mercoledì 18 marzo 2015

Trans, bisturi, persone interrotte



di Renzo Puccetti


Quando si assiste ad un dibattito incentrato su questioni legate al mondo LGBTQ si verifica spesso una polarizzazione delle opinioni tanto spinta da rendere l’uditorio simile ad una platea di tifosi accecati dalla passione per la propria squadra e l’ostilità per l’avversario che in taluni sfocia in un vero e proprio odio per il nemico. Quasi invariabilmente chi scrive su questo quotidiano viene accusato dal fronte opposto di essere latore di stereotipi sessisti. Si tratta di un’accusa che assume connotati grotteschi stante la facilità con cui viene dispensata contro ogni argomentazione non allineata al pensiero LGBTQ, ma che ha anche la debolezza di potere essere ribaltata: non potrebbe l’accusa nascere da uno stereotipo “sceltista” per cui ogni forma di sessualità liberamente scelta sia equivalente? E se fosse questo stereotipo a complicarsi talora d’intolleranza “normofobica”, “naturafobica” e “cristianofobica”? Un aspetto che mi pare un po’ lasciato in ombra nell’attuale dibattito è quello concernente la dipendenza dalla disponibilità di una tecnologia adeguata per il raggiungimento di quella che viene considerata una piena realizzazione del genere scelto. Da una tale dipendenza deriva anche una certa fragilità e settorialità geografica delle possibilità attuative delle rivendicazioni. La mente va immediatamente agli aspetti riproduttivi, ma proverò a sviluppare l’idea concentrandomi sulla componente transessuale del quintetto LGBTQ. Si tratta di una condizione che il trattato delle malattie mentali attuale identifica con l’etichetta “disforia di genere”, termine che ha sostituito l’espressione precedente “disturbo d’identità di genere” al fine di demedicalizzare la condizione per quanto possibile senza che ciò comporti il rischio di un venire meno dell’assistenza sanitaria di cui queste persone hanno bisogno. Si tratta di soggetti che vivono con profondo malessere ed infelicità la loro sessualità biologica, che si sentono donne in un corpo di uomo o viceversa, talora hanno attrazione per persone del loro stesso sesso biologico, talora sono attratte dal sesso opposto. Su un punto vi è unanime concordanza: si tratta di una condizione la cui genesi è misteriosa, dove le ipotesi proposte hanno debolissima base sperimentale e risultano altamente insoddisfacenti, ma che sicuramente si situa a livello psichico. Il British Journal of Psychiatry ha pubblicato uno studio condotto in quattro Nazioni europee (Belgio, Germania, Olanda, Norvegia) rilevando in questi soggetti una prevalenza di disturbi dell’umore nel 38% e nel 68% dei casi rispettivamente in atto o nel corso della vita. Secondo la Gender Identity Research and Education Society ne sono interessate 20 persone ogni centomila sopra i 16 anni, per cui in Italia dovremmo avere intorno ai diecimila casi. Secondo il campione inglese non randomizzato del Trans Mental Health Study 2012, l’84% ha avuto pensieri suicidari nel corso della vita, il 27% riferisce tali pensieri nell’ultima settimana. Il 48% ha attuato tentativi suicidari nella vita, il 33% più di una volta, il 3% più di dieci volte. Nel campione americano del National Transgender Discrimination Survey i tentativi di suicidio hanno interessato il 40% dei soggetti. Si tratta di cifre che rendono evidente la sofferenza di queste persone e la necessità di accoglienza che è loro dovuta, così come il biasimo di ogni ingiusta discriminazione. Si tratta invece di una categoria frequentemente vittimizzata (Whittle, 2007). Nell’incapacità di fornire un rimedio eziologico (cioè che agisca sulle cause) alla sofferenza di queste persone, la scienza medica ha elaborato una serie di protocolli medico-chirurgici volti ad attenuare la sintomatologia disforica che sono comunemente identificati come “cambiamento di sesso”. Nei bambini si è proposto di bloccare lo sviluppo puberale fino a quando questi non avranno più chiaro quali sono i caratteri sessuali che sentono più confacenti a loro stessi. Non intendo addentrarmi in questo intervento sugli aspetti propriamente antropologici ed etici della questione, piuttosto vorrei soffermarmi sugli aspetti previ, quelli medici. Per prima cosa è necessario chiarire che nessuna tecnologia oggi disponibile è in grado di cambiare il sesso: i maschi rimangono maschi e le femmine rimangono tali, perché il sesso dipende dai cromosomi sessuali. Quelli che vengono attuati sono interventi di mascolinizzazione o femminizzazione più o meno spinti attuati