedisce ahimè tradimenti, rinnegamenti, abbandoni e oblii, ma senza quel tessuto la sua stessa opera di salvezza avrebbe trovato l’ostacolo insormontabile della libertà di rifiutarlo.
Se, per Péguy, Dio non si stupisce di fede e carità, ciò non accade invece a riguardo della speranza:
«Ma la speranza, dice Dio, ecco ciò che mi stupisce.
Me stesso.
Questo desta stupore.
Che questi poveri figli vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio domani. […]
Ciò che mi stupisce, dice Dio, è la speranza.
Non so darmene ragione.
Questa piccola speranza che ha l’aria di essere un nulla.
Questa speranza bambina. Immortale.
Perché le mie tre virtù, dice Dio.
Le tre virtù mie creature.
Mie figlie, mie fanciulle.
Sono anche loro come le mie altre creature.
Della razza degli uomini.
La Fede è una Sposa fedele.
La Carità è una Madre. Una madre ardente, ricca di cuore.
O una sorella maggiore, che è come una madre.
La Speranza è una bambina da nulla. […]
La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all'inverso. […]
Per non credere, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e gli orecchi. Per non vedere, per non credere.
La carità purtroppo va da sé. La carità cammina da sola. Per amare il prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tale desolazione. Per non amare il prossimo bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all'inverso. […]
Per non amare il prossimo, bambina mia, bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie. Dinanzi a tanto grido di desolazione.
Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare, bambina mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.
È la fede che è facile, e non credere sarebbe impossibile. È la carità che è facile, e non amare sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile.
E quello che è facile e l’inclinazione è disperare, ed è la grande tentazione».
Il messaggio che viene da questo testo è essenziale per l’oggi. La speranza è una virtù difficile e, senza la grazia, impossibile.
Una virtù difficile, come mostra la nostra esperienza, in quanto ben sappiamo come essa venga continuamente messa alla prova. Oggi lo è in modo particolare, perché da una parte essa si trova compressa da un’ideologia scientista che domina molto pensare scientifico e tecnologico e, a partire da questo ambito, pretende di occupare l’intero spazio dell’esperienza umana. Essenziale in questa visione è la concezione deterministica del reale, per la quale non ci può essere orizzonte di finalità e neppur di libertà. Nati dal caso, secondo un pensare diffuso, saremmo legati da cieche leggi naturali che non lascerebbero spazio ad alcuna scelta e quindi a nessuna etica. Soprattutto non ci sarebbe un futuro da costruire secondo un progetto e una valutazione del bene e del male, ma solo l’asservimento a processi evolutivi di cui saremmo schiavi.
Questa lettura semplicistica del mondo naturale è quella che oggi trova maggiore spazio nella comunicazione sociale, ma ha due vizi di fondo che vanno evidenziati. La scienza, quella vera non si rispecchia in questo determinismo cieco, sia per gli elementi di indeterminazione e di probabilità che vanno riconosciuti nell’immagine complessiva del mondo, sia perché la stessa scienza – quella più consapevole di sé – non si presenta come una spiegazione definitiva del reale, ma come un insieme di ipotesi in linea di principio rivedibili. Infine, la scienza non può pretendere di dire il tutto della realtà, ma deve limitarsi alla dimensione del come delle cose, lasciando spazio ad altri approcci, filosofici e religiosi, per addentrarsi nel mondo dei perché. Si apre così davanti a noi l’orizzonte ampio della speranza, come futuro che si determina nell’incrocio tra il dono e la libertà, il dono di senso che per noi è la rivelazione di Dio e l’esercizio responsabile della nostra risposta.
Ma la speranza oggi è virtù particolarmente difficile anche in quanto si deve misurare contro un altro ostacolo, quello che le viene opposto dall’ideologia narcisistica dell’autodeterminazione assoluta di un uomo che non avrebbe limiti alla costruzione di sé. Anche in questo caso infatti saremmo svincolati da ogni responsabilità e libertà, perché avremmo solo da seguire pulsioni e desideri – per lo più indotti – di cui si nutrirebbe il nostro io. Dissolvendosi in un cielo senza riferimenti, perché privo delle nozioni di bene e di male, la speranza rischia di svanire, come proiezione verso il futuro, a favore di un presente in cui si vorrebbe tutto e subito. La speranza, che apre a un progetto, a un itinerario, verrebbe sostituita da una volontà di potenza a cui tutto dovrebbe essere asservito, premessa di una società frammentata e conflittuale.
