sabato 2 aprile 2016

Quelle particole nascoste in un flacone di medicine.



Storie di fede cristiana nei luoghi di persecuzione

Vittime e carnefici. Terrorismo, guerre, dittature, persecuzioni, migrazioni: la religione, distorta e strumentalizzata a fini ideologici quando non economici, è sempre più spesso usata come strumento di odio e divisione nelle tante periferie del pianeta. È quanto denuncia il comboniano direttore della rivista «Popoli e Missione» nel libro Vittime e carnefici. Nel nome di “dio” (Torino, Einaudi, 2016, pagine 178, euro 17). Pubblichiamo ampi stralci del capitolo intitolato «Lo scontro delle civiltà».
(Giulio Albanese) Un conto è parlare delle persecuzioni, un altro è fare l’esperienza dell’incontro con quanti vivono permanentemente in questa condizione. Bisogna vedere, ascoltare, toccare con mano per capire di cosa stiamo parlando.
Durante gli anni Novanta, grazie all’aiuto di un organismo umanitario, riuscii a entrare in un Paese in guerra, dove imperversava la sharia, la legge islamica. Per garantire l’incolumità della piccola comunità cristiana ivi residente, tengo a precisare che sono costretto ancora oggi a omettere i nomi delle località geografiche e quelli di persona. La città dove mi trovavo era la capitale e l’insicurezza regnava suprema. Un po’ ovunque, vi erano uomini armati che manifestavano odio e rancore nei confronti dell’Occidente. Sapevo bene di rischiare la vita ma non potevo tirarmi indietro. Sentivo che era in gioco la mia dignità di cronista impegnato nel dare voce ai senza voce. Tengo a precisare che, in simili circostanze, la prudenza è d’obbligo.
Avevo ottenuto il visto d’ingresso come giornalista perché se avessi dichiarato d’essere un religioso cattolico probabilmente ora non sarei qui a raccontare questa storia. Mi era stato riferito da un collega spagnolo che, nonostante la presenza dei miliziani jihadisti, vi era in città una piccola comunità di suore, appartenente a una congregazione missionaria. Per raggiungere il loro convento era necessario superare a piedi uno sbarramento tra le due opposte fazioni armate che si contendevano il controllo del territorio. Si trattava di una fascia larga poco meno di un chilometro, attraversata da una strada malandata, piena di voragini. Gli edifici circostanti erano deserti e l’atmosfera surreale. Il sole picchiava forte e camminando il sudore scendeva copioso.
Raggiunta l’altra sponda, fui subito perquisito da due miliziani che, per fortuna, erano stati avvisati del mio arrivo. Le suore vivevano in una casetta prefabbricata, coperta dall’ombra di un paio di palme. All’inizio, queste donne, tutte e tre italiane, pensarono che fossi un cronista in cerca di scoop e dunque si mostrarono molto diffidenti. D’altronde, quando avevo preannunciato telefonicamente la mia visita, per prudenza, non avevo rivelato la mia vera identità. Quando però riuscii a spiegare chi fossi, si commossero così tanto che mi chiesero, con le lacrime agli occhi, di celebrare la santa messa. Erano mesi che non potevano prendervi parte, tanto era il tempo trascorso dall’ultima eucaristia. Chiesi d’essere accompagnato nella loro cappella. «La nostra è la cattedrale più piccola che lei abbia mai visitato», disse la superiora, una donna sulla cinquantina. Con un cenno fugace mi invitò a seguirla, accompagnandomi nella sua camera da letto, una stanzetta angusta, illuminata da una finestrella che correva lungo il soffitto.
Dentro l’armadio a muro, nascosto tra i vestiti, c’era un piccolo tabernacolo. Sollevò il comodino, quello che sarebbe stato l’altare, e lo mise di fianco al letto. Mi fece accomodare su uno sgabello, mentre preparava tutto l’occorrente per la celebrazione. Poi le due sorelle si sedettero sul letto assieme a lei, con grande devozione, chiedendo d’iniziare la liturgia. Ero emozionato, avevo davvero la percezione di trovarmi nei bassifondi della storia, laddove c’è tanta umanità dolente, dimenticata da tutto e da tutti. Indossai solo una stola in quanto l’umidità era al 99 per cento e la temperatura al limite della sopportazione.
