lunedì 3 dicembre 2012

Un'eredità da non disperdere




Riporto da  “Aggiornamenti sociali” del dicembre 2012, di Bartolomeo Sorge SJ
* * *
Più che celebrare la memoria del cardinal Martini, è importante raccoglierne l’insegnamento, in
modo che il suo retaggio non vada disperso ma continui a operare anche dopo la sua morte. Il
fatto che egli ci abbia lasciati alla vigilia del 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II
rende ancora più significativa la sua eredità personale, ecclesiale e civile, che – come vedremo –
coincide pienamente con quella del Concilio Vaticano II.

L’eredità personale

Non c’è dubbio che il primato della Parola di Dio sia la prima grande eredità del Concilio. Infatti,
la riscoperta della Sacra Scrittura è all’origine di tutto l’“aggiornamento” da esso promosso. Tanto
che, a cinquant’anni di distanza, si può ben dire, senza temere smentite, che il documento
conciliare più importante non è né la costituzione dogmatica Lumen gentium, né quella pastorale
Gaudium et spes, bensì la costituzione dogmatica Dei Verbum. Nello stesso tempo, è noto a tutti
che l’eredità principale del card. Martini sta appunto nell’amore appassionato alla Sacra
Scrittura. A fondamento della libertà interiore, della parresia evangelica e della lungimiranza che
hanno contraddistinto la sua personalità, si ritrova, come per il Concilio, l’amore alla Bibbia.
Martini non è stato solo un testimone illuminato della Parola di Dio nella sua vita personale di
sacerdote e di studioso, ma l’ispirazione biblica ha segnato profondamente tutta la sua
straordinaria attività. In fondo, il vero “guaio” del card. Martini sta tutto qui: meditando
costantemente la Parola di Dio, egli ha finito per guardare il mondo, la storia e i problemi umani
attraverso gli occhi stessi di Dio. Lo testimonia la frase che egli ha voluto scolpita sulla sua pietra
tombale: «Lampada per i miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino» (Salmo 118, 105).
Non è dunque un caso se, appena giunto a Milano, la sua prima iniziativa fu quella di istituire la
Scuola della Parola, intesa non come fredda accademia di esegesi, ma come calda esperienza di
vita. Lo scopo – spiegò egli stesso – fu quello di fare rivivere ai cristiani di oggi e specialmente ai
giovani «quell’esperienza del fuoco nel cuore che fecero i due discepoli sulla strada di Emmaus»; e
aggiungeva, fondandosi sulla sua stessa esperienza, che egli considerava la Bibbia «letta e pregata da
soli, nei gruppi e nelle comunità», in particolare dai giovani, come «il libro del futuro» (2002, 9).
Si comprendono perciò le parole dette al padre Georg Sporschill nell’ultima intervista, pochi
giorni prima di morire, destinata a rimanere il suo testamento spirituale: «Il Concilio Vaticano II ha
restituito la Bibbia ai cattolici [ ... ]. Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di
coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali
con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti
[ ... ]. Né il clero, né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole
esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti»
