mercoledì 5 marzo 2014

Il migliore Islam possibile è in Marocco



Gli imam alla prova delle religioni del mondo 
di Marco Ventura
in “la Lettura” - Corriere della Sera” del 2 marzo 2014
Sono studenti universitari come gli altri. Li incontri nel campus a passeggio sui viali, jeans, felpa e
giubbotto, magari calzoncini corti nella bella stagione. Tra una lezione e l’altra li trovi ai tavolini
della caffetteria. Li incroci a mensa, nei club studenteschi. O diretti alle residenze, con i sacchi della
spesa. Sembrano distinguersi solo perché un po’ più avanti con gli anni. Devi entrare in aula con
loro, per cogliere la vera differenza. Devi osservare che cosa succede quando il professore apre la
discussione sul testo assegnato per quel giorno. La preparazione è impeccabile. La precisione è
strabiliante. Senza guardare le fotocopie ricordano esattamente ciò che hanno letto. Ma se nelle
prime lezioni chiedi di criticare l’autore, se spingi all’interpretazione personale, li metti in
imbarazzo.
Comprendi allora che non sono studenti come gli altri. Ti spiegano: a dieci anni, per entrare nelle
migliori scuole religiose, come la mitica Qarawiyyin di Fez, dovevano già conoscere il Corano a
memoria. Per anni, da allora, la loro vita è stata apprendimento mnemonico, disciplina. Ora sono
imam. Guide della comunità musulmana. Le loro famiglie sono orgogliose. Sono fieri di loro il
Marocco e il suo re: Mohammed VI, comandante dei credenti.
Non sono studenti come gli altri, ma si trovano in questo campus universitario per diventarlo. A
modo loro. Nel 2010, il ministro degli Affari religiosi marocchino, Ahmed Toufiq, siglò un accordo
col rettore dell’università Al Akhawayn di Ifrane per l’istituzione di un corso di formazione per
imam. In autunno arrivò il primo gruppo. Per tre anni gli imam studiano le religioni nella società
contemporanea e l’islam globale. Autorità governative e accademiche hanno scommesso sulla
compatibilità tra lo studio islamico tradizionale e il sapere occidentale. Uomini che dopo anni di
scuola coranica hanno conseguito l’ijaza , titolo che consente l’accreditamento presso il ministero
degli Affari religiosi, possono integrarsi in un’esperienza accademica all’americana. Gli imam che
usciranno dal training saranno più forti, più completi: pronti per essere leader ovunque; a proprio
agio a Meknes e a Montreal, a Casablanca e a Manchester.
Dopo tre anni, il progetto è ormai consolidato. Il governo del Mali ha firmato un accordo per inviare
propri imam. Sembra che nelle scorse settimane anche la Tunisia abbia raggiunto un’intesa con le
autorità marocchine. Al corso in scienze religiose, religious studies , disegnato per gli imam,
s’iscrivono anche studenti americani e europei, che vengono qui soprattutto per l’islam. Connell
Monette e Emilie Roy, rispettivamente direttore e professoressa nel programma, sono canadesi, con
un solido percorso nordamericano nei religious studies. Il loro primo problema con gli imam è stato
l’inglese, lingua ufficiale del corso. Ma la vera questione è più profonda. Dopo lunghi anni di
madrassa, di scuola religiosa, gli imam che arrivano a Ifrane sono supini all’autorità del testo e
dell’insegnante e hanno una testa divisa in due: esiste il sì e il no, il vero e il falso. L’islam è verità,
il resto è ignoranza. Studiare l’islam secondo il metodo tradizionale fa bene; invece studiare
qualsiasi altra cosa, soprattutto le altre religioni, fa male.
Monette, Roy e gli altri professori provano a spezzare la naturale resistenza dei loro studenti
speciali senza minacciare la loro reverenza per l’islam. Lo studio critico della religione è proposto
come un altro mondo che può aggiungersi a quello delle scuole coraniche. Il modello educativo dei
religious studies di Al Akhawayn, scrivono Monette e Roy, «non è alternativo, ma di complemento»
all’educazione tradizionale ricevuta nelle madrasse. Il banco di prova è lo studio della preghiera
rituale musulmana, salât. Non si mette in discussione la verità islamica sul culto a Dio. Ma si usa il
concetto di salât anche per definire in qualsiasi religione la ritualità, il comportamento esteriore, e si
aiuta lo studente a familiarizzarsi con la categoria accademica di «rituale», cui non è più necessario
applicare un giudizio di verità e falsità.