Non nascondo la mia inadeguatezza a spezzare il pane della Parola di Dio con quelle donne così coraggiose. Tra l’altro, una di loro, poco tempo dopo, sarebbe stata uccisa. Avevo letto sui libri di teologia cosa fosse la martyria, ma quel giorno mi resi conto davvero di cosa significasse quella parola. Consacrai due chili e mezzo di ostie, contenute in un recipiente di latta. Mi spiegarono, successivamente, che le particole sarebbero state poste a parcelle dentro piccoli flaconi di medicine, ricoperte con l’ovatta e distribuite ai fedeli attraverso i catechisti di quattro piccole comunità. Proprio tutto quello che restava, in termini numerici, di una Chiesa, piccolo gregge.
Sono qui a testimoniare non solo la loro grande fede, ma l’atteggiamento misericordioso di fronte ai loro persecutori. «Perché — mi disse la superiora — essere cristiani significa non essere mai contro qualcuno». Compresi solo allora quanto verace fosse l’insegnamento di Gesù: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Matteo, 5, 11-12). Lo stesso giorno in cui incontrai quelle donne valorose visitai i ruderi della cattedrale cattolica, praticamente rasa al suolo in segno di sfregio nei confronti non solo della religione cattolica, ma anche e soprattutto dell’ex potere coloniale, associato dalla cultura estremista islamica al peggior demone di questo mondo, lo Shaytān. Secondo la religione islamica egli tenta in tutti i modi, pur di dare sconforto alle persone, di farle cadere nella tristezza, avendo giurato vendetta fino alla fine dei tempi. Ebbene, Shaytān saremmo noi che con il nostro modus vivendi, le nostre convinzioni, il potere e l’affezione al dio denaro, avremmo sfidato l’unica vera civiltà, quella dell’umma, la comunità di coloro che seguono i dettati coranici. Ora, per carità, tra le libere coscienze, nessuno intende misconoscere gli errori commessi dal mondo occidentale, con tutte le sue storture, ma dimenticare il bene profuso dalle suore di cui sopra con grande abnegazione, asserendo che anch’esse sono figlie delle tenebre, è davvero ingeneroso. Oltretutto, ciò che dimenticano questi spietati interpreti della violenza, è che il cristianesimo è nato in Medio oriente duemila anni fa. Comunque, il ricordo che serbo in cuore di quelle religiose, autentiche sentinelle del mattino, è davvero il ricordo di una giornata indimenticabile. Una fede, la loro, non certo identitaria, ma inclusiva, protesa al servizio dei poveri nei bassifondi della storia. A riconoscerlo, in quel Paese il cui nome ancora oggi non mi è lecito proferire, è tanta società civile islamica che ha sempre contrastato il pensiero debole jihadista. A conferma che, affrontando il tema delle persecuzioni, è ingiusto fare di tutte le erbe un fascio.
Nello stesso soggiorno in quel Paese a maggioranza islamica, riuscii a compiere dei sopralluoghi nei posti dove un tempo sorgevano alcune chiese. Anzitutto visitai i ruderi della cattedrale locale. Più tardi incontrai clandestinamente il vecchio sacrestano di una parrocchia, a una settantina di chilometri dalla capitale. L’edificio era sventrato e il campanile diroccato. Mi colpì moltissimo constatare in che modo orribile fosse stato ridotto l’altare maggiore. La mensa era stata spezzata in due tronconi. Il vecchio mi spiegò che era comunque riuscito a salvare i registri dei battesimi e li custodiva gelosamente nella sua abitazione. Gli domandai se avesse contatti con le religiose che vivevano nella capitale. Mi disse che almeno una volta al mese riceveva i flaconi delle medicine, contenenti le particole. Prima di partire, gli regalai una coroncina del rosario. Si mise a piangere come un bambino e mi chiese di benedirlo. Poi lo nascose in una bisaccia su cui era scritto Allāh Akbar. Mi spiegò, a bassa voce, che per lui quella scritta si riferiva al Dio dei cristiani, ma non lo sapeva nessuno.
L'Osservatore Romano