giovedì 4 luglio 2013

«Posso testimoniare che c’era autentica libertà»




Il 2 novembre 1963, in una lettera al fratello, Karl Rahner tracciava un primo bilancio del concilio

Di seguito ampi stralci di uno degli articoli che saranno pubblicati sul prossimo numero della «Civiltà Cattolica».
Dietro le quinte del Vaticano II. «Posso testimoniare che c’era autentica libertà». (Andreas R. Batlogg e Nikolais Klein) Le lettere scambiate tra fratelli sono anzitutto una questione privata. Tuttavia la corrispondenza personale diventa un documento storico quando non soltanto scambia e comunica informazioni private, ma, al di là di questa funzione (direttamente o indirettamente), assume il carattere di una cronaca. (...) È questo il caso della lettera che il 2 novembre 1963 Karl Rahner (1904-1984) scrisse da Roma a suo fratello Hugo Rahner (1900-1968), di quattro anni più anziano di lui.
Infatti il più giovane dei due professori gesuiti di Innsbruck, che partecipò al concilio Vaticano II (1962-1965) come consigliere dell’arcivescovo di Vienna, il cardinale Franz König, e come perito ufficiale, descriveva da Roma al fratello più anziano, che si trovava nella capitale del Tirolo, sia quello che succedeva nella città eterna sia la sensazione di poter gettare uno sguardo dietro le quinte, cioè sul lavoro da carrettiere di un «portatore d’acqua» del Vaticano II, che intendeva la «teologia come un servizio».
La lettera di Karl Rahner è datata al 2 novembre 1963. A partire dalla seduta di apertura del 29 settembre 1963, domenica nella quale Paolo VI aveva esposto il suo programma per il concilio e per il suo pontificato, tra il 30 settembre e il 31 ottobre si erano susseguite assemblee quasi quotidiane (in tutto 23, dalla 37ª alla 59ª congregazione generale). Si era discusso soprattutto lo schema sulla Chiesa. Il 2 ottobre Karl Rahner aveva tenuto una conferenza sul tema «Autocoscienza della Chiesa» a un gruppo di giornalisti di lingua tedesca che seguivano il concilio. La sua lettera al fratello, scritta quattro settimane dopo, può essere considerata un bilancio provvisorio.
Egli descrive il proprio impegno in questi termini: comporre testi, tenere conferenze, lavorare nella Commissione teologica, nella quale collaborava con qualche vescovo, e nella quale il teologo belga Gérard Philips diventava sempre più il protagonista principale. La stessa aula conciliare non rappresentava per Rahner la scena preferita.
Scrivere un testo per il vescovo che l’aveva condotto con sé al concilio era un lavoro anonimo, che Karl Rahner aveva imparato a conoscere anche nel suo insegnamento accademico.
I testi che circolavano nel concilio (nelle commissioni o in aula) potevano benissimo lasciare intravedere il «manoscritto» di un certo teologo; ma nessun teologo avrebbe rivendicato per sé il copyright. Ciò che poteva fare un vescovo di un testo che gli era stato preparato era in fondo affare suo. Un concilio è in definitiva un’assemblea di vescovi, e non un convegno di teologi. Karl Rahner riferisce che i testi, da parte dei vescovi, erano ulteriormente rivisti, presentati, accettati o respinti, rielaborati o riscritti da capo. Nel retroscena, molta parte era opera dei collaboratori, il cui lavoro tuttavia restava sempre «inteso come impersonale».
Nonostante questo, nel corso concreto dei lavori si formavano inevitabilmente alcune cosiddette «fabbriche di testi». Ma i teologi non dovevano brillare come solisti: si richiedevano lavori di gruppo. Per Karl Rahner era importante lavorare in équipe.
Quanto sia evidente che il servizio prestato dal teologo debba restare nascosto, si nota anche nel fatto che Rahner accenna soltanto di passaggio alle due votazioni degli ultimi giorni di ottobre, nelle quali erano in gioco anche le posizioni da lui introdotte nella discussione e poi da lui difese con grande impegno. Sulla votazione del 29 ottobre 1962 egli scrive: «Balić [teologo croato, perito al Concilio] poteva certo far stampare dall’editrice vaticana le sue opinioni e diffonderle in aula. Ma la votazione è andata contro di lui». Egli parla di quella votazione nella quale i padri conciliari — anche se con una maggioranza molto ristretta di 1.114 voti contro 1.074 — avevano deciso che nello schema sulla Chiesa si inserisse un testo breve sul ruolo di Maria nella storia della salvezza, e che questo argomento non rientrasse nelle discussioni relative alla creazione di un documento mariologico autonomo.
Un dibattito sull’opportunità e sulle condizioni di un testo mariologico era già iniziato quando si discuteva dello schema sulla Chiesa durante la prima sessione del concilio, e ben presto si era giunti a una situazione di stallo: i fautori di un testo autonomo su Maria sostenevano la loro richiesta, dicendo che si trattava di una dottrina essenziale per la Chiesa cattolica, mentre coloro che erano contrari a un testo indipendente su Maria facevano notare che l’integrazione della mariologia nello schema sulla Chiesa veniva incontro alle finalità di una ecclesiologia orientata alla pastorale e agli intenti ecumenici.
Il suo sguardo si rivolge invece al lavoro futuro, con il suo peso e le sue pene. E a questo si riferisce anche la breve retrospettiva sulle dispute delle settimane precedenti, quando «dietro le quinte», vale a dire tra i moderatori, la presidenza del concilio e le autorità della Curia, si era lottato tenacemente sulle formulazioni dei testi che dovevano essere sottoposti a una votazione sulla qualità teologica da attribuire alla collegialità episcopale e sul ripristino del diaconato permanente.
