sabato 16 marzo 2013

Papa Francesco: dal pranzo della concordia alla cena dell'Agnello




E’ oramai noto a tutti che il film preferito di Papa Francesco è Il Pranzo di Babette.



Non tutti sanno, invece, che nel conclave del 2005 il card. Bergoglio, nel corso di un pranzo che di certo non si sarà dimenticato, chiese ai confratelli porporati di votare per colui che sarebbe diventato nel giro di poche ore Benedetto XVI. Bergoglio avrebbe potuto diventare Papa già allora. Un lungo testa a testa tra il card. Ratzinger ed il cardinale argentino, sul quale convergevano i voti di coloro che non avrebbero voluto un “curiale”, rischiava di generare un’impasse. Forse il card. Bergoglio si sarà ricordato a quel punto del buon cuore della protagonista “Babette” che grazie a un pranzo fa superare le discordie che dividevano gli invitati.
Dopo otto anni da allora, nessuno poteva lontanamente immaginare che proprio Benedetto XVI avrebbe “ricambiato il favore” col suo atto di rinuncia.
La magnanimità, la generosità di cuore, paga sempre. E’ questa un’ulteriore lezione offertaci da un conclave dal quale tutta le chiesa ne esce arricchita.
«Un artista non è mai povero» è una delle ultime battute di Babette nella trama del film.
Se artista è sinonimo di creativo in un’arte figurativa e performativa, la carrellata di segni che accompagnano i primi passi del pontificato di Francesco sono eloquenti tessere di un mosaico che progressivamente sveleranno l’opera d’arte che il nuovo pontefice vuole realizzare nella Chiesa con l’aiuto dello Spirito Santo che ha insistentemente invocato ed evocato nel discorso di ringraziamento e di congedo con tutti i cardinali il 15 marzo scorso.
Chissà quante volte Jorge Mario Bergoglio avrà pensato al suo nome che veniva pronunciato più volte, a voce alta, per un secondo Conclave, nella Cappella Sistina. 
Quello spazio sacro è diventato più volte come il “Cenacolo di Gerusalemme”, dove lo Spirito Santo discese sulla Vergine Maria e gli apostoli riuniti in preghiera il giorno della Pentecoste.
Gli incontri dei cardinali per l’elezione del successore di S. Pietro ricordano il famoso pranzo dell’incontro, quello delle nozze di Cana che sancì nella vita pubblica di Gesù il suo primo miracolo.
“Come il buon vino, che con gli anni diventa più buono, doniamo ai giovani la sapienza della vita” ha detto Francesco nel suo discorso ai cardinali.
Dal pranzo alla cena la Bibbia ci ricorda attraverso Giovanni e Luca la “Lavanda dei piedi” e “L’Istituzione dell’Eucarestia”.
Forse la cena di sera, nel preludio della Passione, si può considerare il momento buio del pessimismo e dello scoraggiamento che il Papa ha invitato a mettere al bando -  sempre in questo discorso ai cardinali - “con la ferma certezza che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione - cioè di Buona Novella, di ottimismo -  per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr At 1,8)”.
Se Feuerbach proclamava che l’uomo è ciò che mangia per sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, noi cristiani, per la sua buona pace, sosteniamo che il cibarsi di Eucarestia ci fa essere come Cristo.
L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, ci parla di un banchetto escatologico.
“Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell' Agnello!” (Ap 19,9)
E’ sicuramente a questo convivio finale che, tra pranzi e cene che decidono o festeggiano un papa, avrà pensato Francesco quando ha detto ai signori cardinali arricchiti dall’esperienza di questi giorni, così carichi di fede e di comunione ecclesiale, che tutto questo “è un riverbero del fulgore di Cristo Risorto: un giorno guarderemo quel volto bellissimo del Cristo Risorto!” (A. M. Bruno)


