martedì 11 dicembre 2012

Evangelizzare con fantasia


Traggo l'articolo seguente da “Settimana” del 9 dicembre 2012
a firma di Timothy Radcliffe. Da leggere assolutamente!

* * * 

Vorrei parlarvi della più grande sfida per il cristianesimo di oggi: come la nostra fede può toccare
l’immaginazione dei nostri contemporanei.
Recentemente ero presente ad una tavola rotonda a Oxford con il prof. Richard Dawkins, un ateo
che definirei “aggressivo”, e Rowan Williams, allora arcivescovo di Canterbury. L’incontro era
cordiale, ma non sembrava decollare. Williams era reattivo agli argomenti di Dawkins, riusciva a
entrare nella sua immaginazione scientifica e, di fatto, erano scarsissime le affermazioni con cui
egli, o la maggior parte dei cristiani presenti, potevano non essere d’accordo. Da parte sua, Dawkins
non sembrava riuscire a fare il viaggio contrario ed essere raggiunto dall’immaginazione cristiana di
Rowan che, alla fine, ha proposto di guardare al mondo con gratitudine, nel senso della vastità
dell’amore nascosto. Ho avuto l’impressione che Dawkins non abbia proprio capito.
È come se qualcuno privo di sensibilità musicale provasse a comprendere Bartòk. Sono un grande
estimatore di un frate domenicano pittore di nome Kim en Jong, che una volta mi regalò uno dei
suoi quadri per il mio ufficio a Roma. Era una grande tela con colori che si rincorrevano su sfondo
bianco. Quando l’ho mostrato a mia madre, ha esclamato: «Mio caro, sembra il tuo abito dopo una
colazione in cui ti sei particolarmente imbrattato!».