(Martini 2012).
In altre parole – spiega Martini – solo una Chiesa che, alla luce della Bibbia, guarda il mondo
con gli occhi di Dio e “pensa in grande”, con i pensieri di Dio, può generare quei cristiani liberi,
necessari perché la Chiesa e il mondo si rinnovino: «uomini che siano liberi e più vicini al
prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da
noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione» (ivi).
Solo una Chiesa che “pensi in grande”, come pensa Dio, può far rinascere la fede e
l’entusiasmo in tanti cristiani spenti e delusi. «Io vedo nella Chiesa di oggi – commenta Martini
amaramente – così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza.
Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? [ ... ]
Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi
ovunque» (ivi).
Solo una Chiesa che guarda il mondo con gli occhi di Dio e pensa la storia con i pensieri di
Dio, come insegna la Bibbia, può trovare il coraggio di condurre a termine l’“aggiornamento”
iniziato dal Concilio. Infatti, per riprendere con coraggio il cammino di rinnovamento, che oggi
appare fermo e interrotto, «la Chiesa deve avere la forza di riconoscere i propri errori e deve
percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli
scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla
sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti
per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta
ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità
di riferimento o solo una caricatura nei media?» (ivi).
Occorre dunque imparare a “pensare in modo aperto”, in modo biblico. Infatti – insiste Martini
– «non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi non
consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio» (2008, 20). Il pericolo nel quale si
può incorrere (anche nella Chiesa) è quello di lasciarsi condizionare dalla “mentalità ristretta”
dell’individualismo imperante, dalla paura del diverso e dall’indifferenza per i bisogni dell’altro,
preoccupati soltanto di guardare a se stessi, fino a fare di se stessi un assoluto. La Bibbia, invece,
insegna ad amare gli stranieri, ad aiutare i deboli, a soccorrere e servire in modi diversi tutti gli
uomini. Secondo la Bibbia, neppure le istituzioni, comprese quelle ecclesiali, sono un assoluto; certo,
ne abbiamo bisogno, ma Dio non si può ridurre a esse: «Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di
là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo [ ... ]. Per proteggere questa immensità [di Dio]
non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia» (ivi, 21).
In conclusione, se «dobbiamo aiutare il mondo a trovare una direzione [ ... ], [se] dobbiamo
decidere dove la società debba andare», non possiamo fare a meno che «pensare in modo aperto»,
in modo biblico; altrimenti si rimane asserviti alle mode culturali del momento e a tendenze
ideologiche, che rendono incapaci di discernimento e di iniziative efficaci (cfr ivi). L’amore alla
Parola di Dio dunque è la prima eredità, la più personale, che l’Arcivescovo di Milano ci ha
lasciato, in piena coincidenza con il retaggio del Concilio.

