martedì 11 giugno 2013

Riflessioni sulla stoltezza




Non è frequente nella predicazione corrente e nel nostro comune conversare, parlare del vizio della stoltezza e quindi chiarire in che cosa esattamente essa consista, onde poi disporre di un criterio per discernere chi è stolto e chi non lo è. E per conseguenza come rimediare alla stoltezza o come evitarla.
Eppure nella storia della morale e della filosofia ed ancor più negli insegnamenti biblici e nella tradizione dei Padri, dei Dottori e del Magistero della Chiesa, in tutti  buoni moralisti e maestri di spiritualità il concetto di stoltezza ha una grande parte, viene distinto dalla virtù opposta della sapienza e si insegna come evitarla e come correggersi da questo vizio, che è molto grave, così come è importante la virtù opposta della sapienza ed anzi per il cristiano è ancora più importante la sapienza come dono dello Spirito Santo, tanto che S.Tommaso, nella parte morale della Somma Teologica, dove contrappone l’esposizione di vizi a quella delle virtù, pone la questione sulla stoltezza (II-II, q.46) immediatamente dopo a quella del dono della sapienza (q.45).
Nella Sacra Scrittura il vizio della stoltezza è molto evidenziato e ben descritto, soprattutto nei libri sapienziali, che, come dice la parola, trattano in modo speciale della sapienza (ebr. hockhmà) come virtù naturale e come dono di Dio, fino a parlare di una Sapienza divina, sussistente, eterna, increata, precedente ai secoli e al mondo, “generata” da Dio, e che sta presso Dio, Sapienza come Idea, Spirito, Progetto e Pensiero della Mente divina per mezzo del quale e in base al quale Dio pensa e crea il mondo.
Non è difficile vedere in questa “Sapienza” divina ed assoluta una prefigurazione di ciò che poi, soprattutto nel Vangelo di S.Giovanni, si manifesterà come Logos divino, il Verbo divino, Verità sussistente, la seconda Persona della SS.Trinità, il Figlio del Padre, incarnatosi in Gesù Cristo Nostro Signore.
Non è neppur difficile collegare questa “Sapienza”, per la quale esiste uno “spirito di sapienza”(Is 11,2), allo Spirito Santo, che è Spirito di verità, come lo chiama Cristo e “Spirito d’amore” secondo la dottrina di S.Paolo. Ora la sapienza biblica è appunto spirito amante o amore veggente. Per converso, la stoltezza sarà ignoranza colpevole congiunta ad odio o, come si esprime anche la Bibbia, “durezza di cuore”.
Essa è una forma di cecità o di ignoranza. “Lo stolto non capisce”, dice la Scrittura.  Comporta quella che S.Tommaso chiama caecitas mentis; si tratta di coloro che Gesù chiama semplicemente “ciechi”, che tuttavia pretendono di vedere. Sono coloro che chiudono volontariamente ed ostinatamente gli occhi alla verità salvifica, coloro che non vogliono credere a Cristo, ingannati dal mondo o da Satana.
Non capiscono non perché non ce la fanno, ma perché per odio, presunzione, invidia o superbia, non vogliono capire. Gesù elogia quei ciechi che sono coscienti di esser tali e che desiderano vedere: costoro acquistano la vista, mentre i primi restano ciechi e poiché la salvezza dipende dal  vedere la strada, camminano verso la perdizione, ossia per un sentiero sbagliato.
Quanto alla Sapienza divina, certamente ad Essa non si oppone una stoltezza, perché la sapienza non può essere difettosa né può essere assente in un Soggetto quale quello divino, che coincide con la stessa Sapienza, dato che Ella stessa qui è Soggetto, Sostanza e sussistente come Persona divina.
In Dio non si tratta quindi di una sapienza virtù, quasi fosse un abito o una qualità in una persona finita, come avviene per noi, i quali, bene che vada, non possiamo essere sapienza, come Dio è Sapienza per essenza, ma al massimo possiamo avere la sapienza o partecipare della Sapienza, per cui essa è un accidente o una qualità o un abito che si aggiunge al nostro io o al nostro essere sostanziale, si  acquista, può mancare – ecco la stoltezza -  e si può anche perdere. Noi possiamo conoscere la Sapienza sussistente, ma non essere la Sapienza[1].