Torniamo ad ascoltare Péguy:
«La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi e su di lei nessuno volge lo sguardo. […]
Il popolo cristiano non vede che le due sorelle grandi, non ha occhi che per le due sorelle grandi.
Quella a destra e quella a sinistra.
E quasi non vede quella che è in mezzo.
La piccola, quella che va ancora a scuola.
E che cammina. Persa fra le gonne delle sorelle.
E ama credere che siano le due grandi a trascinare la piccola per la mano.
In mezzo.
Tra loro due.
Per farle fare questa strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono a non vedere invece Che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla. […]
È lei, questa piccina, che trascina tutto.
Perché la Fede non vede se non ciò che è.
E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è.
E lei ama ciò che sarà».
La speranza ha un ruolo centrale nell’armonia organica delle virtù cristiane, perché senza di essa fede e carità perdono l’orientamento e non possono procedere nel tempo.
Abbiamo bisogno di recuperare il vero volto della speranza, come ciò che dal futuro illumina il presente e, ponendosi come un traguardo, chiarisce il cammino. Perché questo accada occorre ridare lo spessore della trascendenza alla nostra ricerca e quindi alla nostra speranza. Ridurre la speranza al soddisfacimento di questo o quel bisogno significa tradirne la natura di realtà che si fa carico della pienezza dell’esistenza e in essa trova la strada anche per rispondere ai bisogni immediati. Non si vuole cioè negare che oggi per i giovani siano particolarmente gravosi gli interrogativi che li toccano a riguardo del loro futuro nella possibilità di avere un lavoro, di incontrare una serena esperienza affettiva, di formare una famiglia, di evitare i non pochi richiami illusori delle varie forme di dipendenza. Ma deve essere altrettanto chiaro che non c’è risposta vera a queste domande se non nella cornice di una comprensione di sé e del mondo secondo verità, senza scorciatoie, nella severità ma anche nella bellezza di un confronto con il disegno di Dio su ciascuno e sull’umanità tutta.
Di qui scaturisce la necessità del confronto, anzi dell’incontro con Cristo, colui nel quale il Padre viene verso l’uomo e gli mostra la verità su se stesso e sul mondo. È Cristo il fondamento della nostra speranza, perché non ci può essere futuro credibile per l’uomo se non c’è superamento del limite estremo della vita, e cioè della morte. Solo colui che è andato incontro alla morte per amore e in questo dono di sé l’ha sconfitta ed è risorto da morte può essere un riferimento affidabile per la nostra speranza. Lui solo può essere la nostra speranza. Ed egli è speranza per noi in quanto si fa presente alla nostra vita mediante il suo Spirito. Egli si fa nostro amico e compagno di viaggio, e la sua amicizia e presenza è luce e forza per il nostro cammino. Ci ha detto Papa Francesco: «La nostra non è una gioia che nasce dal possedere tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi; nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili, anche quando il cammino della vita si scontra con problemi e ostacoli che sembrano insormontabili, e ce ne sono tanti! E in questo momento viene il nemico, viene il diavolo, mascherato da angelo tante volte, e insidiosamente ci dice la sua parola. Non ascoltatelo! Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo nostro mondo. E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza! Quella che ci dà Gesù» (Omelia della Domenica delle Palme, 24 marzo 2013, n. 1).
Il grido di Papa Francesco ha un particolare valore nell’ottica missionaria di questa GMG. Non si tratta soltanto di non lasciare che qualcuno ci rubi la speranza, ma sentiamoci impegnati a far sì che la speranza non sia rubata a nessuno, che nessuno ne sia privato per nostra negligenza nell’annuncio e nella testimonianza: «E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la speranza!».
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze

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Di seguito la seconda catechesi  pronunciata giovedì 25 luglio dal cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, alla GMG di Rio 2013.
