sabato 8 giugno 2013

Desiderare il papato...


la Repubblica, 8 giugno 2013
di ENZO BIANCHI
     “Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro”, così scriveva san Paolo al discepolo Timoteo. Ma allora episcopato significava esporsi a diffidenze e ostilità da parte della società, mettersi al servizio di povere comunità emarginate e a volte perseguitate, porre al proprio orizzonte l’eventualità per nulla remota del martirio. Da tempo la situazione è profondamente mutata e oggi l’episcopato appare una carica ricca di privilegi, per cui le parole usate papa Francesco – “Dio non benedice chi vuole diventare papa!” – possono suonare molto forti. E forti lo sono, esigenti, come esigente è il vangelo. Papa Francesco non perde occasione per riaffermare in modo efficace la sua preoccupazione che nella chiesa prevalga una visione mondana del potere, un carrierismo e una ricerca di vantaggi e privilegi che mal si addicono ai discepoli di un Signore condannato dal potere civile e religioso del suo tempo. Papa Francesco non teme di apparire controcorrente, di usare parole poco diplomatiche, di forzare i toni per salvaguardare al ministero episcopale la sua dimensione fondamentale di servizio reso ai fedeli, a cominciare dai più poveri, dai piccoli, dagli indifesi.    
Il “nobile lavoro” di cui parlava san Paolo è allora il ministero di chi fa della sollecitudine per tutte le comunità cristiane il proprio assillo quotidiano, di chi si mette a lavare i piedi ai propri fratelli con il gesto tipico dello schiavo, di chi si china sulla pecora ferita per caricarsela sulle spalle, di chi è pronto a dare la vita per difendere il proprio gregge, come nella storia hanno fatto molti vescovi, fino a mons. Oscar Romero. Allora capiamo meglio che chi guida la chiesa di Roma, fecondata dal sangue dei martiri Pietro e Paolo, possa dire che se uno vuole diventare papa, umanamente parlando non vuole bene a se stesso, perché sa che se vive quel servizio secondo il vangelo va incontro a incomprensioni, sofferenze e tribolazioni. E, d’altro canto, Dio non benedice chi “vuole” diventare papa perché non può benedire chi cerca il potere e la gloria mondani, propri dei grandi di questo mondo che spadroneggiano sui sudditi e amano farsi chiamare benefattori.. “Tra voi non è così!”, afferma Gesù, mostrando con la sua vita donata fino alla fine la natura e la qualità della comunione vissuta con i fratelli. Davvero nella chiesa l’autorità non può mai essere potere ma soltanto servizio

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Il commento che segue è di M. Introvigne.

Ieri Papa Francesco ha ricevuto in udienza gli educatori, alunni ed ex alunni delle scuole dei Gesuiti in Italia e in Albania, in un incontro che ha voluto fissare nel giorno della festa del Sacro Cuore, particolarmente cara alla Compagnia di Gesù. Nel discorso, e nel dialogo successivo a domande e risposte, il Papa si è rivolto agli alunni, esorandoli alla virtù della magnanimità, e agli educatori, ricordando che educare non è un mestiere ma una missione, e che intesa come semplice mestiere l’educazione fallisce. Il dialogo ha avuto momenti molto personali.

Francesco ha affermato che ««una persona che vuole fare il Papa Dio non la benedice - io non ho voluto fare il Papa», e che vive a Santa Marta non per sfuggire alla presunta ricchezza dell’appartamento pontificio, che in realtà «non è tanto lussuoso», ma – ha detto scherzando – «per motivi psichiatrici», per sfuggire al rischio della claustrofobia e del senso di isolamento: «ho necessità di vivere tra la gente. Se io vivessi solo, forse un po' isolato, non mi farebbe bene».
Il discorso ha approfondito il tema dell’educazione e della scuola cattolica. Il Papa ha anzitutto evocato sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), il fondatore dei Gesuiti, e le origini – che risalgono all’autunno del 1537 – del nome «Compagnia di Gesù»: «un nome impegnativo, che voleva indicare un rapporto di strettissima amicizia, di affetto totale per Gesù di cui volevano seguire le orme». Non è solo una curiosità storica: «sant’Ignazio e i suoi compagni avevano capito che Gesù insegnava loro come vivere bene, come realizzare un’esistenza che abbia un senso profondo, che doni entusiasmo, gioia e speranza».

