giovedì 26 settembre 2013

50 anni dopo.



Conferenza stampa per la presentazione delle Giornate Celebrative del 50° anniversario della pubblicazione dell’Enciclica Pacem in terris. Interventi

Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, si è svolta la conferenza stampa per la presentazione delle Giornate Celebrative del 50° anniversario della pubblicazione dell’Enciclica Pacem in terris, che si svolgono dal 2 al 4 ottobre 2013, e del volume “Il concetto di pace”, edito dalla LEV. Sono intervenuti alla Conferenza Stampa: l’Em.mo Card. Peter Kodwo Appiah Turkson, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace; S.E. Mons. Mario Toso, S.D.B., Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace; il Dott. Vittorio Alberti, Officiale del medesimo Pontificio Consiglio.  Di seguito gli interventi:
INTERVENTO DEL CARD. PETER KODWO APPIAH TURKSON
Abbiamo il piacere di presentare, questa mattina, l’imminente iniziativa con la quale il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha voluto richiamare l’attenzione sull’anniversario della pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris del Beato Giovanni XXIII, caduto quest’anno, l’11 aprile scorso.
Fedele alla missione affidatagli di “approfondire la dottrina sociale della Chiesa, impegnandosi perché essa sia largamente diffusa e venga tradotta in pratica presso i singoli e le comunità”, il Pontificio Consiglio ha organizzato tre giornate celebrative che non vogliono essere una semplice commemorazione del Documento. Si è inteso, infatti, promuovere una riflessione sull’attualità e sull’attualizzazione dei contenuti dell’enciclica con riferimento alle res novae. Al tempo stesso, si è voluto verificare la traduzione in pratica dei suoi fondamentali insegnamenti nell’ambito dei diritti umani, del bene comune, del bene comune globale e della politica, campi nei quali si gioca la convivenza pacifica fra i popoli e fra le nazioni. In effetti, per raggiungere la pace, Papa Giovanni, più che fare teorie sulla pace o sulla guerra, fa piuttosto appello all’uomo stesso e alla sua dignità.
In questa prospettiva si è cercato di articolare la riflessione in tre giornate che, seguendo dinamiche diverse, convergono su altrettanti nodi particolarmente significativi. 1. Il primo: la questione delle istituzioni politiche e delle politiche globali che si rivelano oramai indispensabili per affrontare le questioni globali. Già cinquant'anni fa, del resto, con lucidità e chiara preveggenza, la Pacem in terris constatava l’inadeguatezza degli Stati nazionali rispetto alla realizzazione del bene comune universale.
Per affrontare questo genere di problematiche, si è considerato che fosse necessario cominciare con l’esaminare il tema della riforma della più grande istituzione globale: l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Tema, questo, all’ordine del giorno da anni, se si pensa che da circa venti è iniziato il dibattito sulla riforma del Consiglio di Sicurezza. Il compito è stato affidato al Prof. Joseph Deiss, che ha avuto una esperienza diretta in questo ambito nel 2010, quando è stato Presidente di quella sessione dell’Assemblea generale. Di sicuro, per lo svolgimento di questo compito, deve essergli giovato l’essere stato, dal 2004 al 2006, Presidente della Confederazione Elvetica, una Nazione la cui coesione, pure innegabile, non si fonda certo su una stessa appartenenza linguistica e religiosa. Sempre nell’ambito delle grande istituzioni prenderà la parola, in quello stesso giorno, 3 ottobre, la Direttrice generale dell’UNESCO, Signora Irina Bokova, che affronterà più direttamente il tema della pace mettendo in luce come l’educazione, le scienze e la cultura, seppur declinate in modo diverso dai diversi popoli della terra, sono strumenti essenziali per costruire la pacifica convivenza della famiglia delle nazioni. Altre due questioni urgenti che, a causa del fenomeno della globalizzazione, hanno assunto dimensioni tali da esigere l’impegno e la cooperazione della comunità internazionale, sono quelle del lavoro, o piuttosto della disoccupazione, e della protezione dei diritti umani. Tali questioni saranno trattate da accademici di livello internazionale.