Nel momento in cui Rahner scrive la sua lettera, queste dispute appartengono ormai al passato. Così egli accenna soltanto di sfuggita all’attacco pesante contro «certi periti», che il cardinale Alfredo Ottaviani aveva lanciato in un intervento estemporaneo nell’aula conciliare del 21 ottobre 1962. Ottaviani non aveva fatto nomi, ma era chiaro che si riferiva a Karl Rahner, Joseph Ratzinger e Gustave Martelet, perché il cardinale citava un breve testo scritto da questi tre teologi sulla collegialità dei vescovi e sul diaconato permanente.
Più importante dell’attacco di Ottaviani è per Karl Rahner, alla fine di ottobre, il risultato raggiunto: fin dall’inizio della seconda sessione egli era convinto che ormai non si potesse più respingere in toto uno schema già pronto, come era avvenuto nella prima sessione, ma che si trattasse ora di introdurre migliorie nei testi già esistenti, con un lavoro minuzioso e faticoso. Questo metodo di lavoro si rivelò corretto. Il suo impegno faticoso per migliorare i testi si era dimostrato fruttuoso.
È interessante notare quali conseguenze tragga Rahner da questa sua esperienza. Essa gli offre l’occasione per ricordare qualcosa dalla storia dei concili: «Dal punto di vista formale si potrebbe paragonare molto bene il concilio con quello di Calcedonia. Come allora i sostenitori di Efeso temevano che si sconfessasse Cirillo e il concilio di Efeso, così oggi è Salaverri, che rappresenta la maggioranza (non tutti) dei vescovi spagnoli e italiani, a ritenere che si voglia abolire il Vaticano I».
Nella sua conferenza tenuta a Friburgo più di due mesi dopo, divulgata una prima volta nel gennaio 1964 e pubblicata già agli inizi del marzo 1964, e di cui si è conservato il manoscritto originale, si può ritrovare con altre parole, e in parte anche in maniera più cruda rispetto alle righe scritte a Hugo Rahner, ad esempio la menzione di un opuscolo di integralisti francesi che ingiuriavano il nuovo Papa e attaccavano personalmente Karl Rahner e altri teologi. Ma egli ritiene che queste polemiche, sotto molti aspetti offensive, siano il segno di un’atmosfera di libertà: «Tutte queste osservazioni mostrano però quale sia la questione più importante: il Concilio lavora realmente in un clima conciliare di libertà, di discussione aperta e di ricerca di un’opinione, con responsabilità personale e un lavoro serio. E in tutto questo non muta nulla, se qua e là vi sono rari fenomeni marginali che si manifestano più attorno al Concilio che nel Concilio stesso. (...) Ma questi e altri fenomeni marginali in definitiva mostrano soltanto che il Concilio affronta questioni che toccano gli interessi più vivi e che il Concilio non si occupa soltanto in maniera prolissa di cose ovvie, che nella Chiesa nessuno contesta».
Sarebbe certamente allettante, e anche istruttivo, confrontare questo bilancio provvisorio che Karl Rahner traccia a metà strada della seconda sessione del concilio con la sua conferenza celebrativa tenuta il 12 dicembre 1965, a conclusione del concilio, nella superaffollata sala di Ercole della residenza di Monaco, quando così si espresse nei confronti dello svolgimento del concilio al suo interno: «Ho guardato veramente dietro a quasi tutte le quinte del Concilio. Conosco i lati umani, le debolezze, le ottusità, le vanaglorie e quant’altro ancora, dove gli uomini restano sempre uomini e proprio in queste condizioni devono portare avanti l’opera di Dio. Ma posso testimoniare che c’era autentica libertà, una libertà con la quale ci si premurava di servire in tutte le maniere la causa di Dio, la verità e l’amore. Chi non è in grado di vedere quello che c’è di positivo nel suo avversario, corre il rischio di diventare egli stesso cattivo testimone di uno spirito partigiano, gretto e limitato, che si può possedere anche se si è all’avanguardia, mentre la virtù e l’insufficienza umana sono distribuite in misura quasi uguale in tutte le direzioni dalla provvidenza di Dio che sorride benevolmente. Ciò che veramente stupisce e meraviglia in questo Concilio in fatto di libertà è che esso sia riuscito, in questa stessa libertà, a raggiungere un’affermazione comune e una decisione comune. E questo al giorno d’oggi è tutt’altro che scontato».
Nella conferenza di Friburgo si trova un brano più lungo, che si può intendere come un tentativo di Karl Rahner di riflettere e di capire che cosa possa significare scoprire la verità su un piano collettivo.
In questo contesto egli afferma espressamente che la sua presa di posizione a favore di una verità trovata nel dialogo non significa accettare acriticamente un’opinione che appartiene di fatto a una maggioranza. Sulla via che conduce al consenso si collocano invece vari criteri di verità. In una discussione sono in gioco mentalità e tradizioni culturali diverse. Nello stesso tempo vengono addotte argomentazioni che devono servire a valutare le singole posizioni. Rahner osserva al riguardo che in maniera latente o palese le mentalità concrete e le argomentazioni potrebbero essere anche molto diverse tra loro. Con questi presupposti egli può parlare dei dibattiti del concilio come di un procedimento collettivo verso la verità: «In un certo senso si potrebbe dire che nell’intervallo tra la mentalità conciliare e il decreto definitivo si colloca il momento in cui si annida sia il lavoro teologico umano sia l’azione segreta dello Spirito Santo, che vi agisce dal di dentro e si rende efficace al di là di esso, il momento in cui questa atmosfera spirituale si chiarisce in una dottrina o in una norma giuridica della Chiesa».
L'Osservatore Romano