L’eredità ecclesiale

Accanto al primato della Parola di Dio, il Concilio ha lasciato un’altra eredità, di natura
ecclesiale: il dialogo fraterno tra tutte le componenti della comunità cristiana, nello spirito della
collegialità e della sinodalità.
Il card. Martini ha fatto suo questo orientamento del Concilio e si è speso con coraggio per
attuarlo. Esso – scrive – fu accolto e seguito con tanta speranza nei primi anni del post-Concilio;
oggi, però, l’entusiasmo si è spento e non sono pochi i cristiani che non credono più
all’“aggiornamento” della Chiesa su questo punto nella sua vita interna e a livello ecumenico. «Posso
ben comprendere le loro preoccupazioni – riflette il card. Martini – se solo penso a quanti in questo
periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la Chiesa sia frequentata da un numero sempre
minore di fedeli e a come nella società e anche nella Chiesa sia emersa una sconsiderata libertà»
(2008, 103). Tuttavia, i limiti e gli errori del primo post-Concilio non tolgono nulla all’importanza di
questa eredità ecclesiale. Nonostante tutto – conclude l’Arcivescovo – «dobbiamo guardare avanti.
[...] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio» (ivi).
Perciò, reagendo al clima di sfiducia e di rassegnazione che oggi blocca molti cristiani, Martini
ha operato intensamente perché crescesse l’amore al dialogo, sia all’interno della Chiesa, sia
tra le Chiese sorelle, fomentando come ha potuto lo “spirito collegiale” auspicato dal
Sinodo dei Vescovi d’Europa. Martini, di per sé, non chiedeva un Concilio Vaticano III, ma
proponeva la convocazione, di tempo in tempo, di assemblee sinodali, rappresentative di tutto
l’episcopato, per affrontare i nodi che il Concilio non aveva risolto, anche perché molti di essi
sono nati dopo. Egli stesso fece una lista delle principali questioni che attendono ancora di essere
chiarite: la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune
responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i
rapporti con le Chiese sorelle dell’ortodossia e, più in generale, il bisogno di ravvivare la speranza
ecumenica, il rapporto tra democrazia e valori, tra leggi civili e legge morale. E concludeva: ci vuole
uno strumento collegiale, universale e autorevole, dove questi temi si possano affrontare con
libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene
comune della Chiesa e dell’umanità intera.
Nello stesso tempo, accanto al dialogo interno l’eredità ecclesiale di Martini comprende pure
l’esortazione ad accogliere con fede la purificazione a cui oggi è sottoposta la Sposa di Cristo: il
fatto cioè che la Chiesa si ritrovi in minoranza ed emarginata nella vita sociale, politica e culturale.
Non ci dobbiamo scoraggiare, ripeteva. Infatti, la condizione nativa della Chiesa è di essere un
“piccolo gregge”; la sua missione è di essere lievito e sale della società, piccolo seme di nuovi
germogli. È questo un compito in apparenza modesto, ma di fatto molto esigente e necessario.
Martini, nello sforzo di aiutare la Chiesa a riprendersi, arriva a concedere che la nostalgia del
vecchio “regime di cristianità”, tuttora presente in diverse frange della comunità ecclesiale, non
manca di qualche giustificazione. Infatti – dice – «il voler essere a ogni costo, pur nelle circostanze
attuali, una forza rilevante nel quadro politico della società, operante sullo stesso piano delle altre
forze e in concomitanza e concorrenza con loro, ha una sua tradizione antica di secoli, che ha
contribuito a forgiare la società europea, con i suoi valori e le sue conquiste. È anche attraverso
questi modi di presenza, giustificati dalle condizioni e necessità di altre epoche, che un certo
patrimonio di valori cristiani è diventato dote civile della società» (1999, 160 s.).
Ciò detto – aggiunge –, bisogna però prendere atto che il mondo è cambiato e che le
acquisizioni teologiche e pastorali del Concilio Vaticano II hanno posto fine per sempre al
“regime di cristianità”, non solo sul piano storico, ma anche su quello teologico. Il
superamento definitivo della “cristianità”, operato dal Concilio, non è un male, ma un bene, perché
«una Chiesa che è conscia della sua “minorità” ha più vivo il senso della testimonianza, coglie
meglio le differenze in sé e attorno a sé, è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso, vive
con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le Chiese locali» (ivi, 161).
Ecco perché la Chiesa – per usare le parole di Paolo VI – deve «essere pronta a sostenere il
dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, dentro e fuori l’ambito suo proprio. Nessuno è
estraneo al suo amore. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non
voglia egli stesso esserlo [ ... ]. Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo,
noi possiamo comunicare con lui» (Ecclesiam suam, n. 192). In altre parole, il dialogo intraecclesiale
e il dialogo ecumenico non sono fine a se stessi, ma devono aprirsi al dialogo con il mondo.