Così la domanda di sant’Ignazio su che nome dare al suo ordine per un allievo della scuola cattolica diventa: «perché andate a scuola?». Certamente ci sono diverse risposte vere, ma per il Pontefice ce n’è una più vera delle altre: «per imparare a vivere, per diventare uomini e donne adulti e maturi». Papa Francesco ha spiegato che se abbiamo imparato dalla scuola a vivere oppure no dipende da un «elemento principale [che] è imparare ad essere magnanimi». Oggi non si parla molto della magnanimità, «questa virtù del grande e del piccolo (Non coerceri maximo contineri minimo, divinum est), che ci fa guardare sempre l’orizzonte». Eppure essere magnanimi è indispensabili: «vuol dire avere il cuore grande, avere grandezza d’animo, vuol dire avere grandi ideali, il desiderio di compiere grandi cose per rispondere a ciò che Dio ci chiede, e proprio per questo compiere bene le cose di ogni giorno, tutte le azioni quotidiane, gli impegni, gli incontri con le persone; fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande aperto a Dio e agli altri».
La scuola cattolica, ha aggiunto il Papa, dovrebbe guidare alla magnanimità secondo due percorsi: la libertà e il servizio. «Anzitutto: siate persone libere!»: ma sulla libertà oggi la cultura dominante diffonde un equivoco.  «Forse si pensa che libertà sia fare tutto ciò che si vuole; oppure avventurarsi in esperienze-limite per provare l’ebbrezza e vincere la noia». Questa non è la vera libertà. «Libertà vuol dire saper riflettere su quello che facciamo, saper valutare ciò che è bene e ciò che è male, quelli che sono i comportamenti che fanno crescere, vuol dire scegliere sempre il bene. Noi siamo liberi per il bene». Francesco ha esortato i giovani all’esperienza difficile della vera libertà: «non abbiate paura di andare controcorrente, anche se non è facile! Essere liberi per scegliere sempre il bene è impegnativo, ma vi renderà persone che hanno la spina dorsale, che sanno affrontare la vita, persone con coraggio e pazienza (“parresia” e “ypomoné”)».

Il secondo percorso è il servizio, attraverso attività «che vi abituano a non chiudervi in voi stessi o nel vostro piccolo mondo, ma ad aprirvi agli altri». Si tratta certo delle attività caritative, ma non solo: nel dialogo con i giovani il Papa ha aggiunto che per un laico «la politica è una delle forme più alta della carità perché cerca il bene comune. I laici cristiani devono lavorare in politica». Rifiutare la politica con la scusa che è strutturalmente disonesta – ed è «facile dire: per colpa di quello: ma io cosa faccio?» – significa «giocare da Pilato, lavarsi le mani».
E si tratta anche dell’evangelizzazione: «andare fuori, uscire: uscire sempre per annunziare Gesù Cristo, e non rimanere un po’ chiusi nelle nostre strutture, tante volte strutture caduche». Uscendo per le strade del mondo c’è il rischio di cadere, ma «non bisogna avere paura di fallimenti e cadute, nell'arte di camminare quello che importa non è non cadere ma è non rimanere caduti. Se cadiamo, occorre alzarsi presto, alzarsi subito, e continuare a camminare».
Per «uscire» a evangelizzare – il verbo più caratteristico di Papa Francesco – e anche per prepararsi alla politica «è necessaria la formazione spirituale». Non è ammissibile che la scuola cattolica non faccia sentire «la presenza del Signore» nella vita degli allievi, non insegni a «leggere i segni di Dio» che si manifesta «attraverso i fatti del nostro tempo e della nostra esistenza di ogni giorno; sta a noi ascoltarlo».
La domanda se questo accade o no chiama in causa la responsabilità degli educatori della scuola cattolica, cui il Pontefice si è rivolto. «Educare non è un mestiere, ma un atteggiamento, un modo di essere; per educare bisogna uscire da se stessi e stare in mezzo ai giovani, accompagnarli nelle tappe della loro crescita mettendosi al loro fianco. Donate loro speranza, ottimismo per il loro cammino nel mondo. Insegnate a vedere la bellezza e la bontà della creazione e dell’uomo, che conserva sempre l’impronta del Creatore. Ma soprattutto siate testimoni con la vostra vita di quello che comunicate». Per educare occorre che gli insegnanti – Gesuiti o no, sacerdoti o laici – offrano anzitutto una testimonianza coerente di fedeltà alla Chiesa nella dottrina e nella vita. «Senza coerenza non è possibile educare!».

Nella loro storia recente i Gesuiti sono stati talora tentati di abbandonare l’educazione per dedicarsi ad altre forme di apostolato. È un errore, ha detto il Papa, occorre al contrario aumentare l’impegno in questo settore in un’epoca in cui la «sfida educativa» evocata da Benedetto XVI è diventata drammatica. «Le scuole sono uno strumento prezioso per dare un apporto al cammino della Chiesa e dell’intera società». Lo sforzo di educare, inoltre, non si ferma alla scuola e oggi può anche comprendere. «nuove forme di educazione non convenzionali», magari utilizzando le nuove tecnologie.

Sant’Ignazio ha tracciato la strada. Occorre educare, e anche apprendere, non con l’animo ristretto di chi mira al piccolo risultato o alla routine, ma – insegnava il santo – «con grande ánimo y liberalidad», cioè con magnanimità, e sempre «ad maiorem Dei gloriam», per la maggior gloria di Dio.