giovedì 21 aprile 2016

Quidquid recipitur ad modum recipientis...


Amoris laetitia

Problemi morali posti dall’Amoris Laetitia  

(di Tommaso Scandroglio) Leggiamo il § 305 dell’esortazione apostolicaAmoris Laetitia: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa».
A questo punto il documento rinvia alla nota n. 351: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 [2013], 1038)». «Ugualmente segnalo che l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)».
Il paragrafo e la nota sono inserite nel capitolo VIII dedicato alle – così definite – «situazioni irregolari», cioè alla convivenze e soprattutto alle nuove unioni civili a seguito di divorzio dove il precedente matrimonio è canonicamente valido. Nel testo quindi da una parte si descrive una situazione oggettivamente disordinata (il divorziato che si è risposato civilmente) ma in cui la responsabilità soggettiva del divorziato risposato è assente oppure non è piena, e dall’altra come strumento pastorale per questa condizione particolare si indica l’accesso ai sacramenti della riconciliazione e dell’Eucarestia.
Il paragrafo 305 sembra alludere a una situazione in cui il divorziato risposato potrebbe vivere in grazia perché privo di responsabilità soggettiva della sua condizione. Potrebbe essere il caso in cui il divorziato risposato è pienamente convinto che vivere un secondo matrimonio è condizione conforme a morale. Mancando la piena avvertenza sulla materia grave, costui non sarebbe in stato di peccato mortale ergo il divorziato risposato potrebbe comunicarsi.
Tale interpretazione potrebbe essere validata dal § 302 dell’Amoris Laetitia: «non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» (Giovanni Paolo II, Esort. ap.Familiaris consortio – 22 novembre 1981, 33: AAS 74 (1982), 121).
Tentiamo di rispondere a questa obiezione. In primis occorrerebbe verificare caso per caso se realmente la persona versa in uno stato di errore in merito alla sua condizione. Il giudizio di liceità espresso dal divorziato risposato in merito al suo stato potrebbe essere apparente.
In secondo luogo l’ignoranza invincibile deve essere sempre provata.
In terzo luogo l’ignoranza invincibile può essere colpevole: la ripetizione di scelte malvagie compiute liberamente (vizio) può condurre la persona in questa condizione di ignoranza invincibile e dunque la buona fede è un effetto negativo degli errori colpevoli compiuti nel passato dalla persona stessa. Quindi la responsabilità sussiste e non si è in grazia di Dio.
In quarto luogo – e veniamo all’aspetto più importante che si svincola dalla casuistica e si incardina su un principio insuperabile – anche ammesso che l’ignoranza invincibile sia incolpevole (tesi più teorica che reale) è la condizione che oggettivamente – al di là dell’imputabilità morale cioè del profilo soggettivo – è inconciliabile con la comunione. Ricevere Cristo esige una condizione della vita della persona che oggettivamente sia conforme alla Santità di Cristo. Sebbene la persona non ne sia cosciente, la condizione di divorziato risposato è materia grave e tale rimane. Ricorriamo ad un esempio: un barista senza sua colpa (stato di ignoranza) dà da bere del veleno ad un avventore. Chi è a conoscenza che in quel bicchiere c’è del veleno deve impedire al barista di dare da bere perché oggettivamente – al di là della consapevolezza del barista – quell’azione è dannosa per i clienti. Deve impedirlo anche se il barista non vuole sentire ragioni ed è convintissimo che ha tutto il diritto di somministrare quel bicchiere d’acqua. E dunque occorre impedire ai conviventi e ai divorziati risposati che non vivono castamente (o che vivono castamente ma che dovrebbero interrompere la loro relazione perché su di loro non gravano particolari obblighi morali) di accostarsi alla comunione perché tali condizioni sono oggettivamente lesive di Dio, della Chiesa e degli stessi divorziati risposati.
