lunedì 17 giugno 2013

Se anche l'Islam si secolarizza




di Angelo Scola
in “la Repubblica” del 17 giugno 2013
In un brano coranico il giovane Abramo, alla ricerca del dio, si volge nella notte ad adorare le stelle.
Ma quando esse scompaiono al far del giorno, esclama: «Non amo ciò che tramonta». E da questa
considerazione è condotto, attraverso la luna e il sole, al culto del Creatore unico. «Non amo ciò che
tramonta»: si può immaginare una provocazione più radicale per le nostra società nord-occidentali?
Indicendo l’Anno della Fede Benedetto XVI osservava come grandi settori della società fossero
toccati da «una profonda crisi di fede», che investirebbe anche gli stessi cristiani, più preoccupati
delle conseguenze della loro fede che della sua essenza. Per questo la presenza di musulmani che
sovente vivono una radicale dedizione all’Assoluto, rappresenta una provocazione da raccogliere.
Questa provocazione, che scaturisce dall’incontro tra religioni e culture, non deve peraltro portare a
un indistinto teismo, una improbabile “alleanza del trascendente”, ma a una più consapevole
coscienza della propria dinamica identità e della propria tradizione. È qui che si innesta la questione
decisiva della testimonianza e della libertà religiosa, necessarie per dare sostanza a questo incontro.
La posizione di chi auspica per i musulmani, in particolare per quelli che vivono in Europa, un
“bagno purificatore” nel secolarismo appare piuttosto ingenua ed oggettivamente sbagliata,
soprattutto nel momento in cui del secolarismo lamentiamo gli effetti sulla vita delle comunità
cristiane e della società tutta. A proposito dell’esperienza religiosa mal comune non è mezzo gaudio.
Quello di cui c’è bisogno invece è in tutti un più deciso approfondimento dell’esperienza religiosa e
delle sue autentiche esigenze, che Gesù Cristo ha annunciato di essere venuto a compiere in
pienezza. (...) E dunque sarebbe errato rappresentarsi il processo a senso unico, come se il tutto si
risolvesse nella necessità di un “recupero del trascendente” per un’Europa appiattita sull’orizzonte
dell’immediato. Urge anche il movimento opposto, nella forma di una decisa denuncia di una
teologia politica e di una religione ideologizzata che travaglia sempre più la vita in Medio Oriente,
prima di tutto delle comunità di minoranza oggi così duramente provate (pensiamo soltanto ai copti
in Egitto, alla chiesa nigeriana e pakistana e alla tragedia siriana). Liquidare la questione come un
utilizzo improprio della religione a fini politici rischia facilmente di diventare auto-assolutorio.
Occorre piuttosto parlare di una compromissione in cui gli uomini delle religioni assumono non di
rado un ruolo attivo, facendosi istigatori di atti di violenza. Si tratta di un fatto tanto più grave in
quanto una simile compromissione rappresenta un radicale tradimento dell’esperienza religiosa,
sconfinante nell’idolatria: gli uomini che prendono tali iniziative “per conto di Dio” finiscono infatti
spesso per agire “al posto di Dio”.
Anche in questo caso comunque, il tema della secolarizzazione prende forme e contenuti nuovi se lo
guardiamo alla luce della transizione araba, iniziata con le rivolte del 2011. Raffigurarsi il
cambiamento in atto nel mondo islamico come una lotta tra un “antico” religioso e un “nuovo”
secolare è semplicistico, sia che si pronostichi una vittoria del “nuovo”, magari dopo qualche
battuta d’arresto, sia che ci si attenda la prevalenza dell’antico, con minime concessioni formali alla
modernità. In realtà l’“antico” ha assunto, parodiandoli, molti tratti dal nuovo e il nuovo rimane
molto radicato nella tradizione. Vi sono poi altri temi che entrano in gioco (il caso turco è
emblematico in questo senso), come la legittimità del pluralismo all’interno dell’Islam, la lotta per
la democrazia, la libertà di espressione e la critica a una forma di religiosità che fa del successo
materiale ed economico l’unico metro di valore.
Da questo quadro così frammentato, credo si possa comunque ricavare un dato significativo. Il
processo di secolarizzazione è nato e finora si è svolto in ambito cristiano; non c’è perciò alcuna
garanzia che, investendo altre religioni, conduca agli stessi esiti. Occorre anzi affinare lo sguardo
per abituarsi a coglierlo all’opera in fogge inconsuete e al limite paradossali: la religione immanente
dell’Islam politico potrebbe esserne una.
Una cosa comunque è certa: non ha molto senso opporre l’Occidente ateo all’Oriente della spiritualità: il dato nuovo di quel processo che chiamiamo meticciato è che i due poli, se mai sono
esistiti, si sono ormai reciprocamente intrecciati anche fisicamente. Se i confini vanno
riconfigurandosi, la nostra ipotesi di lavoro, come Fondazione Oasis, dev’essere quella di
attraversare i vari territori e saperi, facendo leva sulla comune esperienza religiosa. Ovvero,
parafrasando Italo Calvino: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo al deserto, non è
deserto, e farlo durare e dargli spazio». Perché ciò che in mezzo al deserto non è deserto è proprio
l’oasi.