L’eredità civile

Il dialogo della Chiesa con il mondo è, dunque, l’altra grande eredità del Concilio Vaticano II,
che il card. Martini ha condiviso pienamente e ha fatto sua.
La necessità del dialogo ad extra – spiega il Concilio – non nasce solo dalla necessità di
venire incontro a un bisogno evidente del nostro tempo, all’interno dell’umanità globalizzata. È
una istanza intrinseca alla natura stessa del rapporto religioso tra Dio e l’uomo. «La
rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con
l’umanità – commenta papa Montini –, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di
Dio si esprime nell’Incarnazione e quindi nel Vangelo. [ ... ] Bisogna che noi abbiamo sempre
presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico [ ... ], per comprendere quale rapporto noi,
cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità» (Ecclesiam suam,
n. 193 s.). Proprio per questo, i problemi della liberazione e della promozione umana non sono
estranei alla missione della Chiesa: «Non si salva il mondo dal di fuori; occorre come il Verbo di
Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si
vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegi o
diaframma di linguaggio incomprensibile» (ivi, n. 198).
Con queste parole, dette all’inizio della seconda sessione del Concilio, Paolo VI veniva a rafforzare
il passaggio centrale del discorso di apertura, nel quale Giovanni XXIII spiegava le ragioni che
l’avevano spinto a convocarlo. Lo scopo – disse papa Roncalli l’11 ottobre 1962 – non era, come
per i 20 concili precedenti, né la condanna dell’una o dell’altra eresia, né la definizione dell’una o
dell’altra verità di fede, né la preoccupazione di far fronte a movimenti scismatici. Il Vaticano II è
stato convocato al fine di ridire la natura e la missione della Chiesa e quasi a ridefinire
l’identità cristiana, presa nel suo insieme e nei suoi aspetti principali, nel contesto storico e culturale
dell’umanità globalizzata 1. Rappresenta, quindi, un unicum nella storia dei concili. La Chiesa,
all’interno di un mondo profondamente cambiato, non poteva non interrogarsi su come annunziare il
Vangelo a un’umanità globalizzata e unificata, ma nello stesso tempo multietnica, multiculturale e
multireligiosa. Come dialogare con un mondo per molti aspetti postcristiano, di cui, nonostante
tutto, la Chiesa condivide la sorte, le speranze e i problemi?
A questo si ricollega l’eredità che Martini ci ha lasciato del dialogo in campo civile, culturale e
politico. Nella nuova situazione secolarizzata del mondo – dice l’Arcivescovo di Milano –, non basta
proclamare i principi assoluti, discendenti dal patrimonio di fede, riguardanti la vita, la famiglia e
altri valori fondamentali. La Chiesa deve illuminare e formare le coscienze. Quindi, non deve
temere di dare un giudizio profetico circa la maggiore o minore coerenza con il Vangelo delle
differenti culture o dei programmi politici che oggi si confrontano tra loro: «non è dunque questo
[per la Chiesa] un tempo di indifferenza, di silenzio, e neppure di distaccata neutralità o di
tranquilla equidistanza. Non basta dire che non si è né l’uno né l’altro, per essere a posto [ ...]. È
questo un tempo in cui occorre aiutare a discernere la qualità morale insita non solo nelle singole scelte
politiche, bensì anche nel modo generale di farle e nella concezione dell’agire politico che esse
implicano. Non è in gioco la libertà della Chiesa, è in gioco la libertà dell’uomo; non è in gioco il
futuro della Chiesa, è in gioco il futuro della democrazia» (Martini 1996, 171).
La difficoltà di un dialogo franco e aperto con il mondo e con la cultura – puntualizza Martini –
viene anche dal fatto che le categorie filosofiche e teologiche neoscolastiche, usate ancora largamente
dalla Chiesa, si rivelano insufficienti per parlare con gli uomini di oggi. Anche il metodo con cui
affrontare i nuovi problemi va ripensato. Come fa la Bibbia, occorre enunciare con chiarezza i
grandi principi, ma riferirsi poi alla responsabilità dei singoli per accompagnarli, nel rispetto
della loro libertà di coscienza, verso la verità. Il Cardinale è convinto che la valorizzazione della
responsabilità della coscienza personale faciliterà il dialogo e la mutua comprensione con le diverse
culture. È molto diverso intendere la nuova evangelizzazione come mero adeguamento della verità
rivelata (intesa come un sistema dottrinale astorico) al linguaggio e ai problemi del mondo moderno;
oppure intenderla nel senso biblico del “pensare in modo aperto”. Questo consentirà, da un lato, di
conoscere meglio la verità rivelata, dall’altro, di ampliare gli orizzonti e di facilitare il dialogo con la
cultura dei nostri giorni. Il Vangelo, infatti, fa conoscere meglio la storia, e la storia fa conoscere
meglio il Vangelo.