Si è pensato, poi, per onorare l’aspetto esperienziale, di far conoscere, interpellando esperti in materia, come si svolge la collaborazione internazionale all’interno delle grandi istituzioni politiche regionali: il Consiglio d’Europa, l’Unione Africana, la Lega degli Stati Arabi, l’Organizzazione degli Stati Americani e l’organizzazione per il Dialogo per la Cooperazione Asiatica. A tali interventi si affiancheranno quelli di esponenti del mondo ecclesiale che introdurranno i partecipanti alla giornata del 3 ottobre, alle istituzioni che, nella Chiesa cattolica, riuniscono le conferenze episcopali nazionali in organismi di dimensioni continentali. 2. Le nuove frontiere della pace costituiscono il secondo intricato nodo che il Pontificio Consiglio vuole sottoporre alla riflessione. Ciò avverrà durante la terza giornata celebrativa, il 4 ottobre. L’attualizzazione dei contenuti della Pacem in terris con riferimento alle res novae, parte, infatti, dalla considerazione che la partita oggi si gioca in campi notevolmente diversi rispetto a quelli di cinquant’anni fa, epoca in cui la conflittualità, non sempre solo latente, era incarnata, essenzialmente, nella contrapposizione dei due blocchi impegnati nella “guerra fredda”. Si è così pensato di individuare in alcune questioni le sfide che appaiono attualmente essere più pericolose per il mantenimento della pace: la libertà religiosa e, più particolarmente, la questione della persecuzione dei cristiani nel mondo, la crisi economica, che è crisi innanzitutto morale, l’emergenza educativa, particolarmente acuta nell’ambito dei mass-media, i conflitti, sempre più ricorrenti, per l’accesso alle risorse, l’uso distorto delle scienze biologiche che lede profondamente la dignità umana, e gli armamenti e le misure di sicurezza. 3. Terzo nodo, infine, l’aspetto educativo. Aspetto, questo, che sta particolarmente a cuore alla Chiesa che ha, fra le sue missioni principali, quella della formazione delle coscienze. Si è pensato di abbordare questo nodo da due punti di vista: quello formativo e quello dell’esperienza pratica.
3.1 All’ambito più propriamente formativo è dedicata la prima delle tre giornate celebrative, quella del 2 ottobre, quando circa 60 rettori e docenti, in rappresentanza di altrettante università pontificie e cattoliche dei cinque continenti, si incontreranno per approfondire una delle questioni cruciali dei nostri giorni: la formazione di nuove generazioni di cattolici impegnati in politica. Si tratterà di una giornata di lavoro intenso che si svolgerà, senza presentazione di relazioni in plenaria, in quattro gruppi divisi per lingua. I professori cercheranno di individuare quale è il ruolo che nella società odierna le Università pontificie e cattoliche devono assumere perché la loro connotazione risulti evidente e porti frutto. In particolare, cercheranno di specificare quale essere il loro servizio nel perseguimento della giustizia sociale, tramite la realizzazione di politiche sociali adeguate ai nuovi scenari, nella creazione delle nuove condizioni necessarie per il perseguimento del bene comune e nella formazione di nuove generazioni di cattolici impegnati in politica. I punti salienti che emergeranno dagli scambi di vedute dei docenti, scambi diretti dai moderatori e i cui risultati saranno raccolti da un coordinatore, potranno eventualmente costituire materiale utile per la stesura di un documento che abbordi il tema della politica come vocazione per i cattolici. Per questi, infatti, l’impegno politico è un’espressione qualificata ed esigente dell’impegno cristiano al servizio degli altri (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 565), è impegno per il bene comune che vuol dire “prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città” (Caritas in veritate, 7).
3.2 La completezza dell’educazione esige, oltre all’aspetto formativo, anche quello delle esperienze concrete. Era, questa, già una preoccupazione espressa chiaramente dal Beato Giovanni XXIII nella sua precedente enciclica sociale. “L’educazione – scriveva Papa Roncalli nella Mater et magistra -, oltre che far nascere e sviluppare la coscienza del dovere e di agire cristianamente in campo economico e sociale, è pure necessario che si proponga di far apprendere il metodo che rende idonei a compiere quel dovere”.
È per rispondere a questa esigenza che, come si è visto, nella giornata centrale delle celebrazioni si è deciso di far presentare l’esperienza degli Organismi di governance regionali. Questo, per conoscere e riflettere, appunto, sul metodo in uso per il perseguimento del bene comune a livello continentale. Inoltre, si confida nell’efficacia della scelta compiuta di voler affiancare alla presentazione delle tematiche relative alle nuove sfide della pace, affidata ad esperti e accademici (4 di ottobre), l’esposizione di buone pratiche portate avanti sul terreno, spesso non senza rischi, da religiosi e laici, impegnati negli stessi ambiti, nei vari continenti. In definitiva, per abbordare un tema che i recenti sviluppi della situazione internazionale hanno contribuito a rendere ancora più bruciante, si è cercato di scegliere come relatori persone altamente qualificate e di prestigio provenienti da tutti i continenti portatrici di esperienze particolari. La risposta è stata molto positiva e gliene siamo vivamente grati. Anche i partecipanti, - gli iscritti alla seconda e alla terza giornata sono circa 250 - provengono da ogni parte del mondo e anche a loro siamo molto riconoscenti. La nostra gratitudine va, infine, soprattutto al Santo Padre che ha tenuto personalmente a riservare uno spazio nella sua fitta agenda per ricevere i relatori e partecipanti alle celebrazioni della Pacem in terris. E questo, malgrado la coincidenza temporale con la riunione della Consulta per le riforme. Mi sia concesso notare, non senza una punta di orgoglio, che degli otto Cardinali che fanno parte della Consulta, cinque sono membri del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Passo ora la parola a S.E. Mons. Toso, Segretario del Dicastero, che illustrerà in modo più particolareggiato, il programma e gli argomenti a tema delle prossime giornate celebrative. Seguirà poi, a sostanzioso corollario, la presentazione del volume pubblicato per questa circostanza intitolato: Il Concetto di pace. Alla sua stesura hanno contribuito eminenti studiosi ai quali pure va la nostra riconoscenza.