C’è un ordo (un orientamento) voluto da Dio (es. i rapporti sessuali sono leciti solo nel rapporto di coniugio) e vi sono atti che oggettivamente – cioè per l’oggetto deliberato e al di là della consapevolezza dell’illiceità professata dall’agente – sono di per sé contrastanti con questo ordo e che pongono la persona in una condizione incompatibile con questo ordo.
Ciò impone al sacerdote non solo di proibire l’accesso all’Eucarestia, ma anche di assolvere il divorziato risposato che non intendesse cambiare la sua situazione. Per amministrare validamente l’assoluzione mancherebbero infatti due condizioni: il chiaro pentimento e la volontà di emenda. Il primo requisito mancherebbe proprio perché è impossibile pentirsi di una condizione (o di un singolo peccato) che si reputa buona.
Di conseguenza chi non si pente del proprio stato di divorziato risposato non decide nemmeno di troncare il rapporto con la seconda moglie e tentare di tornare con la legittima ed unica moglie. Oltre a questo occorrerebbe che il penitente si proponesse con risolutezza di riparare ai danni commessi al coniuge legittimo, alla eventuale prole, al convivente che ha indotto in peccato e all’intera comunità cristiana a cui ha recato scandalo.
C’è infatti da notare che la gravità della condizione del divorziato risposato non può che ridondare anche nella particolare severità e attenzione richiesta dal confessore. Tale condizione non è semplicemente la sommatoria di più peccati riguardanti il sesto comandamento e non configura solo un vizio, cioè la ripetizione di atti malvagi che vanno a costruire un habitus peccaminoso, ma rappresenta una libera scelta nel tempo di uno status contrario alla volontà divina. È cioè l’elezione ad uno stato di vita strutturalmente e formalmente incompatibile con la vita cristiana che potremmo indicare, seppur l’espressione sia fuori moda ma rimane corretta, con la qualifica di pubblico peccatore. E dunque mancando queste due condizioni – le quali dal punto di vista teologico costituiscono la materia del sacramento della Penitenza – è proibito dare l’assoluzione perché illecita e invalida.
Nel caso in cui il confessore la conferisse ugualmente perché convito della buona fede del penitente che non ha coscienza della gravità della sua condizione, commetterebbe sacrilegio. Il sacerdote invece, nel colloquio durante la confessione, dovrebbe risvegliare i moti della coscienza del penitente, svegliarlo dal suo torpore intellettivo-morale e fargli spalancare gli occhi sulla sua reale condizione spirituale. Al malato grave ignaro della sua malattia dobbiamo dire di curarsi, altrimenti morirà.
In sintesi il divorziato risposato per accedere alla comunione deve manifestare sincero pentimento e proposito fermo di non peccare più, interrompendo quindi subito l’adulterio pubblico instaurato con la seconda moglie (la convivenza è permessa solo se gravano sui conviventi particolari e gravi obblighi morali, quali ad esempio l’educazione dei figli, a patto ovviamente di vivere castamente e di non dare scandalo a terzi). Gesù, rivolgendosi proprio ad una adultera, infatti ordinò: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8, 11). (Tommaso Scandroglio)