* * *

Di Joaquin Navarro-Valls
in “la Repubblica” di oggi,  16 marzo 2013
* * *
Ci ricorderemo
per molto tempo della piovosa giornata romana in cui al Soglio di Pietro è salito
Jorge Mario Bergoglio. Mercoledì, infatti, mentre affluivano da ogni parte le persone lungo via
della Conciliazione, si aveva l’impressione che il breve Conclave stesse avvicinandosi ormai alla
fatidica fumata bianca.
Il momento, però, in cui la novità si è percepita concretamente, è stato l’apparire sul balcone del
protodiacono che ha pronunciato la formula di rito con l’indicazione del nome prescelto: Francesco.
Una mirabile novità in un periodo già pieno di eccezionali eventi storici.
Di qui deve partire la prima riflessione rilevante. Il Cristianesimo ha ereditato dalla tradizione
semitica la consapevolezza che il nome deve indicare, direttamente, le caratteristiche fondamentali
di una persona. E non si tratta di una mera convenzione, simile a quando si mette un’insignificante
etichetta sopra un oggetto. Il nome è l’essenzialità di una biografia, la sua idea, il suo progetto
esistenziale. Il nome che i genitori danno ai figli vorrebbe riassumere, in realtà, la precisa volontà di
rappresentare ed evocare qualcosa di preciso per loro, una specie di sconfessata missione che è
attribuita in anticipo. Ovviamente, nessuno di noi ha la possibilità di imporre a se stesso il proprio
sostantivo. Noi ci troviamo già chiamati dai genitori prima di poter decidere consapevolmente chi
vorremmo essere. Per un Papa non è così. Anzi, è l’unica eccezione a noi famigliare. Da lungo
tempo, ormai, il Pontefice si dà il nome che vuole. E con tale atto egli decreta chi sia, confessando
pubblicamente il modo in cui vuole essere visto e come vede anche, realmente, la prospettiva della
Chiesa e il suo avvenire.
Certo, concepire il significato raccolto nel nome Francesco è pensare a un segno del destino, una
finalità che oltrepassa il tempo presente spalancando le porte del domani. Bergoglio non era
considerato dai media una figura di primo piano. Anche se, tuttavia, il suo profilo non si è imposto
nell’intervallo che ha separato le due assise, ma nella logica calma dei tempi e delle successioni,
così com’era avvenuto molti secoli prima per Benedetto e Francesco, veri padri dell’Europa
moderna.
Nel modo in cui Francesco di Assisi ruppe il manierismo della sua epoca, rispolverando l’autenticità
di una santità vissuta radicalmente e originariamente, così Papa Bergoglio ha cancellato in un solo
attimo la distanza creatasi surrettiziamente tra l’istituzione e la gente. Quel chinarsi a ricevere dal
populus romanus
una benedizione è stato l’indicatore non solo del legame che rimarrà costante con
la sua diocesi ma del valore di un’ispirazione universale presente nella sua anima.
Il senso di sorpresa che ha generato in tutti, ben sopra le suggestioni che tante volte giungono a
distoglierci dal quotidiano, si spiega così. Lo shock è qui, nel modo delicato ma fermo con cui Papa
Francesco ha unito il vertice e la base della Chiesa in un fulmineo abbraccio vitale che è
comunicazione, sintonia, attenzione, complicità.
D’altronde, il riferimento a San Francesco non costituisce in sé un elemento solo di rottura o,
peggio ancora, una promessa d’irriverenza verso il passato. Anzi, il poverello di Dio, nel Medioevo,
aveva fondato contro tutto e tutti una spiritualità divenuta tra gli ordini mendicanti quella che
maggiormente materializzava la santità della Chiesa antica, essendone, in un certo modo, punto di
arrivo e vertice. In questo senso il miglior parallelismo è quello con san Benedetto. Il santo di
Norcia ha gettato le basi della religiosità e della spiritualità cattolica nel VII secolo che il poverello
di Assisi nel XIII ha portato a termine, in quell’ispirazione primitiva, con l’affermazione pratica ed
effettiva del distacco, della religiosità semplice e naturale.
In queste cose è molto importante non smarrirsi, non confondersi e non fermarsi alle suggestioni
dell’immaginazione. La povertà di san Francesco ha conseguito ciò che prima era stato elaborato da
san Benedetto, perché così procede l’ordine umano delle cose, dall’interno verso l’esterno e dal
prima verso il dopo. Per fare bene bisogna prima meditare correttamente, perché la povertà è,
innanzitutto, vita verso dentro e distacco dal culto idolatrico del potere, introducendo in se stessi un
principio di sana umiltà e “facendo traboccare l’intelligenza nella pratica”, come si usava dire tra gli
accademici del Trecento.
Come non riconoscere, d’altronde, la precisa analogia tra Benedetto e Francesco cioè tra Ratzinger
e Bergoglio? Una complementare simmetria che può ben illustrare l’evolversi nella continuità che
vedremo presto tra un predecessore emerito e un successore in carica che completerà la sua opera
riformatrice. In questo, Benedetto XVI è stato maestro e interprete geniale della fede, allo stesso
modo in cui Francesco sarà attuatore e realizzatore audace della missione evangelizzatrice. Per
questo non vi è stata nessuna concessione alla forma, nessuna incertezza da parte del nuovo Papa.
Idee grandiosamente elementari, atteggiamenti risoluti e, soprattutto, tanta gratitudine verso
l’antesignano. È affascinante pensare che oggi la Chiesa si rinnoverà con la pratica di un pastore
fuso con le domande della gente e motivato dalle attese degli ultimi, con in mano la dottrina di
Benedetto XVI. Capire tutto questo vuol dire cogliere subito la vera essenza di un pontificato che
innoverà guidando saldamente la Chiesa da Roma rivolta alla periferia del pianeta. Anzi, una
periferia che adesso non è più periferica.
Sì, perché nel presente la questione del rapporto tra l’Europa e “la fine del mondo” è al centro del
quadro geopolitico. E, sebbene la Chiesa nasca romana, non ha mai pensato a un suo destino
esclusivamente mediterraneo. Si deve dire piuttosto che la cristianità sia sbocciata nella nostra
civiltà unicamente perché da qualche parte doveva necessariamente iniziare, non certo perché vi sia
un privilegio esclusivo del Vecchio Continente alle richieste del Vangelo.
Bergoglio, per l’appunto, è il primo Papa non europeo della storia. E questo fatto costituisce ora uno
sviluppo plausibile. Egli, inoltre, è il primo Pontefice moderno di lingua spagnola. Il predecessore è
stato Benedetto XIII, Pedro Martinez de Luna y Pérez, un avignonese deposto al Concilio di
Costanza e morto antipapa nel 1423.
Quello che conta, insomma, è che adesso c’è un legittimo Capo della Chiesa argentino che mostra
da subito nella semplicità di un gesto sobrio la quintessenza della giovinezza della fede. E
nell’affabilità di un “buonasera”, la normalità della vita. E nella cordialità di un “ci vediamo
presto”, la garanzia di una linearità di comportamento, la quale è rivelazione autenticatrice per un
mondo sempre più distante dalla genuinità e dalla veracità.
È bello vedere, infine, che la Chiesa non ha accettato di restare vecchia nella sua espressività
comunicativa; di arrugginirsi nell’antico culto autoreferenziale nel suo modo di presentare se stessa.
Certo l’espressività barocca della curia romana è data per morta. Bisognava far nascere adesso una
nuova espressività. E questa è già nata con Francesco. Adesso manca soltanto farla accettare da
tutti