La sfida contemporanea
Il cristianesimo in Occidente potrà rifiorire solo se riusciremo a coinvolgere l’immaginazione dei
nostri contemporanei. Non credo infatti che l’ateismo ci offra tanto una sfida intellettuale, quanto
piuttosto una sfida sull’immaginazione.
Molti di voi ricorderanno il film Des hommes et des dieux (in italiano Gli uomini di Dio), vincitore
al festival di Cannes e visto da milioni di persone. Buona parte del copione è fatta di citazioni
dirette dei diari e delle lettere dei monaci della piccola comunità in Algeria che si erano
profondamente integrati, ed erano amati, in un piccolo villaggio musulmano, ma che lentamente si
trovarono inghiottiti nel violento scontro in atto. Un abitante del villaggio un giorno disse loro: “Noi
siamo gli uccelli che riposano sui rami, e voi siete i rami”. Poi, 21 maggio 1996, la tragedia.
Sono andato a vedere questo film con un amico ateo. Il cinema era pieno di persone, molti di loro
non si sarebbero definiti cristiani. Al termine il silenzio era totale e nessuno voleva lasciare il
cinema fino all’ultimo titolo di coda.
Avevo visitato l’Algeria quattro settimane dopo il loro assassinio, per incontrare un confratello
domenicano, vescovo di Oran, Pierre Claverie: aveva ricevuto minacce e volevo essergli vicino; il
1° agosto 1996 anche Pierre fu assassinato, insieme con un giovane musulmano, Mohamed.
Perché non ho tracciato una bella teoria sull’immaginazione cristiana e invece ho richiamato un
film? Perché l’immaginazione cristiana dimora nel particolare. Come l’ebreo che visse in Medio
Oriente duemila anni fa, al quale i suoi seguaci hanno conferito un significato universale. Le
ideologie che hanno dilaniato il XX secolo, come il comunismo o il nazi-fascismo, hanno spesso
offerto speranze di una redenzione universale. Wislawa Szymborska, poetessa polacca già
comunista e scomparsa di recente, ha detto: «Era per amore dell’umanità, poi ho capito che non si
deve amare l’umanità, ma le persone».
Il cristianesimo va controcorrente perché trova un significato universale incarnato in uomini
particolari e limitati. Ecco perché i santi sono sempre stati importanti, perché sono persone che
hanno rifiutato le identità preconfezionate offerte dalla nostra società: celebrità come Brad Pitt, o
cantanti come Beyoncé o Rihanna. Ascoltando le loro canzoni, vestendo come loro, molta gente
esprime un senso di appartenenza. Ma è un’illusione: temiamo di non essere amabili così come
siamo. Il santo è colui che corre questo rischio. E questo anche perché l’immaginazione cristiana
dischiude l’universale attraverso il prisma dell’individuale. Una comunità, piuttosto che una massa, è ciò che ci aiuta a vivere fianco a fianco come individui.
Quanto ci viene chiesto per definirci cristiani, in teoria non può essere comunicato. Spesso nella
metropolitana di Londra o all'interno delle chiese si incontrano frasi bibliche: «Dio è amore», «Gesù
è morto per i nostri peccati» e così via. Ne ho letta persino una che diceva «Preferisresti vegliare
con le vergini sagge o dormire con quelle stolte?». Sono parole che non dicono nulla alla maggior
parte della gente: hanno significato solo se già ci credi. Dobbiamo scoprirne la verità attraverso
l'immaginazione, fare un viaggio verso l'illuminazione.
Quando Gesù incontra le persone, comincia a fare delle domande. L’intero vangelo di Giovanni è
strutturato così: le sue prime parole, infatti, sono: “Cosa cercate?” e, dopo la risurrezione, chiede a
Maria Maddalena: “Perché piangi?”. Anche le parabole spesso contengono domande, come il buon
Samaritano: “Chi è il mio prossimo?”.
Ma un credente è anche interrogato dal silenzio: la trasmissione della fede non è ripetizione delle
affermazioni di qualcuno. La dottrina cristiana non dà risposte, non ti lega con la verità (questo è
ciò che fa l’eresia: una teoria coerente che sistema tutto), piuttosto è in grado di spiazzarti: invita ad
andare sempre più avanti dentro il mistero della Trinità, del Dio-uomo. Il dogma cristiano non è mai
dogmatico in senso negativo. Quando siamo capaci di condividere la nostra fede, questa assume una
freschezza sempre nuova.
Quando andai a visitare mio padre in fin di vita nel 1993 mi chiese il suo walkman: voleva
riascoltare Le ultime 7 parole di Haydn e il Requiem di Mozart. L’unico modo di affrontare la
minaccia di essere annientati è attraverso la poesia e la musica: un lontano barlume della creatività
di Colui che ha risuscitato Gesù dalla morte.
Oggi i giovani, almeno in Gran Bretagna e negli USA, hanno spesso una comprensione della Chiesa
assai diversa rispetto alle generazioni precedenti (è vista come “conservatrice”): può essere
doloroso per i vecchi sessantenni “liberali” come me, tutto il nostro lavoro sembra compromesso.
Ma la mia fede è diventata tale proprio quando ho lasciato che fosse diversa da quella della
generazione precedente! Quando siamo di fronte alle differenze, dobbiamo cercare di comprendere
l’avventura immaginativa dell’altro (e provare a mettersi nei suoi panni). Ovviamente l’azione di
discernimento è assai complessa e richiede tempo ed energie, ma è indispensabile.