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Castità, una virtù assente dall’Amoris Laetitia
(di Cristina Siccardi) Nell’esortazione apostolica Amoris laetitia Papa Francesco cita il termine castità una volta soltanto, come «condizione preziosa per la crescita genuina dell’amore interpersonale». Nulla più. Questa virtù è una difesa straordinaria e sarebbe molto opportuno che la Chiesa, senza vergogna, ritornasse a parlarne per correggere cristianamente il malcostume diffuso e il paganesimo imperante, ricordando ciò che la Chiesa ha sempre affermato in materia di matrimonio e di famiglia.
L’indissolubilità del matrimonio è legge divina ed essendo tale, anche nella forzata separazione di una coppia, non è lecito né l’adulterio né il concubinato (divorziati risposati) che conducono la persona, inesorabilmente, a trovarsi non più in uno stato di grazia, indispensabile per poter essere degni di ricevere la Comunione.
Lo stato di grazia permette alla potenza di Dio, attraverso i Sacramenti, di irrompere nelle vite tribolate, aiutando a portare piccole e grandi croci: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 29-30) a differenza del peccato mortale che procura macigni orrendi.
Più la Chiesa utilizza un ingannevole buonismo, una falsa misericordia e più il peccato corrode le anime e più esso indebolisce persone e società. «Supponiamo che vi sia un giardino pieno di alberi da frutto e di altre piante aromatiche, ben coltivato e adornato in ogni sua parte, provvisto anche d’un muricciolo protettivo. Supponiamo, poi, che vi sia un fiumiciattolo che vi scorre accanto: questo, quantunque povero d’acqua, sbatte contro la parete del muricciolo e la corrode; allargando a poco a poco una fessura irrompendo all’interno del giardino, l’acqua finisce col travolgere e sradicare tutte le piante, distruggendo ogni coltivazione e rendendo sterile il suolo. Ebbene, non diversamente avviene anche nel cuore dell’uomo» (San Macario il Grande, Omelie spirituali, 43, 6). Sanare, potare, sradicare le erbacce, alzare muriccioli e muri per liberare la vita degli uomini è il compito benefico dei pastori della Chiesa. La castità è attrezzo meraviglioso di pulizia del giardino di ogni persona e di ogni famiglia.
La promiscuità della società odierna, dalla scuola ai luoghi di lavoro; la mancanza di pudore nelle donne; l’inconsistente autorità paterna; il lassismo delle madri, utilizzato per sé e per i propri figli; il linguaggio sboccato; le influenze nefaste della pubblicità e della cultura pornografica e omosessuale a vasto raggio; le legislazioni degli Stati occidentali non sono certo l’humus ideale per la coltivazione di pensieri puri; ma proprio per tale ragione i fedeli sono in affannosa attesa di giusti insegnamenti evangelici da parte degli ecclesiastici, che pare abbiano interessi diversi dalla Fede e dalle loro responsabilità davanti a Dio e alle anime.
Osservare troppo in basso i mali della società, senza pupille anelanti la vita soprannaturale, è patologia moderna della Chiesa sorta dopo il Concilio Vaticano II, quella patologia che non permette di servirsi delle corrette terapie. Pio XI, di fronte alla desacralizzazione dell’istituto familiare e alle minacce secolarizzatrici, scrisse nel 1930 una memorabile enciclica, la Casti connubii al fine di contrastare la «perversa moralità. E poiché si sono cominciati a diffondere anche tra i fedeli questi perniciosissimi errori e questi depravati costumi, che tentano d’insinuarsi insensibilmente ma sempre più profondamente, abbiamo creduto essere dovere del Nostro ufficio di Vicario di Gesù Cristo in terra di supremo Pastore e Maestro, alzare la Nostra voce apostolica per allontanare le pecorelle a Noi affidate dai pascoli avvelenati e, per quanto dipende da Noi, custodirle immuni».
Efficaci e santi frutti vennero da quell’Enciclica, nonostante che i novatori, con la loro funesta teologia, disseminassero la zizzania, la stessa che si ritroverà nel Concilio Vaticano II. Come non ricordare le reazioni irose alla Humanae vitae di Paolo VI? Oltre 200 teologi firmarono sul New York Times un appello per invitare tutti i cattolici a disubbidire all’enciclica papale. Alcuni protagonisti del Concilio, contrari all’enciclica, si riunirono a porte chiuse nella città di Essen per stabilire una strategia di opposizione al documento pontificio, che venne sbeffeggiato, disatteso, rigettato con asprezza da interi episcopati, che ebbero la meglio: la dottrina dell’Humanae vitae non fu seguita e nelle università e nei seminari i testi di studio divennero quelli del redentorista Bernhard Häring, padre morale della Costituzione dogmaticaGaudium et Spes, nonché acerrimo nemico dell’Enciclica del 1968.
Da lunghissimo tempo si preparava Amoris laetitia, tonnellate di parole scritte, di conferenze, di convegni, di consigli pastorali… per poi giungere ai due recenti sinodi ed ora all’Esortazione apostolica.
Ancora una volta l’antropocentrismo è stato il protagonista indiscusso e con esso le circostanze storiche, sociali e culturali, quelle che determinano la direzione della rosa dei venti della Chiesa contemporanea, come recita la stessa Esortazione: «Sono innumerevoli le analisi che si sono fatte sul matrimonio e la famiglia, sulle loro difficoltà e sfide attuali. È sano prestare attenzione alla realtà concreta, perché “e richieste e gli appelli dello Spirito risuonano anche negli stessi avvenimenti della storia”, attraverso i quali “la Chiesa può essere guidata ad una intelligenza più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia” (II, 31)».
Quando riascolteremo nuovamente parole di seria disciplina agganciata agli insegnamenti di Cristo e non a quelli della rivoluzionaria teologia e della rivoluzionaria pastorale? Soltanto nelle regole e nella sana educazione si formano uomini e donne forti in grado di formare famiglie forti per una civiltà responsabile di se stessa e delle generazioni future, a dimostrazione di ciò esistono mirabili esempi sia nella macrostoria come nella microstoria. E la castità rientra a pieno titolo nella corretta formazione dei figli di Dio.
La castità è un prisma d’eccellenza che la Chiesa è tenuta ad insegnare affinché possa rifrangersi in esso la luce della volontà non degli uomini, ma di Dio «perché il bene della fede splenda nella debita purezza, le stesse vicendevoli manifestazioni di familiarità tra i coniugi debbono essere caratterizzate dal pregio della castità, in modo tale che i coniugi si comportino in tutte le cose secondo la norma di Dio e delle leggi di natura, e si studino di seguire sempre, con grande riverenza verso l’opera di Dio, la volontà sapientissima e santissima del Creatore» (Casti connubii I). (Cristina Siccardi)