con scopo puramente sintomatico: ridurre quello stato di ansia che al momento si afferma di non sapere controllare in altro modo. Effettivamente vi sono una serie di indizi che sembrano indicare come il disagio mentale diminuisca dopo questi interventi. Ad esempio nel già ricordato sondaggio inglese il 63% riferisce che pensava più al suicidio prima degli interventi, il 3% dopo la transizione e il 7% durante, ma dobbiamo ricordare che si tratta di una popolazione non randomizzata. Altre pubblicazioni, oltre ad essere spesso numericamente esigue, presentano analogo limite metodologico. È comunque piuttosto verosimile che tra quanti desiderano interventi di riattribuzione si verifichi un alleggerimento soggettivo delle ansie e un miglioramento dell’umore, di cui vi è maggiore evidenza nel breve termine. Da qui, come nel caso della gravidanza non programmata con l’aborto, si può essere tentati di fornire una risposta meramente tecnologica al problema: “Ti senti dell’altro sesso? Con gli ormoni e la chirurgia vedrai che starai bene”. Sono molte le evidenze che indicano che si tratta di una risposta semplicistica, ideologica e falsa, al pari di quanto ormai è assodato circa la reazione psichica delle donne dopo l’aborto. Per prima cosa non tutte le persone con disforia di genere desiderano o sono intenzionate a sottoporsi agli interventi di riattribuzione del sesso. Fare outing non sembra giovare: la casistica americana già citata indica il 33% di tentativi suicidari tra chi non ha rivelato ad alcuno la propria condizione, contro il 50% di chi l’ha resa nota a tutti e il 40% di chi ha parlato della cosa, ma soltanto in ambiti sociali più ristretti. Ma la suicidarietà, indicatore elettivo e drammatico di sofferenza mentale, non dipende soltanto dallo stigma sociale, bensì da una serie molto più numerosa di fattori: la più giovane età, il basso reddito, il livello inferiore d’istruzione, la mancanza di sostegno familiare, la positività all’HIV, la comorbidità psichiatrica e, non ultimo, la stessa intenzione di sottoporsi agli interventi di riattribuzione del sesso o gli interventi già attuati. Ad esempio il 31% delle persone che non vuole assumere ormoni ha attuato tentativi suicidari nel corso della vita contro il 40% di chi ha intenzione di assumerli e il 45% di chi l’ha già fatto, ad indicare che le persone con disforia di genere interessate agli interventi di riattribuzione costituiscono una categoria a maggiore rischio. Stesso trend si rileva per la chirurgia genitale. Il gruppo olandese ha pubblicato nel 2014 sulla rivista Pediatrics i risultati su 55 soggetti a cui sono stati somministrati ormoni del sesso opposto all’età di 13,9-19 anni e la chirurgia a 18-21,3 anni. Ad un anno dall’intervento, tranne per un soggetto a cui è andata male, morto per setticemia dopo la vaginoplastica, sembra che tutti stiano benissimo, psicologicamente e socialmente. Dunque è tutto semplice e risolvibile? La realtà è che non vi sono studi d’intervento prospettici randomizzati valutati in cieco (il doppio cieco è impossibile), i soli che sarebbero in grado di fornire dati solidi circa gli esiti degli interventi. Se i dati forniti dagli olandesi sono corretti, non si capisce come mai nella casistica fornita dai ricercatori del Karolinska Institutet sulla rivista PLOSone ottenuti sui 324 soggetti sottoposti a terapia di riassegnazione chirurgica dal 1973 al 2003 in Svezia identificati mediante i registri nazionali e valutati dopo un follow-up medio di 11,4 anni, i risultati siano diametralmente opposti. Rispetto al gruppo di controllo (generato controllando una serie di variabili) i pazienti operati hanno dimostrato una mortalità per tutte le cause quasi tripla (2,8 volte maggiore) e per suicidio 19,1 volte più elevata con un tasso di cure psichiatriche quasi triplo. Questione di durata di osservazione? Bias di selezione? Una cosa appare certa: o gli olandesi sono dei fenomeni, o in tutto il mondo sono dei somari, oppure la casistica olandese non è rappresentativa. È da menzionare inoltre il contributo di un gruppo di lavoro belga i cui dati pubblicati su Journal of Sexual Medicine del gennaio 2014 indicano che la chirurgia non offre benefici psicologici aggiuntivi rispetto a quelli ottenuti con la sola ormonoterapia riattributiva dei caratteri sessuali. Se confermati, questi dati sarebbero in grado di marginalizzare ulteriormente il ruolo della chirurgia. Ma altri interrogativi si affacciano. La disforia di genere è un campo impraticabile per la psicofarmacologia e la