Per questo, noi possiamo essere stolti, ma Dio non può essere stolto, perché l’esser sapiente in Dio è la sua stessa essenza e una cosa non può perdere la propria essenza senza cessare di essere quello che è. Ora Dio è immortale, eterno e immutabile e quindi non può cessare di essere. Dio quindi è la Sorgente assoluta di ogni sapienza e la nostra sapienza vale in quanto è regolata dalla divina sapienza o è ricevuta da Dio stesso. La stoltezza invece viene solo dal nostro peccato.
Quanto a S.Paolo, egli, rifacendosi a questa sapienza veterotestamentaria con riferimento a Cristo Sapienza del Padre e allo Spirito Santo, che è lo Spirito di Cristo, parlerà, come è noto, di una “sapienza divina, misteriosa, nascosta, preordinata da Dio prima di tutti i secoli per la nostra gloria”(I Cor 2,7). Questa sapienza, dono dello Spirito Santo, che ci è concessa, è il “pensiero di Cristo”(v.16). E’ Cristo stesso, che ci viene donato e del Cui pensiero noi partecipiamo..
Se la sapienza è una virtù, come già avevano scoperto Platone ed Aristotele – la sofìa o frònesis –, essa dipende dalla volontà, ed ugualmente la stoltezza dipenderà dalla volontà. Per questo la stoltezza è un peccato, perché il peccato è un atto volontario. E per questo è un vizio, perché il vizio è una tendenza a peccare.
Allora bisogna distinguere accuratamente la stoltezza dalla demenza o malattia mentale o psicopatia. Innanzitutto, le due anormalità si pongono su due livelli differenti della persona: la stoltezza si pone sul livello spirituale  dell’intelletto e della volontà; invece la demenza si pone sul livello psicoemotivo della persona.
Quanto alla demenza, con tutte le sue molteplici forme note alla psichiatria, la si potrebbe chiamare anche con termini volgari imbecillità, deficienza mentale, idiozia, stupidità, cretinismo, che però sfiorano l’insulto, soprattutto se non corrispondono a verità.
Occorre pertanto parlare con molto rispetto del demente o dello psicopatico, come si parla con pietà e comprensione di un malato, evitando tutti quei termini sbrigativi o spregiativi che possono sapere di insulto.
La demenza, come abbiamo detto, si pone a livello psicoemotivo della persona, quel piano di esistenza che abbiamo in comune con gli animali, mentre il livello spirituale ci caratterizza come persone, e lo abbiamo in comune, salve le proporzioni, con gli angeli e con Dio. E’ solo al livello della persona, cioè al livello morale e spirituale, che si può far questione di stoltezza.
Mentre pertanto la questione della demenza è di competenza del medico, ossia dello psicologo o dello psichiatra o dello psicanalista, il problema della stoltezza è di competenza dell’educatore, della guida spirituale, del filosofo, del moralista e del sacerdote. Quanto alla legge civile ed ecclesiastica, può interessarsi della questione delle demenze gravi e violente e in modo limitato della stoltezza, sopratutto se reca danno al bene comune.
Di conseguenza, mentre la stoltezza è un’ignoranza colpevole, è propria di chi non capisce perché non vuol capire, la demenza o insufficienza o deficienza mentale è involontaria: il minorato mentale o subnormale psichico o l’incapace o, come si dice, il minus habens, per quanti sforzi faccia per capire una cosa che tutti capiscono, non la capisce e perciò non ha colpa. Il demente è un malato; lo stolto è un colpevole.
La mancanza del normale esercizio dell’intelletto e delle energie psichiche non dipende dalla volontà del demente, ma da un suo limite oggettivo ed insuperabile, forse curabile, della sua psiche o del suo cervello, per motivi diversi o di origine naturale o per mancanza di educazione o per cause traumatiche o per l’uso di stupefacenti.
Per questo, se lo stolto può esser rimproverato e richiamato alle sue responsabilità, non si deve rimproverare il demente – pensiamo anche alla demenza senile – ma lo si deve curare, tollerare ed accettare così com’è con competenza[2], serenità, pazienza e carità, perché non ha nessuna colpa.