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All’inizio della prima enciclica Benedetto XVI scrisse alcune parole che ritengo possano aiutarci a entrare nella catechesi odierna: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus Caritas est, n. 1).
Sta qui la differenza di fondo tra una qualsiasi visione del mondo e l’esperienza della fede cristiana. Ciò che rileva Benedetto è anche ciò che distingue la fede del cristiano da una qualsiasi altra fede religiosa, perfino quella che ci è più vicina, in quanto nostra stessa radice, la fede ebraica. Il rapporto storico e personale in cui consiste il fatto religioso ha infatti la sua attuazione piena ed unica nella persona del Figlio di Dio fatto uomo.
Credere è incontrare Gesù, riconoscere in lui l’evento che sta al centro della storia umana, accoglierlo come presenza nella nostra vita, entrare in dialogo con lui facendo interagire la nostra vita con la sua, assumere la sua esistenza come l’orientamento decisivo della nostra. Un progetto che non chiede di rinunciare ad alcunché della nostra realtà umana, ma che la valorizza in tutte le sue potenzialità, coinvolgendo mente e cuore, intelligenza e volontà, razionalità e libertà.
Sarebbe però un errore pensare questo incontro come un rapporto tra eguali. Lo scarto tra il divino e l’umano segna di sé già tutta la storia d’Israele con il suo Signore. L’alleanza con cui questi si lega al suo popolo è un atto di grazia, in cui Dio si impegna con fedeltà nella libertà, senza che la fedeltà chiesta al popolo possa per questo costituire un credito verso di lui. Sta a dimostrarlo il fatto che la fedeltà di Dio si esercita proprio a fronte dell’infedeltà del popolo, svelando quindi che il patto non è tra eguali, ma ha una sola sorgente, che è l’amore di Dio.
Non cambiano le cose nel legame con sé che Gesù offre a quanti rispondono alla sua parola. L’immagine che traduce la natura del legame è il discepolato, l’andare con e dietro il Maestro. All’origine della fede c’è una chiamata a condividere la vita con Gesù e ad accettare di seguirne i passi: «Passando lungo il mare di Galilea, [Gesù] vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mc 1,16-18).
Andare con lui, stare con lui, seguirlo, è quanto Gesù chiede a coloro a cui egli si accosta chiamandoli. Credere significa farsi discepoli. Solo il discepolato può aprire alla missione, perché non si potrà testimoniare se non ciò che si è vissuto e condiviso con il Signore.
E se l’entusiasmo della scoperta, se la gioia di sentirsi chiamati può indurre a una decisione coraggiosa e senza esitazioni – “subito” –, con un gesto che segna per sempre la vita, passo dopo passo i discepoli si dovranno misurare con la radicalità della scelta proposta da Gesù: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25). La strada del discepolo non può essere diversa da quella del Maestro, e la strada di Gesù è la strada della croce, una croce illuminata dalla futura risurrezione, ma pur sempre una croce: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,18-19).
Come discepoli ci attendiamo di ricevere da Gesù un’illuminazione decisiva sul cammino della nostra vita. E la sua parola non manca di essere luce per noi. Anzi, egli stesso ci ricorda che l’ascolto della sua parola è ciò che qualifica la nostra condizione di discepoli e ci fa sua famiglia: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21).
Ha scritto Benedetto XVI in vista della GMG di Rio de Janeiro: «Un discepolo, in effetti, è una persona che si pone all’ascolto della parola di Gesù (cfr Lc 10,39), riconosciuto come il Maestro che ci ha amati fino al dono della vita. Si tratta dunque, per ciascuno di voi, di lasciarsi plasmare ogni giorno dalla parola di Dio: essa vi renderà amici del Signore Gesù e capaci di far entrare altri giovani in questa amicizia con Lui» (Messaggio per la XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù 2013, 18 ottobre 2012, n. 2). Lasciarsi plasmare dalla parola di Gesù è il modo con cui la nostra identità di discepoli si rafforza giorno dopo giorno.