INTERVENTO DI S.E. MONS. MARIO TOSO, S.D.B.
L’ «utopia» di Papa Giovanni XXIII compie cinquanta anni. La sua enciclica, la Pacem in terris, porta la data dell’11 aprile del 1963. In essa, una visione ottimista dell’uomo, che oggi, in un contesto di cultura «liquida» e tendenzialmente nihilista, non c’è più. Al tempo, l’enciclica sulla pace si inseriva nel pieno della crisi dei missili a Cuba, forse il picco massimo di crisi di una guerra fredda che basava la sua pace sull’equilibrio instabile della possibilità per ciascuna superpotenza di annientare l’altra. Oggi cade in un contesto in cui al centro sta il conflitto siriano, con tutti gli ingredienti di una guerra almeno regionale.
Forse solo a 50 anni di distanza si può apprezzare pienamente la visione profetica dell’enciclica indirizzata da Giovanni XXIII ai fedeli di tutto il mondo, nonché a tutti gli uomini di buona volontà, sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà. Questa enciclica ha offerto una struttura di pensiero e di progettualità politica che ha fatto sì che la Chiesa e i credenti si impegnassero nelle questioni sociali, per gli anni che sarebbero venuti, con una capacità di visione e di proposta davvero universale.
Ci sono, nell’enciclica di Papa Giovanni, i riferimenti alla convivenza umana fondata anzitutto sulla comunione morale e spirituale (cf Pacem in terris nn. 19-20), al bene comune, all’autorità come facoltà di comandare secondo ragione, ai rapporti tra le nazioni, al disarmo, all’impegno politico. Ma tutto è imperniato sulla centralità dell’uomo, del suo sviluppo integrale, del fatto che ogni essere umano è «persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera», e quindi «è soggetto di diritti e doveri», che sono universali, inviolabili e inalienabili, indivisibili. Lo sguardo sulla persona non si limita però a quello della ragione. È aperto alla fede. « [..] se si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina – scrive Giovanni XXIII - allora essa apparirà incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo» (Pacem in Terris, n. 5).
Alcuni motivi di attualità dell’enciclica giovannea
La Pacem in terris è attuale perché ci aiuta a difendere efficacemente quello Stato di diritto che in essa è chiaramente prospettato, presentando tra l’altro la lista più completa dei diritti e doveri dell’uomo di tutti i documenti sociali della Chiesa. Una tale figura di Stato è messa in crisi da violazioni plateali da parte di quegli stessi Paesi che lo hanno codificato nelle loro costituzioni. Oggi si hanno Paesi che, mentre vedono sensibilmente diminuita la loro capacità di fissare le priorità dell’economia e di incidere sui dinamismi finanziari internazionali (cf Caritas in veritate n. 24), nonché su altre questioni vitali e globali – tra cui l’accesso all’acqua potabile per tutti, l’equa distribuzione delle risorse energetiche, la sicurezza alimentare, il controllo del fenomeno di migrazioni bibliche -, legiferano puntigliosamente su temi etici e bioetici senza tener conto della legge morale naturale, fondando spesso le rivendicazioni su antropologie indifferenziate.(1)
La Pacem in terris è ancora attuale perché sostiene che i diritti umani vanno promossi nella loro unità ed indivisibilità. In essa, lo Stato di diritto è intrecciato con lo Stato sociale democratico. Poiché per l’enciclica giovannea lo Stato di diritto si completa e si perfeziona nella figura dello Stato sociale e democratico, ci aiuta a difenderlo dagli assalti dell’imperante ideologia tecnocratica, consumistica e mercantilistica, legata ad una cultura dello «scarto» (cf Bauman, papa Francesco). I diritti civili e politici non possono essere separati dai diritti sociali. Se questi non vengono realizzati i diritti civili e politici vengono vanificati. In definitiva, la PT, aiuta a contrastare le odierne porzioni dell’opinione pubblica o di politici secondo i quali il necessario risanamento dei conti pubblici e la crescita sono da conseguire, in un contesto di crisi finanziaria e di recessione economica, a prezzo della riduzione dei diritti sociali – si parla qui di diritti fondamentali, non di acquisizioni secondarie pure attribuite ai diritti dei lavoratori, come i soggiorni in case estive spesate dagli imprenditori o altre facilitazioni -, dello smantellamento dello Stato sociale e delle reti di solidarietà