Condividere un Dio-uomo
Il film termina con la scena dei monaci che salgono sulla montagna scomparendo in una tormenta di
neve. Le nostre immaginazioni sono toccate da una sconcertante vittoria della bontà.
Ogni società ha bisogno di storie così. I salmi sono pieni di rabbia contro la fortuna dei cattivi. Ma
Cristo si rifiuta di chiamare gli angeli per essere salvato dalla morte, perdona i suoi nemici dalla
croce, e la sua apparente sconfitta è la paradossale vittoria della risurrezione.
Questa è la storia che ha plasmato la cultura occidentale: le nostre città sono piene di chiese in cui
troviamo il crocifisso. Ma Pietro e gli apostoli non poterono afferrarlo “prima”: aspettavano un
Messia che avrebbe sbaragliato il nemico. Dopo duemila anni è ancora questa l’immagine
dominante: il buono vince uccidendo il cattivo. Ecco come i nostri contemporanei vedono la vittoria
del bene, alla John Wayne. Quando Osama Bin Laden fu ucciso, la parola in codice per l’operazione
fu “Geronimo”, il capo Apache da uccidere. Di fatto, la nostra società continua a vivere con
un’immaginazione in gran parte pre-cristiana. La verità della nostra fede non può essere trasmessa
con affermazioni astratte!
Il film ci commuove anche perché avvertiamo la vicinanza di Dio. C’è una bellissima scena in cui
fra Luc, il vecchio dottore, discute con una giovane sull’innamoramento e dice: “Poi ho trovato un
amore più grande”.
Si assiste oggi ad una diffusa sete di Dio. Gesù è chiamato Emmanuele, “Dio con noi”. Dio è
diventato carne, ma la sua intimità era troppo inquietante e così fu respinto di nuovo in cielo e
divenne “Christus victor”, il Cristo vittorioso. Dal XIII secolo, quando Francesco costruì il presepe,
possiamo immaginarci nella grotta di Betlemme. Nel 1923 Max Ernst dipinse Maria nell’atto di
sculacciare il bimbo Gesù
la gente rimase scandalizzata e il quadro rimosso dalla mostra. Ma i
nostri contemporanei desiderano un Dio vicino. Mick Jagger scrisse: “Tu non vuoi camminare e
parlare di Gesù/ Tu vuoi solo vedere il suo volto”. Anche Madonna: “Gesù Cristo guardami/ Non so
chi dovrei essere”.
 E una canzone di Joan Osbourne è intitolata E se Dio fosse uno di noi?