Un impegno che va contro un modo di pensare diffuso, che spinge a ritenere che la nostra identità si rafforzi con l’affermazione e la crescita della nostra autonomia, fino a non dover dipendere da nessuno, né per le risorse di cui si deve disporre per affrontare i bisogni della vita, materiali e spirituali, né soprattutto per il giudizio di valore che si è chiamati a mettere in atto di fronte alle scelte della vita. Ci troviamo di fronte alla traduzione banale delle teorie nietzschiane del superuomo, che individuano proprio nel cristianesimo il nemico da abbattere, in quanto impedirebbe all’uomo di forgiarsi secondo i propri desideri, seguendo le sue pulsioni vitali. Non sono solo i limiti posti all’affermazione di sé che Nietzsche rifiuta nella visione cristiana della vita, ma anche l’attenzione che essa riserva verso le fragilità e le debolezze dell’umanità. Ma proprio nell’incapacità a cogliere nel gesto dell’amore verso i piccoli il senso stesso del nostro stare al mondo, questa visione della vita tutta centrata su se stessi e sulla propria autoaffermazione svela la sua debolezza e il suo volto illusorio, perché non riesce a rendere ragione di ciò che tutti sperimentiamo, il limite.
Torna allora attuale l’invito ad accogliere la chiamata al discepolato di Gesù come la vera strada per chi non vuole disperdersi dietro i sogni suoi e della mentalità dominante attorno a lui. Gesù infatti è garanzia di vita piena, per sé e per gli altri, perché fondata sulla sua forza di vittoria sul male e sulla morte e illuminata dalla sua esemplarità sfolgorante, quella che neanche chi si rifiuta alla fede riesce a negare.
In questo cammino ci attrae l’esperienza dei primi discepoli, quelli che hanno avuto il privilegio di incontrare l’umanità di Gesù lungo le rive del lago di Galilea e di poterla condividere lungo strade della Palestina, per scavarne il segreto divino che essa nascondeva. Ma senza rifugiarci in un impossibile ritorno indietro nella storia, la nostra esperienza di discepolato deve misurarsi con le condizioni con cui oggi Gesù ci invita a seguirlo; quelle condizioni che trovano un loro modello nella vicenda dei due discepoli sulla strada che va da Gerusalemme a Emmaus. Per noi, come per loro, la domanda su Gesù sta al centro delle considerazioni fondamentali del cammino della vita: «Due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus… e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto» (Lc 24,13-14). Non voglio dare per scontato questo atteggiamento. C’è troppa gente, anche tra gli stessi credenti, che non si lascia interrogare dalla vita, che vive in una persistente superficialità, con cui cerca di difendersi dai problemi e di allontanare il peso delle decisioni. Quello che ci accade intorno, quello che è accaduto a Gerusalemme duemila anni fa a riguardo del profeta venuto dalla Galilea, non può essere messo da parte come un incomodo fardello che potrebbe ostacolare la nostra spontaneità. Farsi carico della propria vita e prendere sul serio la sfida che ci si propone a partire dalla vicenda storica di Gesù di Nazaret è il nostro primo impegno, la porta di accesso al vero discepolato. Senza questi interrogativi di fondo ogni risposta rischia di scivolare come l’acqua su una pietra levigata, senza possibilità che essa ci penetri e ci fecondi. Aprire il cuore e la mente alla domanda su chi è Gesù e su chi siamo noi: da qui parte la nostra avventura.
Essa poi va nutrita e sostenuta, altrimenti resteremmo preda delle nostre tristezze. Allo sconosciuto che vuole entrare in dialogo con loro e li interroga, si contrappone questa immagine di sconforto, che è la condizione di chi pur ponendosi gli interrogativi della vita non si è ancora aperto all’ascolto di una parola che possa illuminarli: «Ed egli disse loro: “Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?”. Si fermarono, col volto triste» (Lc 24,17). È la condizione di chi pensa di bastare a se stesso per trovare soluzioni agli interrogativi che lo assillano. Occorre invece uscire da noi stessi e aprirci al dialogo con una voce che sia capace di orientarci in modo nuovo.