Qui possiamo notare – tra parentesi – che le “novità” di alcune prese di posizione di Martini,
sulle quali tanto hanno insistito i mass media, non stanno nel supposto tentativo di prendere le
distanze dalle posizioni ufficiali della Chiesa, bensì nel ripensarle prendendo a punto di riferimento
la Sacra Scrittura, più che la teologia scolastica, e renderle così meglio comprensibili alla cultura
moderna.
Martini ci ha lasciato un esempio convincente di questo modo nuovo (biblico) di dialogare con
il mondo contemporaneo, istituendo la Cattedra dei non credenti. Questa iniziativa nacque dalla
medesima convinzione che stava all’origine della Scuola della Parola, dal fatto cioè che tutti,
credenti e non credenti, siamo alla ricerca della verità e non possiamo dare nulla per scontato.
Ogni credente porta in sé il germe della non credenza e ogni non credente porta in sé il germe
della fede. È possibile, dunque, un incontro tra credenti e non credenti, purché gli uni e gli altri
siano “pensanti”.
È il criterio che Martini applica anche alla vita sociale e politica. Non basta proclamare i
cosiddetti “valori non negoziabili” ed esigere che la legislazione li promuova, «se non ci si fa carico
di una ricerca paziente di soluzioni pratiche che tengano conto anche di chi ha concezioni diverse» (ivi,
174), se non si cercano strade politiche condivise. «Questo della mediazione antropologico-etica» –
precisa Martini – è forse uno dei lavori più importanti e urgenti per i cristiani impegnati in politica,
ed è uno dei contributi più fecondi che le comunità cristiane possono dare alla società civile oggi»; i
principi della fede, lungi dal trasformarsi in motivo di conflitto e di contrapposizione all’interno
della convivenza civile, «devono risultare vivibili e appetibili anche per gli altri, nel maggior
consenso e concordia possibili» (ivi).


È la natura stessa dell’arte politica a non consentire che i cosiddetti “valori non negoziabili” si
traducano immediatamente in leggi, ma a imporre una paziente gradualità, condizionata
dall’evoluzione del consenso e del costume della gente. «Occorre – spiega Martini – distinguere
innanzi tutto tra principi etici e azione politica. I principi etici sono assoluti e immutabili.
L’azione politica, che pure deve ispirarsi ai principi etici, non consiste di per sé nella
realizzazione immediata dei principi etici assoluti, ma nella realizzazione del bene comune
concretamente possibile in una determinata situazione. Nel quadro di un ordinamento
democratico, poi, il bene comune viene ricercato e promosso mediante i mezzi del consenso e
della convergenza politica. Nel fare ciò non è mai possibile ammettere un male morale. Può però
accadere che, in concreto – quando non sia possibile ottenere di più, proprio in forza del principio
della ricerca del miglior bene comune concretamente possibile – si debba o sia opportuno
accettare un bene minore o tollerare un male rispetto a un male maggiore» (Martini 1998, 715). Più
che di accettazione del male minore (che rimane pur sempre un male) si deve parlare dunque del
maggior bene possibile: «Vale più la proposta di cammini positivi, pur se graduali, che non la
chiusura su dei “no” che, alla lunga, rimangono sterili [ ... ]. Non ogni lentezza nel procedere è
necessariamente un cedimento. C’è pure il rischio che, pretendendo l’ottimo, si lasci regredire la
situazione a livelli sempre meno umani» (Martini 1996, 174).
Occorre, dunque, ripensare il compito dell’etica pubblica. «Sembra invece che, nell’accettare le
leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la
legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la
verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei
confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito dell’etica politica. Tale
compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito all’interno della società»
(Martini 1999, 164) 2.

