giovedì 5 aprile 2012

Gesù esce nella notte



Di seguito l'omelia del Papa durante la Messa "In Coena Domini", nella Basilica di San Giovanni in Laterano.


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Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato.
Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.

Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita.

Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità. Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.

Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abba”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.

Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio.

Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in quel gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.

Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più.

Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre. Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato.

Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita.

Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà.

Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi.
Amen.



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ALTRE OMELIE DELLA MESSA "IN COENA DOMINI" 



1. SCOLA

 

Arcidiocesi di Milano


Messa in Coena Domini

Gio 1,1-3, 5.10;1Cor 11,20-34; Mt 26,17-75

Duomo di Milano, 5 aprile 2012


Omelia di S.E.R. Card. Angelo Scola, Arcivescovo di Milano




1. La lettura della storia di Giona che un’antichissima tradizione, risalente a sant’Ambrogio, ci ha riproposto quasi integralmente adombra il mistero della Pasqua di Cristo. Così è stata interpretata da Gesù stesso (cf Mt 12,40) e dalle generazioni cristiane. Ma l’identificazione che sant’Ambrogio fa di Gesù con il “vero Giona” non poggia solo sul fatto che il profeta, gettato negli abissi della morte (il mare) li ha attraversati da “salvato” (nel ventre del pesce) ed è “risorto” (rigettato sulla spiaggia).
Adombrata in Giona c’è anche la forza dell’espiazione, che redimendo il colpevole rende giustizia alle vittime. Giona per placare il mare non è stato sacrificato da altri agli dei, ma ha preso su di sé la sua colpa e la responsabilità del disastro incombente riconoscendo che era dovuto alla sua disobbedienza: «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colti per causa mia» (Lettura Gio 1,12). Ultimamente Giona non subisce la pena di morte, ma la sceglie come conseguenza dei suoi atti. Espiando per salvare gli altri, si redime. Lo sconvolgente dono di Gesù consiste nel fatto che Egli, l’Innocente purissimo, acquista a caro prezzo i nostri peccati e li espia giustificandoci, cioè liberandoci dalla colpa.
Assunzione delle proprie responsabilità ed espiazione: due criteri che rischiano di sparire dal tessuto della nostra umana convivenza.

2. La celebrazione eucaristica di questa sera ci introduce nel mistero salvifico della libera consegna che il Signore fa di Sé alla morte per la nostra salvezza. «Il tuo Figlio unigenito… è venduto a sacrilego prezzo da un servo, e colui che giudica gli angeli è trascinato davanti al tribunale di un uomo», ci farà recitare tra poco il Prefazio.
È, infatti, nel contesto dell’Ultima Cena che Gesù confida ai Suoi una tragica verità: «In verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (Vangelo, Mt 26,21). Tutti i Vangeli introducono l’ultima tappa della vita di Gesù con l’episodio del tradimento di Giuda. Anche Paolo ricorda che la cena avviene la notte in cui Gesù fu tradito (cf. Epistola, 1Cor 11, 23). Ora, il verbo greco (paradidômi) con cui è sempre segnalato dal Nuovo Testamento il tradimento di Giuda, significa fondamentalmente consegnare, rimettere qualcosa a qualcuno, da cui anche tradire, trasmettere (il latino tradere); ma Gesù stesso utilizza questo verbo (cf. gli annunci della passione) per indicare che il carattere della sua morte è quello della consegna. Solo una reale consegna di Sé poteva vincere con l’amore la “consegna” altrettanto reale ad opera di Giuda, il traditore, nell’Orto degli Ulivi.
L’Ultima Cena è il portico della “consegna pasquale” del Signore. Rivela come la morte cruenta sulla croce, prima di essere vissuta, è già presa e fatta sacramento nella Sua volontà di amore. Ciò che dà valore salvifico alla morte di Cristo, infatti, non è l’atto cruento in sé, ma la consegna che Egli ha fatto di sé in quella morte. Ne è segno la lavanda dei piedi che imprime per sempre alla vocazione e alla missione cristiana il sigillo dell’essere presi a servizio.

3. «Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua… con i miei discepoli» (Vangelo, Mt 26,18) Gesù celebra la Sua Pasqua coi discepoli, per loro e insieme a loro. Nel Sacramento istituito dalla Sua carità Gesù ha già incorporato a Sé tutti i Suoi. Lo stravolgimento, la confusione, l’incapacità di seguirlo, il rinnegamento e l’abbandono («lo spirito è pronto, ma la carne è debole», Vangelo, Mt 26,41) che lasceranno Gesù solo a portare a compimento l’Opera della Redenzione, non inficeranno l’imperituro dono della comunione generata da quella Pasqua, come i fatti avvenuti dopo la risurrezione dimostreranno.
Per questo i cristiani - anche noi oggi -, se si riconoscono peccatori, possono supplicare con sant’Ambrogio: «Donaci o Signore “le lacrime che sciolgono la colpa, il pianto che merita il perdono” (Sant’Ambrogio, Esposizione sul Vangelo di Luca X, 90)
Senza questo pentimento frutto del perdono, l’umana convivenza inesorabilmente si infragilisce e si decompone, si riduce a «ragnatele di rapporti intricati che cercano una forma» (Italo Calvino).

4. «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché Egli venga» (Epistola, 1Cor 11,26). «Fate questo in memoria di me» dice il sacerdote, in persona Christi, nel momento-culmine della Santa Messa. Queste parole che rappresentano il cuore della cena del Signore, non sono una semplice proclamazione, ma costituiscono la possibilità di essere introdotti nell’evento salvifico che viene celebrato. Da qui viene ad ogni cristiano una grande responsabilità. Dice il Signore: «Fate questo», non “prendete pretesto” da questo per fare secondo criteri vostri.
«Pange, lingua, gloriosi corporis mysterium, sanguinisque pretiosi, quem in mundi pretium fructus ventris generosi, rex effudit gentium»: “Canta o lingua il mistero del Corpo glorioso e del Sangue prezioso che il Re delle nazioni, frutto del grembo benedetto, sparse per il riscatto del mondo”. L’incomparabile inno di San Tommaso d’Aquino è una sintesi potente della solennità di oggi. «L’intero Triduum paschale,… è «concentrato» per sempre nel dono eucaristico. In questo dono Gesù Cristo consegnava alla Chiesa l'attualizzazione perenne del mistero pasquale. Con esso istituiva una misteriosa “contemporaneità” tra quel Triduum e lo scorrere di tutti i secoli» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucaristia, 5). Solo se per la forza del sacramento che interpella la mia libertà Gesù Cristo mi è contemporaneo può essere il mio Salvatore, il mio dolce Redentore.
Dalla tenera potenza di questo immenso dono viene a noi, preziosa in questa sera, la garanzia di speranza affidabile. Amen.


2.  CAFFARRA

Il sacramento della Passione diventa il sacramento della carità e dell'unità


ROMA, giovedì, 5 aprile 2012.- Di seguito l'omelia pronunciata oggi dal cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, durante la messa “in coena Domini” del Giovedì santo, con il gesto della “lavanda dei piedi”.

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La Chiesa ci introduce nei tre giorni che ci aspettano colle seguenti parole: «Il Triduo della passione e della risurrezione del Signore risplende al vertice dell’anno liturgico, poiché l’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio è stata compiuta da Cristo specialmente per mezzo del mistero pasquale».
Il santo Triduo inizia colla memoria solenne di due eventi molto legati fra loro: l’istituzione dell’Eucarestia, e la lavanda dei piedi.
1. È Cristo stesso che ha voluto, ha pensato – in una parola ha istituito – l’Eucarestia. Essa non ha origine dal naturale e comprensibile desiderio della primitiva comunità dei discepoli di “inventare” un rito che custodisse nei secoli il ricordo di Gesù: è da Lui stesso che l’Eucarestia ha avuto origine. Lo ha ricordato l’Apostolo nella seconda lettura: «Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso». Di generazione in generazione la celebrazione dell’Eucarestia è giunta fino a noi; l’inizio di questa trasmissione è il Signore Gesù.
È allora lecito, è un bisogno di chi ama sapere che cosa ha mosso Gesù ad istituire questo sacramento. Se ci mettiamo in ascolto della Chiesa, sentiamo che essa lungo i secoli ha dato una sola risposta: perché fosse custodita la “memoria” del sacrificio di Gesù sulla Croce.
Il grande dottore dell’Eucarestia, S. Tommaso d’Aquino scrive: «questo sacramento è stato istituito nella Cena affinché in futuro ci fosse sempre il memoriale della Passione, una volta che questa fosse compiuta» [3, q.73. a. 5. ad 3um].
Per cogliere in tutto il suo peso l’intenzione di Gesù, dobbiamo afferrare bene il significato di “memoria della passione”. Quando, infatti, noi parliamo di conservare la memoria, di custodire il ricordo di una persona, parliamo in realtà di un nostro stato d’animo che non rende presente la persona amata. Per sua natura il ricordo, la memoria è spiegabile solo perché chi è ricordato, è assente o per la morte o per altre ragioni.
Quando la Chiesa parla di “memoriale della Passione” non intende questo stato d’animo. Alla luce della parola del Signore, che abbiamo nuovamente sentita da S. Paolo, l’Eucarestia è memoriale perché «contiene lo stesso Cristo che ha sofferto» [ibid., ad 2um]. Ogni sacramento è un mezzo di salvezza, in quanto agisce in noi in virtù della passione di Cristo. Ma l’Eucarestia è il sacramento della passione del Signore, poiché in essa è presente Cristo stesso che per noi è morto sulla Croce.
Cari fratelli e sorelle, quando abbiamo a che fare con l’Eucarestia abbiamo a che fare con la presenza reale del Signore stesso. «Questo è il mio corpo» - «questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue». La fede ci autorizza a dire che quanto essa attribuisce alla passione del Signore in ordine alla nostra redenzione, deve essere attribuito in egual modo all’Eucarestia.
Ma la nostra domanda a questo punto si fa più incalzante: ma perché, Signore, tu hai voluto questo modo di ricordarti, continuando fra noi la tua presenza reale? Perché non hai ritenuto che bastassero le narrazioni evangeliche, scritte sotto l’ispirazione del tuo Spirito? Le nostre domande chiedono a che cosa mirava Gesù istituendo l’Eucarestia, quale scopo si prefiggeva.
Egli ha voluto che la sua Presenza, la presenza della sua Passione, fosse significata e richiamata dal pane e dal vino, cioè dal fondamentale nutrimento della vita umana. Ciò non può essere stato per caso.
Mediante il nostro quotidiano nutrimento noi sosteniamo la nostra vita fisica, attraverso quella mirabile trasformazione del cibo chiamata metabolismo del nostro corpo.
Il pane e il vino eucaristico, che in realtà sono il corpo offerto e il sangue effuso di Gesù, mantengono la funzione del nostro cibo, ma rovesciata: non siamo noi che trasformiamo Gesù nel nostro io, ma è il nostro io che viene trasformato in Gesù. Agostino racconta che una volta sentì la voce di Cristo che gli diceva: «non sei tu a trasformare me in te, come il cibo della tua carne, ma tu sarai trasformato in me» [Confessioni VII, 10].
Questo si proponeva Gesù istituendo l’Eucarestia: trasformare ciascuno in Lui, fino al punto che ciascuno possa dire: «non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» [Gal 2, 20]; ed in Lui si costituisce quella profonda unità che è condivisione della stessa vita, si costituisce cioè la Chiesa.
Ma dobbiamo essere più concreti e precisi: in “quale Gesù” l’Eucarestia ci trasforma? Nel Gesù che fa i miracoli? No, cari amici: in Gesù che dona Se stesso fino alla morte; in Gesù trasfigurato dal suo amore. Mediante la comunione al corpo e al sangue di Cristo, siamo partecipi e resi capaci di amare come Gesù ha amato.
2. Ora possiamo capire l’altro grande gesto compiuto da Gesù nell’ultima Cena: la lavanda dei piedi degli apostoli. Molto brevemente. I Padri della Chiesa qualificavano questo gesto come «sacramento» e come «comandamento».
Sacramento: un gesto che significava qualcosa d’altro. Che cosa? il grande atto che Gesù stava per compiere, il supremo servizio d’amore per l’uomo.
Comandamento: «vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi». «Come io» - «anche voi»: ecco tutta la vita cristiana, dominata dalla logica dell’amore.
Ma come l’amore di Gesù passa nella nostra libertà? Come l’io di Gesù che «avendo amato i suoi li amò sino alla fine», trasforma il nostro io? Mediante l’Eucarestia celebrata, ricevuta, adorata.
Il «sacramento della passione» diventa il «sacramento della carità», e quindi il «sacramento dell’unità».
Cari amici, non ci resta che lo stupore contemplativo e adorante di fronte a questo che è “il miracolo dei miracoli” di Gesù.

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 3. FORTE

La grazia dell'obbedienza


ROMA, giovedì, 5 aprile 2012.- Di seguito l'omelia per la Messa Crismale pronunciata oggi da Monsignor Bruno Forte, arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto (Abbruzzo).

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Miei carissimi Sacerdoti e Diaconi,
carissimi Religiosi e Religiose,
carissimi Fedeli tutti!
L’omelia della Messa Crismale - celebrazione dell’unità diocesana intorno al Vescovo - è anche l’occasione in cui il cuore del Pastore si apre per parlare ai suoi, in modo particolare ai preziosi collaboratori nel ministero dell’unità, i presbiteri e i diaconi, e con loro a tutto il popolo santo di Dio. È il momento, umile e solenne, in cui mi è possibile focalizzare con Voi l’attenzione su quanto più mi sembra necessario evidenziare per la crescita comune nella fede, nella speranza e nella carità. Ecco perché quest’anno vorrei dedicare la mia omelia al tema dell’obbedienza, virtù incomprensibile alla logica di questo mondo, e tuttavia preziosa se vissuta nella libertà dei figli di Dio, che intendano piacere a Lui e compiere la Sua volontà.
Che l’obbedienza risulti incomprensibile a una visione soltanto mondana lo si può capire: le immani violenze di tutti i sistemi totalitari del Novecento sono state commesse in nome di un’obbedienza cieca ai capi, la cui voce veniva fatta passare come quella della ragione universale da imporsi a tutto e a tutti, per il presunto bene di ognuno. Nel contesto dell’ideologia trionfante maturò la protesta di don Lorenzo Milani e dei suoi ragazzi della Scuola di Barbiana, con il loro manifesto “L’obbedienza non è più una virtù”. Si trattava di rivendicare la giusta autonomia della coscienza, di quel volere e fare il bene che viene prima di ogni comandamento estrinseco, determinato dalla violenza della massificazione ideologica. Nella cultura dominata dal sistema dei blocchi contrapposti, nello scontro fra gli imperialismi d’Oriente e di Occidente, si poteva ben capire quel grido di protesta, quella doverosa apologia della libertà. In realtà, però, se si era giunti a pervertire l’autonomia morale pretendendo di ridurla ad assenso cieco al potere, questo era avvenuto a causa di una mancanza originaria: al principio di tutti i totalitarismi della modernità sta un’idea di autonomia assoluta della ragione umana, che l’ha sganciata dal dovere morale verso la sovranità e la trascendenza di Dio. Se Dio non esiste, tutto è permesso (Dostoevskji)! Questa è stata la tragica evoluzione del concetto moderno di libertà. Scrive il grande pensatore italo-tedesco Romano Guardini: “L’esigenza morale diviene sempre più una legislazione autonoma dell’uomo, mentre il richiamo del sentimento a Dio svanisce progressivamente e il bene, staccato dalla sua radice metafisica, perde la sua forza vincolante. Di qui la profonda crisi della coscienza morale del nostro tempo. In larga misura l’uomo non capisce più per quale ragione dovrebbe rinunciare, per amore del bene, a cose che gli sembrano utili o farne altre che esigono sacrificio; ne consegue il nichilismo etico: grazie ad esso ... la motivazione etica vera e propria, cioè quella della suprema altezza di senso del bene, svanisce e viene sostituita da quella derivante dalla motivazione legata all’incremento della vita, all’utilità e infine al godimento” (Etica. Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), Morcelliana, Brescia 2001, 467).
Chi vuol essere unica norma a se stesso, sperimenterà forse l’ebrezza di un senso esaltato di libertà, ma non solo non sarà veramente libero, quanto piuttosto finirà col lasciarsi soggiogare dalle logiche mondane del potere, del piacere o dell’avere. Se si assolutizza il proprio punto di vista, si perde il senso dell’insieme e alla fine viene meno anche la percezione della realtà e la capacità di cogliere la bellezza del disegno di Dio su ciascuno e su tutti. È qui che l’obbedienza della fede ci appare in tutto il suo potenziale di autentica libertà: veramente, nessuno è libero come chi è libero dalla propria libertà per amore di Dio e degli altri! Chi vive nell’orizzonte del primato di Dio, sa che la vita non è semplice autoaffermazione, ma risposta, una risposta libera e liberante d’amore a Colui che nel Suo mirabile disegno ci ha creati e inviati. È quanto ci ricorda il profeta Isaìa, parlandoci dell’Unto del Signore (61, 1-3.6. 8-9): “Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore…”. Chi si lascia condurre dalla volontà dell’Eterno, non solo conosce la gioia e la pace vera del cuore, ma diventa il consolatore degli afflitti, il difensore dei deboli, il padre dei poveri. Con chi agisce così, il Signore “concluderà un’alleanza eterna” e la sua opera susciterà e confermerà “la stirpe benedetta dal Signore”. Chi si fida incondizionatamente di Dio e consegna a Lui la Sua vita attraverso le mani e il cuore dei legittimi Pastori - come siamo chiamati a fare noi, consacrati del Signore - potrà dire di sé col Salmo (Sal 68): “Canterò per sempre l’amore del Signore”, e di lui il Signore dirà: “La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui e nel mio nome s’innalzerà la sua fronte”.
Il testo tratto dall’Apocalisse (1,5-8) ci fa capire, poi, quale sia il vero scopo, il senso ultimo e profondo dell’obbedienza vissuta nella fede: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue… la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”. A chi dice a Dio il suo “Amen”, umile e convinto, generoso e fedele, l’Eterno risponde dicendo: “Sì, Amen! …Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!”. L’inizio e il fondamento della nostra vita e della nostra missione, la loro origine e il loro termine non sono in noi stessi, ma in Dio: è la Sua gloria che conta, non la nostra, effimera e mortale! A che serve salvare la propria vita per poi perderla? Chi vive l’obbedienza che il Signore gli chiede attraverso i Suoi inviati, i pastori del Suo popolo santo, potrà avere anche l’impressione di perdere la propria vita: ma è così che la salverà e la renderà feconda, con l’esempio e la forza di Gesù. “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?” (Mc 8,35-36).
Il brano del Vangelo secondo Luca (4,16-21) ci conferma che questa è stata la scelta di Gesù stesso davanti alla Sua vita e alla Sua missione: Egli ha voluto essere totalmente docile allo Spirito mandato su di Lui dal Padre, e nel soffio dello Spirito - cioè nella docile obbedienza a Dio - ha vissuto i giorni della Sua carne e la Sua morte in Croce. Proprio così, però, la Sua vita è stata feconda per la salvezza di tutti: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. Così, il Figlio eterno fatto uomo imparò l’obbedienza, come ci dice l’Autore della Lettera agli Ebrei: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,7-10). Se Gesù ha imparato l’obbedienza per viverla fino in fondo sino all’abbandono supremo sulla Croce, potremo noi seguire altra via di salvezza per noi e chi ci è affidato e di fecondità per il nostro ministero al di fuori dell’obbedienza? Nell’obbedienza sarà la nostra pace!
Se, dunque, Dio Ti chiama attraverso il Vescovo a dare la Tua disponibilità, a vivere un servizio diverso da quello che fai o a viverlo in un luogo diverso, secondo le necessità dell’insieme, fidati! Non attaccarTi alla logica delle sicurezze umane o peggio delle valutazioni umane di potere, non invocare l’età o i legami che hai creato per restare nell’immobilismo, non resistere a lasciare ciò che Ti viene chiesto di lasciare. Fidati. Allora, nell’obbedienza della fede il Tuo oggi diventerà l’oggi di Dio, come ci assicura Gesù nella Sinagoga di Cafarnao: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). Chiedo per me e per Voi il dono grande dell’obbedienza, la grazia di una prontezza umile, docile e fedele nell’obbedire, che sia vissuta per amore di Dio e della Chiesa, in una consegna senza condizioni all’Amato, che chiama attraverso chi Lui stesso ha scelto come voce del Suo cuore. Nell’obbedienza salveremo le nostre anime e quelle degli altri! Maria, Vergine dell’ascolto e dell’obbedienza fedele, interceda per noi e ci ottenga il dono dell’obbedienza della fede. Lo chiediamo al Figlio Suo e Salvatore nostro, il Signore Gesù, modello meraviglioso e irradiante d’obbedienza:
Signore Gesù, con l’esempio della Tua obbedienza Tu ci guidi alle sorgenti delle acque della vita: donaci, Ti preghiamo, la libertà del cuore, non l’apparente libertà dello scegliere l’una o l’altra cosa, ma la libertà più profonda, quella fatta di sacrifici e di offerte nascoste, quella che nasce dal dono incondizionato di sé, vissuto nell’obbedienza della fede e dell’amore a Te. Fa’ che, liberi nella libertà dell’amore,
possiamo essere, in questo tempo nella nostra vita mortale, testimoni della libertà che viene dall’obbedienza della fede. Rendici, Ti preghiamo, servi obbedienti chiamati a lavorare nella Tua vigna quale umile anticipo e caparra del Regno che verrà. Tu, l’Alleanza in persona, donaci di vivere al servizio della Tua Chiesa nell’ascolto e nell’obbedienza d’amore di tutta la vita. Amen.
Alleluia!

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4. BIANCHI


Bose, 5 aprile 2012
Omelia di ENZO BIANCHI
 Gv 13, 1-15
Cari fratelli e sorelle, amici e ospiti,
siamo all’inizio del triduo, dei tre giorni pasquali, giorni in cui celebreremo tanti misteri: i misteri della vita di Gesù Cristo, la sua passione, morte e resurrezione. Ricordiamo degli eventi, delle azioni vissute da Gesù, e nel ricordarle le celebriamo e le «presentifichiamo» in modo da essere coinvolti in esse, in modo da essere resi partecipi del mistero. Questa è la dinamica liturgica, sacramentale che fonda le nostre liturgie pasquali.
Eccoci allora, in questa sera, tutti insieme, perché sta scritto:
Tutta la comunità d’Israele celebrerà la Pasqua (Es 12,47).
Tutta l’assemblea della comunità d’Israele immolerà l’agnello al tramonto (Es 12,6).
Celebriamo il mistero che ci costituisce comunità del Signore, appartenente a lui, il mistero che origina la nostra comunione: per questo siamo tutti insieme, radunati nello stesso luogo, «convenientes in unum» (cf. 1Cor 11,20).
In obbedienza al ritmo che nel giovedì santo mi porta a commentare alternativamente l’epistola (1Cor 11,23-32) e il vangelo (Gv 13,1-15), quest’anno sosterò soprattutto sul racconto della lavanda dei piedi, l’altro mistero di Cristo che celebriamo oltre a quello eucaristico. Questo però nella consapevolezza che i due segni, le due azioni di Gesù sono state anticipazione di un solo evento: il dono della sua vita al Padre e a noi uomini, la sua morte. Questa volta vorrei compiere la lettura del vangelo cercando il vero protagonista della lavanda dei piedi, azione che ci scandalizza e, nello stesso tempo, dovrebbe consolarci. 
Per Gesù «Ã¨ venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre» (Gv 13,1), e Gesù «sa che il Padre gli ha dato tutto nelle mani, che egli è venuto da Dio e a Dio ritorna» (Gv 13,3). Il quarto vangelo inizia il racconto della passione di Gesù ponendo il Padre come il termine senza il quale tutto ciò che Gesù e, fa e dice non ha consistenza: il Padre, questo termine che siamo costretti a usare perché non abbiamo un’altra parola che, per analogia, sia capace di esprimere l’origine, colui che origina e genera… Ma questa sera vorrei chiamare il Padre con un altro termine analogico:l’Amante, colui che ama, colui dal quale scaturisce l’Amore. Non lo invento, ma lo deduco dalle parole di Gesù: «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35).

Ecco chi è il Padre: innanzitutto lo scaturire dell’Amore, colui che nel suo Amore ha generato il Figlio, colui che ama Gesù uomo, quell’uomo che solo lui poteva darci, quell’uomo che l’umanità non avrebbe mai potuto generare, produrre. È questo Amore che sta dietro a Gesù e di cui Gesù si fa esegeta tra gli uomini (exeghésato: Gv 1,18), perché l’incarnazione, il farsi carne, sárx, della Parola di Dio, del lógos toû theoû (cf. Gv 1,14), è in vista della conoscenza, della narrazione dell’Amore. L’Amore generante ha inviato il Figlio nel mondo (cf. Gv 3,17.34; 4,34; 5,23.24.30.36.37.38; 6,29.38.39.44.57; 7,16.18.28.29.33; 8,16.18.26.29.42; 9,4; 10,36; 11,42; 12,44.45.49; 13,20; 14,24; 15,21; 16,5; 17,3.8.18.21.23.25; 20,21), e Gesù è consapevole di questo Amore che egli deve raccontare, testimoniare fino alla fine, per poi, attraverso il grido: «Ãˆ compiuto (Gv 19,30), tutto ho realizzato!», fare ritorno all’Amore. Ecco perché, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino all’estremo (eis télos)» (Gv 13,1), fino alla fine dei suoi giorni nel mondo, fino alla morte.
Sì, «Dio è Amore» (1Gv 4,8.16) e «nessuno l’ha mai visto» (Gv 1,18; cf. 1Gv 4,12) nella sua autenticità, nella sua pienezza, ma il Figlio ci ha raccontato, exeghésato, il Dio Amore. Questa è la nostra fede, la particolarità che rende il cristianesimo «altro», altro dallo stesso ebraismo veterotestamentario che ne è la radice. In quest’ottica noi possiamo leggere questa sera, dietro il racconto fornitoci da Gesù, chi è il nostro Dio, come agisce in noi il nostro Dio. Questa, del resto, è l’intenzione di tutto il quarto vangelo: leggere la vita e le azioni di Gesù, ascoltare le sue parole come eco del Padre, come racconto di Dio.
Questa dunque è l’epifania di Dio, dopo la quale i discepoli, se avessero fede, potrebbero dire: «Abbiamo visto il Padre» (cf. Gv 14,9). Ma i discepoli, come ancora noi oggi, fanno difficoltà ad assumere questa visione, restano dei giudei seguaci di Gesù, dei giudei cristianizzati, incapaci di dire a Gesù: «In te vediamo Dio!». Gesù allora fa un’azione precisa, anzi diverse azioni, espresse non a caso da sette verbi: si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugamano, se lo cinge attorno alla vita, versa dell’acqua nel catino, lava i piedi dei discepoli e li asciuga (cf. Gv 13,4-5). Ecco cosa fa l’Amore, cosa fa Dio verso di noi: un Dio inginocchiato ai nostri piedi che lava i nostri piedi sporchi. È una liturgia della quale noi possiamo fare profezia, ma che avverrà realmente quando nella nostra morte staremo davanti a Dio: Dio, l’Amore che abbiamo tanto cercato e che abbiamo tentato di vivere, ci laverà i piedi…

Per questo Gesù afferma subito dopo: «Avete capito questa azione? È l’azione del Kýrios, del Signore, è l’azione di Dio che io, quale didáskalos che insegna, che fa segno a Dio, vi ho mostrato» (cf. Gv 13,12-13). Sì, Dio è talmente diversi dai nostri padri terreni, che questa parola non è adeguata a definirlo neppure per analogia. Per tale ragione preferisco parlare di Dio come dell’Amante, dell’Amore infinito e radicalmente gratuito che non si deve mai meritare. «Io, il Kýriosinnanzitutto, poi anche il didáskalos, vi ho lavato i piedi» (cf. Gv 13,14), dice Gesù. Ecco la grande rivelazione di Gesù: Dio è colui che ci ama fino a lavarci i piedi!
Per questo noi dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14). Dall’Amore di Dio, dall’Amore che è Dio scaturisce, dovrebbe scaturire, l’amore tra di noi che confessiamo, aderiamo, crediamo al Dio di Gesù Cristo. E qui, fratelli e sorelle, noi scopriamo la nostra miseria: non ci pieghiamo gli uni di fronte agli altri neanche con un inchino, tanto meno ci inginocchiamo di fronte all’altro, al fratello o alla sorella. Di conseguenza non laviamo i piedi dell’altro, ma guardiamo i suoi piedi per vederne la sporcizia, per giudicarlo. Non siamo nemmeno capaci di misericordia gli uni verso gli altri; anzi, se vediamo i piedi sporchi degli altri crediamo di avere noi i piedi puliti! E noi saremmo discepoli di Gesù, del Gesù che è Vangelo e del Vangelo che è Gesù? Dio è un termine troppo equivoco per gloriarcene, Gesù può essere molto amato da noi come «maestro ideale», come il Santo di cui ci siamo fatti il modello: ma il Dio di Gesù e Gesù stesso sono solo e soltanto ciò che c’è nel Vangelo, sono il Vangelo. I nostri piedi sono sporchi, e quanto più si è vissuto e camminato, tanto più sono sporchi. Forse gli altri non ce li lavano e noi non li laviamo loro, ma Gesù il Signore ci attende, nel nostro esodo da questo mondo all’Amore, per lavarceli.
Ecco ciò che questa sera viviamo come mistero di Cristo, nel segno della lavanda che chi presiede fa ai fratelli e alle sorelle. È solo un segno che dovrebbe essere memoria per il nostro vivere quotidiano. Vi confesso che l’unica domanda che mi faccio alla sera è: «Oggi ho lavato i piedi a chi ho incontrato?», e non sempre posso rispondere affermativamente. Guardiamo insieme a questo segno, nella fede e nella speranza che il Signore, quando saremo davanti a lui, ci laverà i piedi e ci introdurrà con lui nell’Amore senza fine.