È quanto accade sulla strada verso Emmaus, quando lo sconosciuto comincia a interloquire con i due discepoli e, alla narrazione dei fatti della passione e soprattutto alla confessione della speranza delusa, come pure agli enigmi legati a un sepolcro vuoto e ad apparizioni di angeli, oppone il richiamo alle parole profetiche, le sole in grado di gettare una luce decisiva su quanto era accaduto: «Disse loro: “Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,25-27). Non ci sono differenze in questo tra noi e i due sulla strada verso Emmaus: anche per noi risuona la voce di Gesù che ci consegna nelle parole della Scrittura, così come ci sono offerte e illuminate dalla Chiesa, la stessa chiave interpretativa della sua e della nostra vita. L’ascolto di queste parole è l’ulteriore passo, dopo quello dell’apertura alla domanda, che ci pone sul cammino del discepolato.
Non si può essere discepoli di Gesù senza essere uditori della Parola, senza nutrire le nostre giornate di ascolto e confronto con la parola di Dio, quella che la Chiesa proclama, leggendo con noi e per noi le pagine della Scrittura sacra. Chiediamoci allora quale spazio diamo nella nostra vita all’ascolto e alla meditazione della parola di Dio, valorizzando in particolare quella pratica di lettura che va sotto il nome di “lectio divina”: un metodo di ingresso nel significato della Parola mediante la lettura, ossia la spiegazione del senso delle parole così come sono proposte dal testo, la meditazione, ossia la collocazione del messaggio del testo nell’insieme della verità della fede, l’orazione, l’entrare in dialogo mediante le nostre parole con la parola che abbiamo ricevuto, e infine la contemplazione, il riflettere su come la Parola illumina la storia e in essa le scelte che ci sono richieste nella prospettiva dell’eterno.
Ma questo non basta ancora, perché come ben sappiamo c’è un altro passo da compiere perché per i due discepoli giunga lo svelamento dell’identità dello sconosciuto compagno di viaggio. È il passo che si compie attorno alla tavola a cui lo hanno invitato: «Essi insistettero: “Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”: Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,29-31). Il gesto che Gesù compie ha un’evidente natura eucaristica e ci dice come solo nella partecipazione sacramentale alla sua stessa vita donata per noi è possibile giungere al compimento e alla pienezza dell’incontro. Solo in forza del dono di grazia del sacramento le parole prima udite svelano il loro pieno valore e diventano verità significativa per la vita: «Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?”» (Lc 24,32).
La vita sacramentale, percepita non come mero rimando simbolico, ma come efficace presenza del Salvatore alla nostra esistenza, una presenza che è di tutti i sacramenti e si fa propriamente reale nell’Eucaristia. Ne discende l’impegno a curare la nostra vita sacramentale, sia nella partecipazione assidua al gesto liturgico, quello della Messa come quello della Riconciliazione, sia nel prendersi cura degli effetti del sacramento nella vita, per tutti i sacramenti che abbiamo ricevuto, Battesimo e Confermazione, e che riceviamo, Penitenza ed Eucaristia. La vita sacramentale è ciò che ci salva dalla riduzione del cristianesimo a gnosi, a conoscenza, ed è ciò che esprime la consapevolezza che la radice del nostro discepolato è grazia e solo grazia.
Conosciamo tutti quale sia stato l’esito dell’incontro di Emmaus: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”. Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,33-35). Camminare con Gesù, farsi suoi discepoli, accogliere la sua presenza di grazia nella Parola e nei sacramenti produce un’istanza missionaria, che spinge a condividere il dono che si è incontrato. Chi è davvero discepolo di Gesù, non può non esserne anche testimone e annunciatore.
Ma la narrazione evangelica evidenzia come la testimonianza dei due che vengono da Emmaus sia preceduta dalla parola della comunità, la quale fa appello all’esperienza apostolica, quella di Pietro, che è il fondamento e il discernimento di ogni esperienza personale. La fede che precede è la fede della Chiesa, quella che essa condivide come dono ricevuto dagli apostoli, posti da Gesù a suo fondamento. Sulla base di questa fede e filtrata dal raffronto con essa si fa spazio l’esperienza e la testimonianza individuale, che non potrà mai esprimersi in modo da questa dissonante. Testimoni, annunciatori, ma nel grembo della testimonianza ecclesiale e da questa illuminati e ad essa conformati.
