venerdì 21 dicembre 2012

Una irruzione nel cuore della City


L'articolo che Benedetto XVI ha pubblicato ieri 21 dicembre sul Financial Times - un modo nuovo di comunicare, e di raggiungere lettori di solito interessati quasi esclusivamente all'economia - presenta, in un modo adeguato ai particolari interlocutori, la dottrina della regalità sociale di Gesù Cristo.

In modo molto appropriato, il Papa parte dalle tasse. Anche a Gesù, ricorda, «fu chiesto ciò che pensava sul pagamento delle tasse». Chi glielo chiedeva - come talora chi chiede oggi alla Chiesa di schierarsi nelle grandi contese politiche, che hanno sempre un lato economico - non era in buona fede. «Quelli che lo interrogavano, ovviamente, volevano tendergli una trappola. Volevano costringerlo a prendere posizione nel dibattito politico infuocato sulla dominazione romana nella terra di Israele. E tuttavia c?era in gioco ancora di più: se Gesù era realmente il Messia atteso, allora sicuramente si sarebbe opposto ai dominatori romani. Pertanto la domanda era calcolata per smascherarlo o come una minaccia per il regime o come un impostore».

Come sappiamo, Gesù risponde: «Rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Ma la risposta va capita bene. Gesù non dice che il problema delle tasse non gli interessa, o che è estraneo alla sua missione che sarebbe puramente spirituale. «La risposta di Gesù porta abilmente la questione ad un livello superiore». Egli non nega affatto che la sua regalità e il suo dominio si estendono a tutte le realtà che interessano l'uomo, dunque anche all'economia. Solo che «il regno che Gesù veniva ad instaurare era di una dimensione assolutamente superiore» rispetto all'impero romano, alle sue tasse e ai suoi esattori, e anche rispetto a quegli ebrei anti-romani che le tasse non volevano pagarle.

La stessa nascita del Signore - il Pontefice riprende qui un tema del suo libro «L'infanzia di Gesù» - testimonia questa sua regalità superiore. Gesù nasce «durante un "censimento del mondo intero", voluto da Cesare Augusto [63 a.C.-14 d.C.], l'imperatore famoso per aver portato la Pax Romana in tutte le terre sottoposte al dominio romano». Il Signore non viene a contestare i vantaggi della Pax Romana, che esistevano, né a contestare ai Romani i suoi limiti, anch'essi presenti. Ma «questo bambino, nato in un oscuro e distante angolo dell'impero, stava per offrire al mondo una pace molto più grande, veramente universale nei suoi scopi e trascendente ogni limite di spazio e di tempo».

Quanto agli  Ebrei, «Gesù ci viene presentato come erede del re Davide, ma la liberazione che egli portò alla propria gente non riguardava il tenere a bada eserciti nemici; si trattava, invece, di vincere per sempre il peccato e la morte». La sua regalità è erede di quella davidica, ma è infinitamente più grande.
Come Gesù di fronte ai suoi capziosi interlocutori, anche il Papa non dice ai lettori del Financial Times se le tasse di oggi sono giuste. Vola più in alto, e ci assicura che una cosa sappiamo con certezza: che se il mondo si rifiuta di riconoscere «il destino trascendente di ogni essere umano», se si chiude per principio alla fede, allora le sue misure anche nel campo della politica e dell'economia potranno essere più o meno tecnicamente adeguate, ma non saranno mai una piena e vera realizzazione della giustizia.

Il Pontefice non propone nessuna evasione in una dimensione puramente spirituale. È precisamente il contrario: non ci sono campi, afferma, che sfuggono alla regalità di Gesù Cristo e dunque i cristiani si sforzano di portare il Vangelo «negli affari del mondo, sia che ciò avvenga nel Parlamento o nella Borsa». Sì,  cari lettori del Financial Times: Benedetto XVI vi assicura che Cristo regna anche sulla Borsa. E che i cristiani non si vergognano del loro «coinvolgimento nella politica e nell'economia», che considerano doveroso e necessario. 

Solo che questo coinvolgimento «trascende ogni forma di ideologia»: non è ideologico, perché la regalità di Cristo non è un'ideologia. Ecco allora lo specifico dell'impegno politico ed economico dei cristiani: «I cristiani combattono la povertà perché riconoscono la dignità suprema di ogni essere umano, creato a immagine di Dio e destinato alla vita eterna. I cristiani operano per una condivisione equa delle risorse della terra perché sono convinti che, quali amministratori della creazione di Dio, noi abbiamo il dovere di prenderci cura dei più deboli e dei più vulnerabili. I cristiani si oppongono all'avidità e allo sfruttamento nel convincimento che la generosità e un amore dimentico di sé, insegnati e vissuti da Gesù di Nazareth, sono la via che conduce alla pienezza della vita». La bussola dell'impegno dei cristiani è sempre la signoria di Gesù sul cosmo e su tutta la storia.

Ma il Papa sa bene che tra i lettori del Financial Times ci sono tanti non cristiani e non credenti. A costoro Benedetto XVI ricorda che esistono «fini condivisi» su cui tutti gli «uomini di buona volontà» possono convenire. Nel secondo volume del suo «Gesù di Nazaret» il Pontefice aveva spiegato che lo strumento attraverso cui Gesù regna sulla storia è il diritto naturale, che ogni uomo può riconoscere con la sua ragione. Il non credente chiamerà ordine morale e bene comune quello che per il cristiano è il frutto della regalità sociale di Gesù Cristo. Ma sui «fini condivisi» «una grande e fruttuosa collaborazione fra i cristiani e gli altri» è possibile. 

Con una condizione: gli «altri» devono rispettare la libertà religiosa dei cristiani, che «danno a Cesare soltanto quello che è di Cesare, ma non ciò che appartiene a Dio. Talvolta lungo la storia i cristiani non hanno potuto accondiscendere alle richieste fatte da Cesare. Dal culto dell'imperatore dell'antica Roma ai regimi totalitari del secolo appena trascorso, Cesare ha cercato di prendere il posto di Dio». Questo i cristiani non possono accettarlo. 

E i non cristiani e i non credenti dovrebbero capire che, difendendo la loro libertà di non inchinarsi allo Stato che usurpa i diritti di Dio, i cristiani difendono in realtà i diritti di tutti. «Quando i cristiani rifiutano di inchinarsi davanti ai falsi dèi proposti nei nostri tempi non è perché hanno una visione antiquata del mondo. Al contrario, ciò avviene perché sono liberi dai legami dell'ideologia e animati da una visione così nobile del destino umano, che non possono accettare compromessi con nulla che lo possa insidiare». 

Il tempo in cui un imperatore poteva presentare il suo potere come così grande da essere confuso con il potere di Dio è finito in una data e in un luogo preciso: il giorno della nascita di Gesù, a Betlemme.  «In Italia, molte scene di presepi sono adornate di rovine degli antichi edifici romani sullo sfondo. Ciò dimostra che la nascita del bambino Gesù segna la fine dell'antico ordine, il mondo pagano, nel quale le rivendicazioni di Cesare apparivano impossibili da sfidare. Adesso vi è un nuovo re». È Cristo, il re di pace, che ieri come oggi  «porta speranza a quanti sono vulnerabili nelle mutevoli fortune di un mondo precario. Dalla mangiatoia, Cristo ci chiama a vivere da cittadini del suo regno celeste, un regno che ogni persona di buona volontà può aiutare a costruire qui sulla terra».