Da notare inoltre che l’insufficienza mentale psichica non caratterizza solo i dementi, ma anche i minori, nei quali essa è del tutto normale, perché il loro apparato psicoemotivo cerebrale non è ancora giunto allo stadio di quella maturità che consente il normale e pieno esercizio e controllo dei sensi interni, nonché ancor più dell’intendere e del volere e quindi la possibilità di acquisire una cultura intellettuale e morale.
La stoltezza, quando è grave, può condurre alla demenza. Famoso è il caso di Federico Nietzsche. Questo capita quando la stoltezza oltrepassa certi limiti in contrasto col buon senso comune e con i princìpi fondamentali della ragione e della morale. Si ha allora la vera e propria pazzia o follia. Tuttavia il caso Nietzsche, caso peraltro eccezionale, testimonia che la stoltezza per certi lati non esclude una certa ed anche elevata intelligenza e genialità per altri lati, che spiega il successo del filosofo tedesco.
Nel caso della demenza psichica abbiamo quello che il linguaggio comune si chiama “matto”. In questi casi si ha la perdita più o meno accentuata dell’esercizio normale delle facoltà mentali. Il soggetto, perdendo i contatti con la realtà, compie gesti incongrui o assurdi, non necessariamente dannosi, ma comunque totalmente estranei al contesto ambientale, nel quale si trova, come se vivesse in un’altra realtà creandosi una realtà fittizia; non ragiona o, come si dice volgarmente, “sbacchetta” o “dà i numeri”, pronuncia malamente parole e frasi sconnesse e senza senso, non risponde a tono, parla a sproposito, vaneggia e delira, sotto la pressione di un’immaginazione mostruosa, turbinosa, ribelle e disordinata e illuso da allucinazioni che riguardano tutti i cinque i sensi, passando tra gli alti e i bassi di un’eccesiva esaltazione e di un eccessivo abbattimento. Forme di delirio si trovano abitualmente anche in gravi stati febbrili o stadi finali di certe malattie mortali.
L’insufficienza mentale o psichica non è necessariamente congiunta alla stoltezza, anzi, siccome è uno stato mentale involontario, nella misura in cui il soggetto conserva la sua lucidità, il medesimo soggetto può esercitare la virtù e la sapienza, può essere addirittura favorito da Dio di doni spirituali e mistici.
Le iniziative di certi santi possono apparire almeno all’inizio follìa e grave imprudenza, certi loro comportamenti possono apparire scandalosi e demenziali, invece si tratta semplicemente dello “scandalo” del Vangelo, di quella sapienza che, come dice Paolo, agli occhi del mondo sembra follìa. Possono sembrare dei ribelli e degli esaltati e facilmente dagli stolti sono giudicati matti.
A volte inoltre gli stolti tengono in considerazione più il giudizio di un demente o di uno squilibrato, ma che ragiona come loro, piuttosto che quello di un sano di mente ma contrario ai loro princìpi. Il contatto dei santi con una realtà superiore, metafisica o soprannaturale, può separarli dal contatto con la realtà immediata ed empirica e anche da un certo contesto sociale, per cui una mentalità puramente pragmatica o terrena li giudica sic et simpliciter fuori della realtà oppure individui asociali.
Inoltre, è frequente negli stolti il giudicare demente il sapiente che rileva la loro stoltezza o semplicemente il saggio, i cui pensieri appaiono incomprensibili alla mente dello stolto. Non avendo essi argomenti validi per difendersi o sostenere la loro posizione indifendibile, ricorrono a quell’epiteto e ad altri simili, che però in questo caso, non avendo nulla a che vedere con una valida diagnosi psichiatrica, si configurano semplicemente come insulti. Sono rimasti famosi i metodi del passato regime sovietico, che metteva in istituti psichiatrici gli oppositori politici.
Un atteggiamento stolto di questo genere può anche ammantarsi delle vesti di una falsa scienza, come avviene nella psicanalisi freudiana, la quale, come è noto, giudica la religiosità come “malattia mentale”, dimostrando chiaramente, per usare il linguaggio paolino, come l’uomo “carnale” è incapace di giudicare l’“uomo spirituale”.
Se poi un uomo spirituale è afflitto da qualche disturbo mentale o qualche stato depressivo, non vi dico con quale spirito satanico psichiatri non credenti provino gusto a tormentarlo. Penso ad un mio confratello, un sant’uomo, che ha subìto eroicamente nella pace per moti anni queste prove terribili.
Lo psichiatra non ha il metodo sufficiente per giudicare dei fenomeni dello spirito: come non può valutare la realtà della sapienza e della stoltezza, così non è neppure in grado di discernere le demonopatie e possessioni diaboliche, le quali pure mettono in gioco l’azione dello spirito, benchè si tratti di spirito malvagio e capita che le scambino per psicopatie.
Qui appare il grave problema del discernimento fra stati psichici alterati e certi alti livelli della vita spirituale. Il comportamento del santo o del mistico a volte può assomigliare a quello di un matto. E’, questo, un luogo comune sia della storia della psichiatria che di quella della spiritualità e della santità. Gli esempi qui si potrebbero moltiplicare. Gesù stesso a un certo punto, come narra il Vangelo, fu giudicato dai suoi un demente (“fuori di sé”), da ricoverare (“vennero a prenderlo”).
Occorre molta sapienza e competenza per saper distinguere in certi casi il matto dal santo, il vero dal falso mistico. Bisogna disporre di buoni criteri di giudizio, essere molto prudenti e disinteressati, possibilmente avere una preparazione specialistica, esaminare tutte le circostanze e il passato del soggetto, raccogliere molte informazioni, consultarsi con altri esperti e ricordare che la santità può essere compatibile con una certa infermità mentale.
E comunque anche gli esperti possono sbagliare. Non basta sempre il puro e semplice carisma dell’autorità. Così vediamo quanto spesso i santi e mistici vengono tartassati ed umiliati ed hanno da soffrire perchè la loro condotta è riprovata quasi fosse demenziale. Gesù stesso ha dovuto patire in questo senso.
Ci sarà semmai il problema di considerare queste forme di santità come esemplari e canonizzabili. Capita poi che certi santi e anche grandi santi, per esempio un S.Alberto Magno, in età avanzata siano colpiti da demenza senile, il che ovviamente non deve scandalizzare né creare problemi.
In realtà – questo è importantissimo – la stoltezza è cosa ben diversa dalla demenza o dal disturbo mentale. Lo stolto può essere un soggetto perfettamente sano di mente, colto, con notevoli qualità umane, titoli accademici e cariche ecclesiastiche, famoso, stimato ed apprezzato, con in mano responsabilità direttive ed organizzative, facilità di parola, arguto, brillante e grande capacità di comunicazione e persuasione, affascinatore delle folle.
Purtroppo esiste un criterio volgare di giudizio, di tendenza materialista o positivista, che tende a considerare stolti sic et simpliciter i tardi di mente e a considerare sapienti i furbi, gli arrivisti e coloro che, come dice S.Paolo, sono sapienti “secondo la carne”. Da una certa mentalità ristretta  e conformista viene facilmente considerato matto chi semplicemente rifiuta i pregiudizi correnti e non si comporta secondo il modello stereotipato di un ambiente meschino e secolarizzato, chi non entra nella categoria di una condotta pedestre e mondana.
La stoltezza inoltre può esser anche collettiva e persistente. Sorprende per esempio come un popolo così ricco di qualità, di civiltà e di storia cristiana come il popolo tedesco, abbia potuto essere suggestionato dal nazismo, e sia tuttora in parte irretito dall’eresia luterana, mille volte confutata e che al lato pratico ha prodotto danni immensi ed anzi tale eresia tenda oggi a diffondersi anche negli ambienti cattolici.
Accanto a questi fenomeni impressionanti che toccano la condotta morale e quindi la questione  della stoltezza, abbiamo poi, come, è noto, i fenomeni delle psicosi collettive, che toccano la vita psicoemotiva, come per esempio il panico collettivo e la rabbia collettiva contro un delinquente.
Occorre in questi tali casi, peraltro eccezionali, ammettere la possibilità dell’azione persistente, seducente, subdola e nascosta di potenti invisibili forze maligne, che uniscono l’intelligenza e l’astuzia alla menzogna e alla malvagità, quegli “spiriti dell’aria” invisibili, contro i quali ci mette in guardia S.Paolo, i quali  traviano ed affascinano la classe intellettuale e le masse, le rendono ostinate, sorde e refrattarie a qualunque correzione ed anzi eventualmente convinte di essere la “riforma”, il faro e l’avanguardia (il “modernismo”) della civiltà, del cristianesimo e della Chiesa.