La narrazione del vangelo di Luca a riguardo dei nostri due discepoli si ferma qui e non dice altro circa il futuro della loro vita. Ma è chiaro che l’incontro con Gesù non può agire solo a livello di consapevolezza: esso ha a che fare con l’intera esistenza del credente. Sono soprattutto le lettere neotestamentarie a illustrarci come aver incontrato Cristo esige che ci si conformi a lui nelle diverse dimensioni della nostra esistenza. Il cammino con Gesù è anche cammino di conversione a lui, in lui.
Lo ha illustrato in modo magistrale Benedetto XVI in una sua omelia, facendo riferimento alla frase dell’apostolo Paolo nella lettera ai Galati: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Così commentava il Papa: «Vivo, ma non sono più io. L’io stesso, la essenziale identità dell’uomo – di quest’uomo, Paolo – è stata cambiata. Egli esiste ancora e non esiste più. Ha attraversato un “non” e si trova continuamente in questo “non”: Io, ma “non” più io. […] Questa frase è l’espressione di ciò che è avvenuto nel Battesimo. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande. Allora il mio io c’è di nuovo, ma appunto trasformato, dissodato, aperto mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza» (Omelia nella Veglia Pasquale, Roma 25 aprile 2006). Il mutamento tocca la nostra sostanza: non è un problema soltanto etico, ma riguarda la mia identità e la assimila a quella di Gesù, così che io se voglio rimanere suo discepolo devo pensare come lui, scegliere conformemente alla sua volontà, amare come lui ci ha amato.
Questo perché ormai gli apparteniamo. Ricorro ancora a parole del papa Benedetto: «Testimoni di Gesù risorto. Quel “di” va capito bene! Vuol dire che il testimone è “di” Gesù risorto, cioè appartiene a Lui, e proprio in quanto tale può rendergli valida testimonianza, può parlare di Lui, farLo conoscere, condurre a Lui, trasmettere la sua presenza» (Omelia alla messa in occasione del IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona 19 ottobre 2006).
L’appartenenza a Gesù implica due cose su cui, per finire, vorrei attirare la vostra attenzione. La prima riguarda il fatto che ogni dimensione della nostra vita viene da essa toccata: l’unità spirituale e corporale della nostra persona, le nostre relazioni con gli altri, la vita in famiglia, gli affetti, lo studio e il lavoro, il rapporto con i beni materiali, l’impegno nella vita sociale. Può essere utile metterci ancora all’ascolto dell’apostolo Paolo, da cui traggo, tra i molti possibili, un noto testo della lettera ai Galati: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne […]. Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,13.16-25).
La seconda conseguenza del nostro appartenere a Cristo è che la sua presenza tra noi ha avuto un centro ben preciso, da cui non possiamo prescindere: la croce. Qui mi soccorrono le parole di Papa Francesco: «Perché la Croce? Perché Gesù prende su di sé il male, la sporcizia, il peccato del mondo, anche il nostro peccato, di tutti noi, e lo lava, lo lava con il suo sangue, con la misericordia, con l’amore di Dio. Guardiamoci intorno: quante ferite il male infligge all’umanità! Guerre, violenze, conflitti economici che colpiscono chi è più debole [..]. Amore al denaro, potere, corruzione, divisioni, crimini contro la vita umana e contro il creato! E anche - ciascuno di noi lo sa e lo conosce - i nostri peccati personali: le mancanze di amore e di rispetto verso Dio, verso il prossimo e verso l’intera creazione. E Gesù sulla croce sente tutto il peso del male e con la forza dell’amore di Dio lo vince, lo sconfigge nella sua risurrezione. Questo è il bene che Gesù fa a tutti noi sul trono della Croce. La croce di Cristo abbracciata con amore mai porta alla tristezza, ma alla gioia, alla gioia di essere salvati» (Omelia alla messa della Domenica delle Palme, 24 marzo 2013, n. 2). Dunque, consapevolezza del mistero del male, ma anche certezza di un amore, quello di Dio, che è capace di vincere ogni male, aprendo anche a noi la prospettiva del dono di sé come strada per la vera vita: con Gesù e come Gesù.
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze