lunedì 31 dicembre 2012

Femminicidio e familicidio

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Di Tommaso Scandroglio.
Tiene banco sui media il tema della violenza sulle donne: una donna viene uccisa ogni tre giorni dal proprio marito o ex marito, fidanzato o ex fidanzato, o dall’ammiratore rifiutato. Da più parti viene avanzata la proposta di istituire un reato ad hoc: quello di femminicidio. L’intento è sicuramente lodevole, vale a dire prestare particolare tutela alle donne, ma forse gli strumenti giuridici per assicurare questa tutela esistono già nel nostro ordinamento e ci pare siano più efficaci rispetto alla creazione di un nuovo reato specifico di omicidio. 

Se fosse introdotta questa figura di illecito non ci stracceremmo certo le vesti: sempre meglio uno strumento in più per difendere le donne che uno in meno. Solo che, l’omicidio di una donna per mano di un uomo che non accetta di essere rifiutato può essere già ora disciplinato con efficacia da alcune norme del Codice Penale. 

Ci riferiamo in specie allo strumento delle aggravanti. Sia quelle comuni previste dall’art. 61 cp: in particolare il n. 4 di questo articolo che fa riferimento alla crudeltà del delitto e il n. 11 che fa riferimento all’aver commesso il fatto nell’ambito di relazioni domestiche. Sia quelle specifiche: l’art. 576 cp indica alcune aggravanti particolari per l’omicidio tra cui il fatto che previamente all’omicidio si siano verificati atti persecutori (612 bis cp, il cosidetto stalking). Insomma su questa materia il Codice non presenta lacune.

Perché è da privilegiare questa normativa già vigente rispetto alla proposta di istituire un nuovo reato? Almeno per due motivi. In primo luogo in materia penale è assolutamente fondamentale prevedere condotte illecite sì tassative – cioè ben definite e non generiche – ma ad ampio spettro: in tal modo nessuna condotta illecita può sfuggire dall’ambito sanzionatorio previsto dalla norma penale. Es. l’art. 575 cp recita: “Chiunque cagiona la morte di un uomo…” e correttamente l’articolo non sta a specificare tutti i mezzi possibili e immaginabili per provocare la morte di una persona: con una pistola, con un coltello, annegandola, ecc. È quindi più agevole ed efficace tutelare la donna con uno strumento flessibile come quello delle circostanze aggravanti che meglio si adatta alle più disparate circostanze rispetto ad uno strumento creato ad hoc che però potrebbe peccare di rigidità. Detto in altri termini: più specifichiamo le fattispecie normative più si allargano le uscite di sicurezza per i malviventi. All’opposto più l’ombrello di tutela penale è ampio maggiori saranno le fattispecie concrete che potranno essere ricondotte sotto la protezione del Codice, seppur non previste in modo analitico da questo.

C’è un secondo motivo per guardare con una certa diffidenza all’istituzione del reato di femminicidio. Se apriamo alla specificazione sanzionatoria si innesca un processo infinito. Dovremmo varare anche norme penali che sanzionano l’omicidio di tutte le categorie deboli: del minorenne, dell’handicappato, del paziente in ospedale, del disoccupato, del lavoratore dipendente per mano del suo datore di lavoro, (del cattolico?), ecc. Chi rimarrebbe fuori si sentirebbe escluso e discriminato. Il Codice Penale tutela la persona umana nella sua interezza, sicuramente prestando attenzione anche alle particolari qualifiche e ruoli che questa eventualmente assume, ma il suo sguardo è – potremmo dire – il più possibile globale sull’uomo.

Inoltre ci permettiamo una sottolineatura di carattere più antropologico e culturale. Ci viene il sospetto che l’istituzione del reato di femmicidio sia l’esito perverso di un atteggiamento negativo verso l’istituto della famiglia. Sta passando l’idea che la famiglia sia luogo in cui si ingenera violenza e non ambito privilegiato dove fiorisce l’amore. E dunque il reato di femminicidio sarebbe lo strumento adatto per difendere il singolo dagli altri, quasi che per sua natura la famiglia fosse una giungla irta di pericoli. Invece l’ordinamento attualmente, almeno sulla carta, tutela la famiglia perché riconosce che in quel particolarissimo luogo il singolo trova protezione. Tutelando il matrimonio tutela indirettamente tutte le persone che vivono all’interno di quella relazione. Dietro invece il femmincidio pare che occhieggi un’ideologia individualista e anti-familista, dove il marito, il padre e i fratelli di loro – perché maschi – sono potenziali nemici da cui difendersi. In breve: il femminicidio potrebbe rivelarsi alla lunga una sofistica arma per il familicidio. 

I fatti però ci dicono altro: non sono i legami matrimoniali o familiari a generare violenza. Questa nasce quando tali legami vengono spezzati: “dal gennaio del 1994 all’aprile 2003, si sono registrati in Italia 854 omicidi maturati in seguito a divorzi, separazioni e cessazione di convivenze. Su un campione di 46.094 casi [di questo tipo] 39.919 (l’86,6%) hanno avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale” (F. Agnoli – M. Luscia, Chiesa, sesso e morale, Sugarco). Infatti se il lettore presta attenzione, i Tg e i giornali qualificano l’omicida quasi sempre come ex: ex marito, ex fidanzato, ex convivente.

Infine se vogliamo parlare di prevenzione della violenza sulle donne, questa non deve essere individuata solo nel rispetto della donna in quanto donna, bensì e prima di tutto nella donna in quanto moglie e madre. Cioè in quei due ruoli grazie ai quali per natura l’essere femminile diventa sempre più donna, sempre più se stessa. Valorizzare la figura di madre e moglie potrà così contribuire a fermare la mano assassina dell’uomo.