A tal riguardo, la Bibbia parla a volte di Israele come “popolo stolto”. Se può essere colpito da stoltezza un Popolo come il Popolo Eletto, figuriamoci cosa può capitare ad altri popoli. Pensiamo ai popoli barbari, agli imperi tirannici, ai fenomeni delle dittature o del diffondersi e persistere delle sètte, delle false filosofie e religioni, e delle eresie.
Come è possibile tanta cecità, tanta durezza di cuore, tanta ostinazione, tanta presunzione in nazioni intere? E quanto più sono cieche, tanto più credono di vederci – ricordiamo l’accusa fatta da Cristo ai farisei – accusando a loro volta di cecità coloro che ci vedono. Paolo direbbe: è il mysterium iniquitatis.
Colpisce soprattutto l’ostinazione, questa perseveranza alla rovescia. Mentre certi buoni non perseverano nel bene, quanti malvagi, pur davanti a tanti buoni esempi, fissi ed irremovibili nel male, quasi fossero la roccia del monte Bianco![3] Eppure la misericordia di Dio sta sempre in attesa. “Errare humanum est – diceva mia madre –; perseverare est diabolicum”. Certo non voglio dare delle colpe personali e collettive, ci mancherebbe altro, ma il fatto conturbante oggettivo rimane.
E non bisogna perdere la speranza della conversione di questi popoli, perché tutti siamo chiamati a salvarci. Questo ci dice un po’ che cosa ha prodotto il peccato originale in una creatura ragionevole fatta per godere di Dio.
Il guaio, e anche la discolpa, è che chi vive in un popolo o in ambiente di questo genere può avere l’impressione che si tratti di gente moralmente o intellettualmente sana e normale, giacchè noi spontaneamente siamo portati a giudicare giusto e normale ciò che fa o pensa la maggioranza, soprattutto i capi stimati e onorati.
Sono solo i più intelligenti, i saggi, i santi e i profeti, sempre in minoranza per non dire solitari ed emarginati,  che si accorgono di ciò che non va a livello di massa, di una corruzione dilagante, mentre la maggioranza se la spassa pensando che tutto vada bene o lamentandosi di cose futili o perché non hanno la possibilità di peccare di più. Indubbiamente il saggio non è un disfattista, perché ciò vorrebbe dire che manca di carità, di discernimento e di speranza.
Tuttavia il fatto resta. Pensiamo ad esempio alla dura opera dei missionari, in mezzo ad un ambiente ostile ed incredulo, che essi appunto devono evangelizzare, spesso considerati pazzi, personaggi sgraditi e pericolosi, stranieri mestatori che si intromettono negli affari della nazione, in un popolo pagano e contrario al cristianesimo, tanto che i più coraggiosi affrontano anche il martirio. Certo il missionario che si limita a fare opere sociali, fa del bene, è gradito alla popolazione. Ma se prova ad annunciare il Vangelo, le cose spesso cambiano.
Quanto alle cause della stoltezza, esse sono molteplici. S.Tommaso sembra trovarne la principale nella lussuria, seguendo in ciò l’opinione di alcuni Padri, secondo i quali il peccato originale sarebbe stato un peccato di lussuria. Tommaso respinge decisamente questa tesi che sa di dualismo gnostico-platonico e dice invece che si è trattato di superbia.
D’altra parte sappiamo come egli consideri più gravi i peccati spirituali rispetto a quelli carnali. I primi infatti contengono in se stessi la ragione di peccato, perché il peccato, per Tommaso, in linea con l’insegnamento di Cristo (“il male dell’uomo viene dal cuore”), vede il principio formale ed efficiente del peccato nella cattiveria o malizia dell’intenzione e della volontà, quindi in un atto dello spirito. L’origine del male e del peccato, per la Scrittura, sta nell’iniziativa di un puro spirito. La materia, il sesso e il corpo non c’entrano per nulla.