Mani, occhi, orecchie di Cristo
Vorrei riflettere su come possiamo rendere presente Cristo qui oggi. Quando amiamo qualcuno, la
cosa più importante è il sorriso, come accadeva agli israeliti nei confronti di Dio: volevano che
sorridesse. “Lascia che il tuo volto risplenda su di noi e noi saremo salvi” (Sal 80,3). Il testo biblico
più antico si trova su un pezzettino di cuoio sul quale è inciso: “Ti benedica il Signore e ti protegga,
faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti
conceda pace” (Nm 6,24-26). Gesù individuò tutte le persone che avevano bisogno di quel sorriso,
come Zaccheo. Simone Weil disse: «L’amore vede ciò che è invisibile». L’amore anela che il sorriso
sia ricambiato: questa è la bellezza e il rischio della missione. Qualcuno mi sorriderà a sua volta? A
Oxford ci sono tanti mendicanti che cercano di attirare l’attenzione. Noi rispondiamo al loro
sguardo?
Un giorno a Kingston in Giamaica ho visitato una grande discarica di rifiuti dove trovavano rifugio
i più poveri. Vidi una vecchia baracca di cartoni. Quando mi sono avvicinato, emersero una madre e
suo figlio. Mi invitarono dentro offrendomi una Coca che avevano, presumo, rinvenuto in discarica,
e il ragazzino mi offrì di scambiare le nostre magliette. Ero profondamente commosso: ho
conservato quella Tshirt per anni. Non solo io avevo visto loro, ma loro avevano visto me, esistevo
ai loro occhi, sono stato invitato al loro focolare come loro fratello.
Questa è la nostra prima missione, offrire lo sguardo d’amore di Dio, essere il volto di Dio che si
rallegra delle persone. Si pensa che i predicatori siano persone che parlano dai pulpiti, ma non c’è
predicazione se manca l’ascolto precedente. Quando il cieco Bartimeo va Gesù, lui gli dice: “cosa
vuoi che io faccia per te?”. Gesù ascolta. Non siamo imbonitori che presentano Dio come la risposta
a tutto. Dobbiamo partire dalle persone: dove si trovano e cosa vogliono. Solo così potremo
giungere ai loro desideri più profondi e comprendere il loro linguaggio. Talvolta siamo spaventati
dall’ascolto per ciò che viene detto o perché non troviamo risposte ma, se ascoltiamo col cuore, Dio
ci suggerirà qualcosa! Se invece siamo presi da noi stessi, non saremo mai capaci di ascolto.
Quando ero novizio, ero stupito che molti confratelli fossero impazienti di iniziare a predicare: mi
piaceva studiare, ma non mi allettava il pensiero che un giorno avrei dovuto parlare. La parola di
Dio non è un semplice comunicare dei fatti: Dio pronuncia la sua Parola e le cose vivono. “Sia la
luce”, e così è stato.
Per tutto il giorno chiacchieriamo, raccontiamo barzellette, inviamo messaggi, scriviamo sui blog,
commentiamo notizie, spettegoliamo. Parlare è l’attività umana più importante, ma c’è una
questione morale: offriamo alle persone parole di vita o parole che accusano e denigrano? Offriamo
la parola di Dio, che è creativa, oppure le parole di Satana, che sono distruttive? Trattiamo forse le
persone come spazzatura?
Quando parliamo di fede, qualcuno potrà avere delle incertezze, dei dubbi e questo può essere
positivo, perché così le persone vedranno che essere cattolico non significa avere tutte le risposte. Il
card. Kasper ha detto che la Chiesa potrebbe avere molta più autorevolezza se dicesse più spesso:
“Non so”. Accompagniamo allora le persone condividendo le loro domande e perplessità,
camminiamo al loro fianco ragionando assieme. La vera dottrina non chiude mai le menti, ma ci
sospinge verso il mistero di Dio.
Ma arriviamo al più importante dei sensi umani, il tatto: Gesù ha camminato toccando le persone, i
corpi dei malati. Ha toccato lebbrosi, perfino dei morti, cosa che all’epoca l’avrebbe reso impuro. E
permise pure alla donna, probabilmente una prostituta, di lavargli i piedi con le lacrime per poi
asciugarli con i suoi capelli. Gesù era a suo agio con il suo proprio corpo e con i corpi degli altri.
San Tommaso d’Aquino definì il tatto “il senso più umano”. Quando amiamo qualcuno, il primo
desiderio è di toccarlo: quando ami, il contatto è reciproco.
L’anno scorso il Dalai Lama è venuto a visitare la mia comunità di Blackfriars per un dialogo sulla
contemplazione nelle diverse religioni: «Non abbiamo risolto le nostre differenze – ha detto alla
fine –, ma ci siamo ascoltati con le orecchie bene aperte». Ma mi colpì quello che fece: si fermò
presso la sedia a rotelle di un’amica colpita da ictus appoggiando la guancia alla sua in silenzio: la personificazione della compassione.
Da quando sono stato coinvolto nel lavoro con i malati di aids, ho scoperto l’importanza del
contatto. Alla messa conclusiva di una conferenza su “Chiesa e aids”, un giovane ammalato di nome
Benedict mi si è avvicinato per darmi il bacio di pace. In quel momento ho pensato: “Questo è il
corpo di Cristo che oggi ha bisogno di un abbraccio”.
Oggi la società è preoccupata dei rischi per via degli abusi sessuali e la paura è giustificata.
Dobbiamo però recuperare questa maniera massimamente umana e massimamente cristiana di
essere il corpo di Cristo. In caso contrario ci priveremmo profondamente l’uno dell’altro, e
rischieremmo persino di annullare l’incarnazione, se mantenessimo le distanze, quando invece Dio
s’è fatto vicino. Alla fine di ogni messa siamo inviati per essere il corpo di Cristo, essere la sua
bocca, le sue mani, le sue orecchie e volto, scoprire Cristo nei volti di coloro che incontriamo.
Timothy Radcliffe op