psicoterapia, oppure, come appare dalla letteratura, gli studi disponibili in questo ambito sono limitati, frammentari e contraddittori? Una ricerca della National Library for Health Literature condotta nel 2012 usando i termini “transessuali”, “transgender” e “psicoterapia” ha evidenziato soltanto 29 articoli di cui la maggior parte pubblicati oltre 30 anni prima (Hakeem, 2012), eppure i risultati riferiti mediante psicoterapia dagli autori sono oltremodo incoraggianti e meritevoli di ulteriore esplorazione. I lavori volti ad indagare l’impiego della farmacoterapia per il controllo della disforia sono pressoché totalmente assenti. Questo, assieme all’assenza di gruppi di controllo utilizzabili, è il quadro riconosciuto dalla stessa American Psychiatric Association nel rapporto sul trattamento del Gender Identity Disorder del 2012. Eppure con questo background scientifico semidesertico si sostiene con vigore come unica strada quella della modifica del corpo per adattarlo alla misteriosa distorsione da cui è afflitta la mente. E lo si fa estendendo procedure definitive a minori, spesso con una comprensione limitata della portata di interventi irreversibili tanto più in presenza di una più che probabile regressione spontanea della sintomatologia. Per stessa ammissione della Gender Identity Research and Education Society “Un test che rilevi e misuri la variante gender che possa svilupparsi in disforia gender nell’adulto o nel transessualismo non è disponibile”. Gli interventi si basano cioè sul racconto soggettivo delle sensazioni riferite dai giovani pazienti. Immaginate il destino tragico di eventuali errori diagnostici o prognostici. Non stiamo parlando di favole, ma di persone in carne ed ossa come Alan Finch, operato nei suoi 20 anni dopo una diagnosi errata di disturbo d’identità di genere e tornato a vivere come maschio un decennio più tardi, ma con un corpo mutilato la cui storia è raccontata in un documentario intitolato “Boy interrupted”. Storie simili portano il nome del campione di tennis Rene Richards, del giornalista sportivo Mike Penner, giunto al suicidio, della belga Nathan Verhelst nata donna col nome Nancy, sottopostasi nel 2009 all’azione degli ormoni, operatasi pensando di “celebrare la propria nascita” solo per vedersi allo specchio dopo l’intervento come “un mostro” e così chiedere ed ottenere l’eutanasia a 44 anni perché una sofferenza dichiarata insopportabile. La sospensione farmacologica dello sviluppo puberale è attuata per ridurre la disforia comparsa con i sintomi puberali, acquistare un po’ più di tempo ed avere migliori risultati estetici dalle eventuali successive procedure chirurgiche ed estetiche. Nessuno però ha al momento dato risposta ad alcune domande: è di per sé un intervento neutro, oppure essa stessa è in grado di condizionare l’evoluzione rinforzando la non conformità? E il bombardamento gender nelle scuole e sui media, siamo sicuri non agisca su substrati così ancora malleabili? Bradley Cooper dopo avere pregato per anni la sua famiglia ed avere ricevuto a 17 anni il via libera per la riattribuzione, dopo un solo anno ha trovato la vita come donna “opprimente” e ha annullato l’intervento chirurgico. Il laicista Huffington Post ha riportato il caso di un lui divenuto Daniela verso la fine dell’adolescenza che a 24 anni è potuto tornare indietro ed essere il signor Jait Jr. solo grazie al fatto di non avere effettuato la chirurgia genitale. Si vorrà impedire ideologicamente alla genetica di fare outing?
La disforia di genere è affrontata con interventi di riattribuzione finanziati pubblicamente, ma dobbiamo attenderci dunque che possano ricevere analogo trattamento quanti soffrono di disforia di specie (Gerbasi et al. 2008)? Perché la falloplastica alla signora tal dei tali sì, mentre corna e canini protesici per diventare una donna vampiro come l’avvocato Maria José Cristerna no? Perché ai primi la chirurgia, ai secondi la psichiatria? È la domanda che si è posto il giornalista newyorkese Daniel Greenfield.

«Immaginatevi cosa significhi alzarsi all’alba e pensare di passare la giornata dando colpi di bisturi a organi perfettamente ben formati, e questo perché voi psichiatri non capite qual’è il problema, ma sperate che l’intervento possa fare del bene a quei poveretti». Sono queste le parole di uno dei chirurghi dedito per anni alla chirurgia di cambiamento di sesso alla John Hopkins prima della sospensione del programma.
Al dunque, siamo proprio certi che si tratti di un vero progresso?
18/03/2015 La Croce quotidiano