Certamente in noi, che siamo composti di spirito, corpo e sesso, i vizi passionali o carnali possono concorrere a causare la stoltezza, ma non sono determinanti; e ciò per la dignità stessa psicologica, se così possiamo esprimerci, del peccato di superbia, che attiene all’intelligenza, che è atto dello spirito e non dell’appetito sensitivo.
Quello che invece si può dire è che nell’uomo l’esistenza della stoltezza può causare i vizi carnali per il fatto che essa, in quanto ribellione a Dio, viene a concepire la condotta morale come regolata esclusivamente dall’arbitrio del soggetto. Da qui la possibilità, in linea di principio, che lo stolto si abbandoni a qualunque tipo di corruzione  o libertinaggio morale, come dice Dostojevsky: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”..
Avviene però solitamente che lo stolto, soprattutto se è intelligente e tiene al proprio prestigio, pratica una notevole moderazione delle passioni, ma non per fini di santità, bensì perché sa benissimo che le passioni incontrollate abbrutiscono e istupidiscono l’uomo.
Ma siccome egli ci tiene a brillare come un genio dell’intelligenza e della cultura, ecco allora la disciplina morale che egli si impone, lasciando però qualche valvola di sfogo nella convinzione che comunque in questo campo egli, essendo una manifestazione dello Spirito assoluto, può fare quello che vuole. In genere questi stolti intellettuali danno sfogo ad un’ira furiosa, con la quale attaccano ferocemente e diffamano gli avversari e fingono un falso senso di giustizia ed amore per la verità.
In base a queste considerazioni, possiamo tranquillamente dire che tutto il contesto della morale tomista concorre a stabilire invece che la stoltezza è causata alla superbia, dalla ribellione dell’intelletto e della volontà al vero bene. Dal che vediamo come nello stolto la superbia sia legata all’empietà, per cui il nome “Dio” sulle sue labbra si riduce da essere una parola che non riflette affatto il vero concetto di Dio, ma lo falsifica in varie forme di idolatria, gnosticismo, ateismo, panteismo e superstizione.
Possiamo dire in conclusione che lo stolto, preso da un’empia autostima che lo contrappone a Dio, chiude gli occhi alla verità oggettiva, si acceca rispetto al bene con diabolica perseveranza, dato che il perseverare è atto dello spirito, si fissa nel suo peccato accusando di peccato chi persevera nella verità e nel bene.
Egli è così un candidato alla dannazione, se non fosse che nel fondo della sua coscienza resta, seppur flebile e quasi soffocata, la voce di Dio e la sua offerta del perdono, che continuamente gli fa. Pertanto il peccato della stoltezza non esclude in fondo all’anima l’avvertenza o coscienza di essere nel peccato, altrimenti non sarebbe peccato, perché appunto il peccato comporta l’avvertenza o coscienza di compiere il male davanti a Dio.
Può esistere certo una stoltezza occasionale, non radicata, in buona fede, casuale, involontaria, per ingenuità o ignoranza incolpevole, come può esistere un’eresia senza sapere di esservi caduti; nel qual caso è chiaro che si resta innocenti davanti a Dio.
Ma qui parliamo del vero e proprio peccato di stoltezza, voluto e coltivato, vantato come saggezza, peccato assai grave e  dannoso agli altri, che si toglie solo umiliandosi davanti a Dio e al prossimo, aprendo gli occhi alla verità e il cuore al pentimento, detestando il male compiuto, che sempre Dio è pronto a perdonare per salvare anche il peggior peccatore.
P. Giovanni Cavalcoli

[1] Nelle Lezioni sulla storia della filosofia (Edizioni Nuova Italia, Firenze 1995, vol.I, p.34 e 38), Hegel scivola da una definizione della filosofia come conoscenza dell’Idea alla stessa Idea.
[2] Privatamente o appositi istituti psichiatrici.
[3] In certe comunità religiose capita che per decenni convivano assieme un confratello santo a fianco a fianco ad altri di facili costumi: ma non c’è verso che costoro, con incredibile perseveranza, si spostino di un millimetro dalla loro cattiva condotta. Anzi sono perseverantissimi nel deriderlo guardandosi bene dall’imparare da lui e dal seguire il suo esempio. Al massimo tirano fuori la scusa del “pluralismo”. Come mai?