Per questo occorre distinguere tra il compito della Chiesa in quanto tale e il compito dei fedeli
laici. «Il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della
ragione e al risveglio delle forze morali»; nello stesso tempo, però, accanto al contributo
“mediato”, proprio della gerarchia, è compito dei fedeli laici operare “immediatamente” per un
giusto ordine nella società: «Come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare in prima persona
alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita
sociale, insieme con tutti gli altri cittadini, secondo le competenze di ognuno e sotto la propria
autonoma responsabilità» (Deus caritas est, n. 29).
È evidente a tutti, 50 anni dopo l’inizio del Concilio, che su questo punto rimane ancora
molta strada da fare. Siamo fermi e in ritardo. Il giudizio del card. Martini è sferzante: «La
Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di
coraggio? Comunque la fede è fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio [ ... ]. Solo
l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore» (Martini 2012) 3. Come si vede, è notevole la
coincidenza tra l’eredità del Concilio e quella del card. Martini. Perciò assume un significato
particolare la domanda finale con cui il Cardinale conclude la sua intervista-testamento, chiedendo
all’intervistatore: «che cosa puoi fare tu per la Chiesa?» (ivi). Con questa semplice domanda rivolta
chiaramente a tutti, il cardinal Martini consegna a ciascuno di noi l’eredità sua e del Concilio. Ora
tocca a noi fare in modo che essa non vada dispersa, ma viva e sia feconda di frutti.

* * *

1 «Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa, in ripetizione
diffusa dell'insegnamento dei Padri e dei Teologi antichi e moderni [...]. Per questo non occorreva un Concilio [...], lo spirito cristiano, cattolico ed
apostolico del mondo intero attende un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze; è necessario che questa
dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo»
(Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, 1962, 54*s.).

2 È quanto insegna anche la dottrina sociale della Chiesa: «Il fedele laico è chiamato a individuare, nelle concrete situazioni politiche, i
passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale. [ ... ] la fede non ha mai preteso di
imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici, consapevole che la dimensione storica in cui l’uomo vive impone di verificare la
presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli» (CDSC 1994, n. 568).

3 A conferma che «la Chiesa è rimasta indietro di 200 anni» basti citare la recente sentenza con cui Paolo Gabriele è stato condannato per
aver divulgato documenti riservati del Papa: «In nome di Sua Santità Benedetto XVI gloriosamente regnante, il Tribunale, invocata la Santissima
Trinità – ha scandito il Presidente, Giuseppe Della Torre –— [ ... ] condanna [l'imputato] alla pena di anni tre di reclusione» (cfr il testo
integrale in Avvenire, 7 ottobre 2012). Evidentemente questa formula era appropriata 200 anni fa, quando «gloriosamente regnante» era
Pio IX, l'ultimo papa re. Non meno stupefacente è il fatto che questo ritorno allo stile di 200 anni fa non abbia suscitato nessuna reazione.

Magistero
Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, 2005, in <www.vatican.va>.
CDSC 1994, Pontificio Consiglio della giusti zia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano.
Giovanni XXIII, discorso d’apertura del Concilio, Gaudet Mater Ecclesia (11 ottobre 1962), in Enchiridion Vaticanum, 1, EDB, Bologna.
Paolo VI, enciclica Ecclesiam suam, 1964, in <www.vatican.va>.
Testi di Carlo Maria Martini
Martini C. M. (1996), «C’è un tempo per parlare e un tempo per tacere. Discorso di S. Ambrogio (1995)», in Aggiornamenti Sociali, 2, 171-
176.
Martini C. M. (1998), «Alcune riflessioni sulla nota “Le comunità cristiane educano al sociale e al politico”», in Aggiornamenti Sociali, 9-10,
713-718.
— (1999), «Il seme, il lievito e il piccolo gregge. Discorso di S. Ambrogio (1998)», in Aggiornamenti Sociali, 2, 155-170.
— (2002), La Parola di Dio nel futuro dell’Europa, Incontro di studio su «Cristianesimo e democrazia nel futuro dell’Europa», Camaldoli, 12-15
luglio 2002, in Il Regno, supplemento al n. 4 del 15 febbraio 2003.
— (2008), Conversazioni notturne a Gerusalemme sul rischio della fede, Mondadori, Milano.
— (2012), «L’ultima intervista. “Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?”», a cura di G. Sporschill e F. Radice
Confalonieri, in Corriere della Sera, 1 settembre 2012.