Il compito di professori e studenti è titanico. Si tratta di riconciliare due mondi straordinariamente
diversi, fin nel paesaggio. Gli imam che hanno studiato a Fez sono cresciuti nella medina, con
l’odore che sale dalle vasche in cui si conciano le pelli, i canti delle confraternite sufi, la ressa per le
viuzze in cui si ammassano pezzi di carne e stoffe, datteri e ciambelle. È tutto diverso quassù a
Ifrane, sul Medio Atlante, 1.600 metri di altezza, la Chamonix del Nord Africa. Struttura e vita del
campus sono da università americana. Potresti scambiare il minareto della moschea per il campanile
di Berkeley, se non fosse per la neve che ricopre i prati. I manifesti in bacheca pubblicizzano un
corso di maquillage, la seduta settimanale di sensibilizzazione contro le molestie sessuali, la
conferenza di Aicha Belarbi, ex ministro femminista venuta da Rabat. In un’aula della biblioteca,
Jeremy Gunn sta preparando la proiezione serale del corso di cultura americana. Dalla Grace Kelly
quacchera di Mezzogiorno di fuoco al predicatore di Furore , alla Madonna di Material Girl e alla
Lady Gaga di Beautiful, Dirty, Rich .
Per gli imam paga il governo, ma costa caro iscriversi in questa università, in cui i rampolli del
Marocco benestante studiano ingegneria, management e comunicazione, mentre gli studenti
americani e europei vengono a imparare come si cammina sul filo di scambi e denaro che collega
l’Occidente al mondo arabo. Gli imam si mischiano a studenti, come l’italiana Sofia, che hanno
fretta di crescere e di riuscire.
Il collega Bouziane Zaid mi ha invitato nel suo corso di comunicazione e sviluppo, per parlare della
teologia della liberazione. Racconto di Oscar Romero, di Desmond Tutu. Una studentessa di Liegi
con il velo si stupisce che in tanti anni nelle scuole cattoliche del Belgio nessuno le abbia mai
parlato di tutto ciò; si entusiasma al pensiero di un islam liberatore degli oppressi. Kenza Oumlil mi
ha invitato nel suo corso di teoria dei media. Agli studenti interessa il business, nessuno vuol fare il
giornalista: mestiere troppo mal pagato, troppo pericoloso. Non per questo si tirano indietro quando
viene il momento delle domande.
Mi incalzano sui due Papi, sul rinnovamento della Chiesa, su ciò che ho dichiarato in proposito ad
Al Jazeera un anno fa. Non ci sono imam in aula. Questi corsi non fanno parte del programma. Ma
alla mia conferenza, la sera, una dozzina di loro è in sala. Parlo dell’uso della religione nella politica
post moderna: faccio scorrere le immagini del Dalai Lama e di Tom Cruise, di Berlusconi e
Gheddafi, dei manifesti svizzeri anti-minareto, delle musulmane in marcia a Parigi contro la laicità
che vieta loro di indossare il velo a scuola, dei barbuti che a Londra inneggiano alla sharia che
dominerà il mondo, debellando la democrazia.
Un imam, a fine conferenza, mi dice la sua passione per un islam politico, la sua determinazione nel
costruire una religione di progresso. Gli imam di Al Akhawayn si preparano a diventare gli
ambasciatori nel mondo dell’islam del Marocco. Non hanno dubbi che il loro sia il migliore islam
possibile. Moderato ed energico, tradizionale e moderno. Non hanno velleità rivoluzionarie. Stanno
con un ministero degli Affari religiosi impegnato a costruire un islam ufficiale, di credo asharita e di
scuola malikita, sensibile al sufismo e alle tradizioni popolari.
Nella geopolitica globale, quest’islam d’ordine piace a molti, anche in Occidente. Quello che
avviene sul campus, tuttavia, sfugge alle strategie e ai disegni. È grande politica, certo, ma anche,
soprattutto, traiettorie individuali. Glorianna Pionati, psicologa italoamericana del campus, mi dice
che i problemi sono simili per tutti: l’ossessione della verginità, la paura dell’omosessualità, i
diversi modelli sociali e familiari che fanno l’individuo a pezzi. C’è l’imam che ha trovato qui la
fidanzata, l’imam già sposato, quello che attende la scelta delle famiglie. C’è chi resterà in
Marocco, chi sogna il Canada. C’è chi è a disagio per questa formazione e chi grazie ai corsi, mi
dice Emilie Roy, «ha smesso di vedere l’islam come una bolla di astrazione teologica». Ci sono
infine i tanti che hanno solo voglia di capire, di fare, che si preparano a percorrere le strade del
mondo pensandola come Gunn: «Il problema non sta nelle religioni, ma in coloro che popolano le
religioni».