Il 20 dicembre 2012 rimarrà nella storia del Financial Times come il giorno in cui i suoi lettori hanno trovato sul loro giornale la notizia più importante di tutte: la buona notizia della regalità di Gesù Cristo. Una regalità che non assomiglia a quelle «di» questo mondo, ma che si estende «su» questo mondo, annunciando la giustizia anche, come scrive il Papa,  nei Parlamenti e nelle Borse - e perfino sui giornali finanziari. (M. Introvigne)
Fonte: La nuova bussola quotidiana

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Quasi un’irruzione nel cuore della City. Inattesa e, di sicuro, sorprendente. Un commento a firma del Papa su un giornale, infatti, non s’era mai visto, e che accada per la prima volta sulle austere colonne del Financial Times, un tempio giornalistico del vorticoso mondo del business economico-finanziario globale, è qualcosa di davvero siderale. Fantascienza, si sarebbe detto, da chi e per chi conosce anche solo superficialmente che razza di club esclusivo siano la City e i suoi utenti, che ogni giorno aprono il quotidiano economico più letto e influente del mondo. Eppure, è successo. Il giornale ha chiesto un articolo al Papa, e questi ha risposto di sì. E l’articolo è stato pubblicato nella pagina dei commenti, a firma Pope Benedict XVI, sotto il rimando: L’autore è Vescovo di Roma e autore di «Jesus of Nazareth: The Infancy Narratives» (ossia il terzo volume della sua opera su Gesù, pubblicato due settimane fa).

Eppure, appunto, è successo. A dire molte cose, al di là dei contenuti stessi delle «lezioni di Natale nella stagione dell’austerità» che costituiscono il cuore dello scritto del Pontefice, un lineare, semplice spaccato del suo magistero, a partire da quel Rendi a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio con cui, scrive il Papa, Gesù mette «con finezza in guardia nei confronti sia della politicizzazione della religione sia della deificazione del potere temporale, come pure dell’instancabile ricerca della ricchezza». Ci dice, ancora una volta e, forse, prima di tutto, della modernità di questo ormai 85enne Pontefice che non si sottrae mai al confronto, anche di fronte a una richiesta irrituale come quella avanzata dal Financial Times.

Un’occasione che Benedetto XVI, nella sua insistita ricerca di dialogo a tutti i livelli, ha colto, vedendo in essa una possibilità ulteriore per parlare di Gesù e diffondere la sua parola; ossia, semplicemente, per adempiere la propria missione di evangelizzatore. Senza frontiere e senza barriere, psicologiche prima di tutte, come avrebbe potuto essere quella di 'firmare' un articolo nella pagine dei commenti di un pur autorevole quotidiano, senza chiedere o porre come condizione un 'trattamento' particolare – anche sulla homepage del FT online, il link del commento non è stato pubblicato con un rilievo speciale. Come dallo scorso 12 dicembre con il suo esordio su Twitter (che, giusto per la cronaca, ha già sgretolato ogni possibile record dei social network), Benedetto XVI è entrato in uno degli aeropaghi contemporanei come 'uno tra gli altri', instancabilmente proteso ad annunciare una Parola che non può, e non deve, avere timidezze né presunzioni. E perciò speciale, e subito svettante. Anche perché si è serenamente assunto i rischi, inevitabili, che questo suo coraggio comporta.

Ma il commento apparso sul FT ci dice anche qualche altra cosa. Qualcosa che ci rimanda indietro a più di due anni fa, a quel settembre del 2010 e al viaggio compiuto da Benedetto XVI in Gran Bretagna. Un viaggio che, nei commenti che lo precedettero (anche sullo stesso quotidiano che oggi lo ha ospitato) era destinato a un fallimento pressoché certo, e che si trasformò, al contrario, nel successo forse più clamoroso di questo Papa, letteralmente 'scoperto' in quell’occasione da una delle opinioni pubbliche più esigenti del mondo, e più refrattarie alle 'novità'. Papa Ratzinger sorprese i britannici, oltre ogni aspettiva, e li convinse. Merito, certo, dell’indimenticabile discorso tenuto alla Westminster Hall. Ma, soprattutto, merito della capacità di Benedetto XVI di rivolgersi all’intelligenza delle persone, mentre parla al loro cuore. (S. Mazza)
Fonte: Avvenire