martedì 11 dicembre 2012

Il Concilio? È stata la cura, non la causa della crisi della Chiesa


Riporto da "Jesus" di questo mese, a firma di Enzo Bianchi.

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Negli ultimi anni si odono sempre di più voci ecclesiastiche che imputano all’evento concilio i mali
di cui ha sofferto e soffre ancora la chiesa: riduzione della pratica cultuale, mancanza di vocazioni
religiose e presbiterali con conseguente invecchiamento delle forze pastorali e delle figure
testimoniali, collocazione periferica delle voci culturali cattoliche... Questa accusa contrappone la
“crisi” a situazioni migliori e meno precarie negli ambienti cattolici che hanno rifiutato il concilio e
mostra di voler colpire anche il messaggio espresso dagli stessi testi conciliari. Eppure ci appare
un’accusa non munita di discernimento.
È vero, la crisi si è manifestata negli anni della realizzazione del concilio, ma non è stata indotta da
quell’evento bensì dalla rivoluzione culturale antropologica avvenuta alla fine degli anni sessanta
nei confronti della quale, anzi, il concilio ha rappresentato già un avvio di risposta profetica. Con
ogni probabilità, se il concilio non avesse iniziato a ridare dinamica alla vita della chiesa, data la
stagnazione che durava da decenni, la ricaduta di quello sconvolgimento epocale avrebbe pesato
molto di più. Quelli che imputano al concilio la crisi, dovrebbero domandarsi come mai altre chiese
che non hanno avuto un concilio – come la comunione anglicana, la chiesa ortodossa greca, diverse
chiese della riforma – si trovano in situazioni più critiche di quella della chiesa cattolica. La
percentuale di coloro che vivono e celebrano alla domenica la propria vocazione battesimale in
quelle chiese è inferiore a quella riscontrabile nei paesi europei di tradizione cattolica.
In verità, il volto della chiesa è mutato in questi cinquant’anni e molte sono le positività emerse da
questo mutamento. Vogliamo provare a delinearle? Innanzitutto, ed è l’aspetto maggiormente
decisivo e irreversibile, i cattolici oggi conoscono il vangelo molto più di ieri e comprendono
meglio ciò che è la grande tradizione vivente della chiesa. Attraverso la liturgia pregata nella loro
lingua e nell’ascolto della Parola proclamata vengono plasmati, domenica dopo domenica, come
discepoli del Signore Gesù: sono in minor numero come partecipanti alla messa domenicale, ma la
loro consapevolezza di dover ascoltare il vangelo per conoscere e amare il Signore si è molto
accresciuta. Un’altra vistosa positività è la partecipazione dei cristiani ai movimenti di solidarietà,
ai numerosi e multiformi gruppi che sorgono per fronteggiare i bisogni molteplici presenti nella vita
sociale: attenzione agli stranieri, forme di carità concreta e quotidiana verso i più deboli, sostegno ai
disabili... sono impegni in cui lo spirito evangelico è ispirante e di grande aiuto ed è capace di
diffondersi e divenire sempre più credibile anche in mezzo a uomini e donne non cristiani. E come
non rendersi conto che la vita ecclesiale è percepita maggiormente come partecipazione che non
come appartenenza identitaria? La parrocchia è veramente di tutti quelli che desiderano essere
comunità del Signore e in essa l’impegno personale non solo è possibile, ma è riconosciuto come
facente parte della statura del cristiano maturo adulto. Non mi pare serio ignorare queste positività e
denunciare solo le inadempienze ecclesiali, presenti sì, e a volte anche gravi – come può vivere una
comunità cristiana senza il presbitero e dunque senza eucarestia? – ma spiegabili non imputandole
al concilio e ai papi che lo hanno presieduto, bensì a quel cambio antropologico che ha investito
tutto il mondo occidentale. Oggi, a cinquant’anni dal concilio, occorre dire chiaramente che esso
attende ancora la realizzazione: ci sono riforme ancora da attuare nell’esercizio dell’autorità, quale
la sinodalità; c’è un riconoscimento della coscienza che deve ancora diventare esercizio quotidiano
nel popolo cristiano; c’è una riforma liturgica da portare a compimento... Ma non si ripeterà mai
abbastanza che un concilio come il Vaticano II ha voluto e suscitato una maggior fedeltà al vangelo
da parte dei cristiani e della chiesa. Un concilio che non ha voluto combattere qualcuno o qualche
idea, che non ha cercato di contrapporsi ostilmente a qualche prospettiva forgiata dagli uomini. Un
concilio pensato, nato, voluto e guidato dai papi e dai padri conciliari per una riforma della chiesa in
senso di più fedele aderenza alle esigenze evangeliche. È quanto continua a ribadire anche
Benedetto XVI: definendo il Vaticano II un concilio di riforma, il papa insiste sul fatto che occorre
mutare la “forma” della chiesa per renderla ogni giorno più fedele al suo Signore.