giovedì 2 ottobre 2014

Nonno marrano




L’albero genealogico della santa carmelitana. 

(Cristiana Dobner) Pubblichiamo stralci di una conferenza tenuta ad Ávila --Nella cornice di Ávila, «autentico diamante di pietra grezza, dorata dal sole dei secoli e da secoli di sole» (Miguel de Unamuno), è impossibile non interrogarsi su doña Teresa de Ahumada y Cepeda, cioè Teresa di Gesù, dottore della Chiesa e fondatrice del Carmelo Teresiano.
La sua testimonianza di vita evangelica ha segnato un percorso di incontro con l’Altissimo, raggiungendo le vette della contemplazione e ha donato la sua esperienza viva in opere che, ancor oggi, segnano la via per chi cerca Dio. 
Doña Teresa celava un segreto emerso solo nel 1946 dai polverosi archivi della Spagna del siglo de oro che dona nuova luce al suo albero genealogico: N. Alonso Cortés, nell’archivio di Valladolid, scoprì in un faldone una documentazione preziosa, che rovesciò quanto fino allora era stato scritto e asserito sulla famiglia dei de Cepeda. Si tratta di un pleito de hidalguía, degli Atti di un Processo di nobiltà che vede coinvolto il padre e gli zii di doña Teresa de Ahumada y Cepeda e che comprova l’ascendenza marrana del nonno della santa castigliana.
La scoperta suscitò tale sgomento che fu celata fino agli anni Ottanta. Fino ad allora si era sempre magnificata la nobiltà della famiglia e la limpieza de sangre, cioè il sangue puro di cristiani senza goccia di sangue ebraico degli antenati di Santa Teresa. «Di questo tremendo castigo i Cepeda erano fortunatamente immuni e nemmeno la più piccola macchia contaminava il blasone di Alonso de Cepeda, quello delle due mogli e dei suoi dodici figli». Così scriveva Victoria Sackville West negli anni Cinquanta. Oggi noi sorridiamo e guardiamo alla verità storica che nulla toglie alla grandezza della santa castigliana.
Tutto iniziò il 6 agosto 1519, ad Ávila, quando Alonso de Cepeda, padre di Teresa, e i suoi fratelli, costretti dal fiscal a pagare le tasse come plebei, aprirono un processo perché la nobiltà del loro padre, Juan Sánchez, venisse riconosciuta con una carta de hidalguía, una lettera di nobiltà. Documento ancor oggi conservato e alterato: infatti il «solamente», che limitava la nobiltà dei Cepeda ad Ávila e dintorni, venne corretto in «specialmente».
Nel corso delle indagini, emerse che l’ebreo Juan Sánchez, ricco mercante di sete vivente a Toledo e convertito al cristianesimo, cioè converso, era accusato di essere ritornato di nascosto alla pratica dell’ebraismo e quindi considerato marrano. 
Dopo una retata della Suprema, cioè del Tribunale dell’Inquisizione, Juan Sánchez aveva scelto per la confessione e quindi, giudicato colpevole, aveva espiato la sua colpa il 20 luglio 1485: fustigato in pubblico, costretto a rivestirsi del sambenito nero (sacco benedetto) pagò una notevole multa. 
Dopo questa amara vicenda, Juan Sánchez, con tutta la famiglia, si trasferì ad Ávila, cambiò cognome e i suoi figli vissero da nobili e sposarono donne appartenenti alla cerchia sociale più importante di Ávila. Il marrano altri non era che il padre di don Alonso de Cepeda, quindi nonno di doña Teresa de Cepeda y Ahumada. Un’onta ne macchiava la honra, l’onore, secondo la concezione del siglo de oro.
Al tempo di questo dramma familiare e di tutte le conseguenze che comportava, Teresa era una bambina e al momento della sentenza, favorevole, agosto 1522, aveva sette anni.
Il processo, secondo gli storici, era «vinto in antecedenza», per la potenza dei de Cepeda e dei loro vincoli di parentela.
Ma se oggi si visita la judería, cioè quanto resta dei quartieri ebraici di Ávila, si comprende che la situazione degli ebrei era ben diversa, e il disprezzo nei loro confronti si spingeva fino alla mancanza di rispetto per i morti ebrei. Infatti, nel primo beaterio, divenuto poi il monastero carmelitano dell’Incarnazione, fu incorporata la sinagoga e la nuova costruzione, fuori le mura, fu costruita proprio sul luogo detto Ossario degli ebrei. Nel 2012, nel corso di alcuni scavi, vennero alla luce le ossa degli ebrei, ora onorevolmente ricomposte nel Giardino di Sefarad.
Teresa era a conoscenza di questo passato familiare, ma non ne parlò mai nei suoi scritti, anche se alcuni segnali rivelano i legami con la tradizione religiosa della sua famiglia. 
Si notano infatti delle consonanze fra l’ebraismo e la mistica teresiana, quali la preghiera ebraica e l’orazione teresiana; il «faremo e ascolteremo» della Torah e «le opere» teresiane; la halachà, il cammino dell’ebreo nell’esistenza e il Cammino di perfezione di Teresa; la kavannáh e la deveqúth come adesione alla divina Presenza, alla shekinah, e il raccoglimento che Teresa pratica e insegna; la berachà, la benedizione che ritma la giornata del pio ebreo e che costella tutte le opere della carmelitana; il tzimtzum, il contrarsi di Dio nella propria essenza profonda per lasciare spazio e autonomia alla creazione a cui corrisponde la contrazione nella vita di Teresa in uno spazio delimitato, accettando lo tzimtzum del proprio corpo e del proprio spirito nel celibato.
Tutto vissuto all’interno della storia per restaurare il mondo, nel tikkun ‘olam, nella comunione con l’Altissimo. Non per ricadere nell’ideologia della sostituzione, bensì nel solco dell’irruzione dell’Altissimo nella storia per procedere entrambi, ebrei e cristiani, nella speranza.
L'Osservatore Romano