della società civile, nonché della sospensione della democrazia. In particolare, aiuta a tutelare e a promuovere il diritto al lavoro, che oggi viene sottodimensionato da quella cultura neoliberista, tipica del capitalismo finanziario sregolato, secondo cui il lavoro è un «bene minore» o addirittura bene facoltativo. Il lavoro è un bene fondamentale per la persona, per la sua socializzazione, per la formazione di una famiglia, per contribuire al bene comune e alla realizzazione della pace. Ad un tale bene corrispondono un dovere e un diritto che esigono coraggiose e nuove politiche del lavoro per tutti. La PT è attuale perché insegna a realizzare la pace soprattutto mediante l’educazione. In un contesto in cui il mondo sta sperimentando i primi passi di una rivoluzione militare grazie alle cosiddette «nuove tecnologie»,2 e in cui il terrorismo, con le sue molteplici forme cangianti e difficilmente intercettabili, può seminare sempre più morte e paura (mediante l’uso di agenti biologici e i composti chimici che attaccano il sistema nervoso, la pelle o il sangue), sta divenendo sempre più evidente che la soluzione dei problemi della giustizia non potrà avvenire, in maniera soddisfacente, con l’uso sia pure legittimo della forza. Se i popoli non vorranno cadere in balia di una violenza diffusa e fluida, incontrollabile, bisognerà far leva, oltre che sul disarmo nucleare integrato da efficaci controlli, soprattutto sulla prevenzione. Essa è possibile solo mediante quel «disarmo degli spiriti» di cui parla papa Giovanni (cf Pacem in terris, n. 61), abilitando le persone e i popoli, alla mutua fiducia, ad essere costruttori di comunione e di pace. Ciò può avvenire mediante un’educazione integrale ed ininterrotta, che passa attraverso l’istruzione, l’acquisizione di nuovi modelli e stili di vita, la moltiplicazione di pratiche di vita giusta e pacifica.
Proprio per questo la visione pedagogica è sempre presente nel momento in cui la Santa Sede negozia i trattati internazionali. L’educazione ai diritti e ai doveri umani è il modo fondamentale in cui l’utopia di Papa Giovanni può realmente concretizzarsi. La Pacem in terris è ancora attuale perché già in quel tempo metteva in luce la necessità di una riforma delle Nazioni Unite, perché «arrivi un giorno nel quale i singoli esseri umani trovino in essa una tutela efficace in ordine ai diritti che scaturiscono immediatamente dalla loro dignità di persone» (Pacem in terris, 75). Ciò è stato chiaramente ribadito da papa Benedetto nella Caritas in veritate al n. 67, mettendo in luce le molteplici e nuove esigenze del bene comune mondiale che lo postulano.
Soprattutto, la Pacem in terris è ancora attuale perché lega la visione di un bene comune mondiale, che esige un’autorità politica corrispondentemente mondiale, direttamente alla rivelazione divina e al diritto. Questa visione di fondo, dovrebbe essere quella che oggi, sulla base di motivazioni di ragione e di fede, richiamate da papa Francesco nella Lumen fidei (cf n. 55), dovrebbe muovere l’azione dei credenti impegnati in politica e l’attività internazionale della Santa Sede. Occorre, cioè, convincersi che l’autorità politica mondiale, invocata già da Pio XII, prima dello stesso Giovanni XXIII, e sostenuta da tutti i loro successori - e che non è un Leviatano, un mostro malefico -, è conseguenza dell’esistenza di un’unica famiglia umana globale e frutto del messaggio biblico, per il quale Dio è Padre di tutti gli uomini ed essi sono tutti fratelli.
La Pacem in terris è ancora attuale perché ha coltivato la sana utopia di una grande famiglia di popoli unificata da una comunione incessante, in termini di libertà, verità, giustizia e amore fraterno. Una simile visione prospettica e strategica, di tipo personalista e comunitario, può aiutare oggi, in un contesto di globalizzazione, che peraltro intensifica l’interdipendenza tra i popoli, a coltivare la costruzione di un mondo meno babelico e meno contrapposto, sulla base dell’assenza di blocchi comunicativi, nella luce di una vera fraternità, con una cultura dell’incontro e del dialogo. Può aiutare a volere una società di popoli solidali e convergenti verso il bene comune mondiale e non semplice coacervo di Stati-Nazione o di etnie litigiose che si isolano sempre più o che si strumentalizzano. E, quindi, può sollecitare a formare una vera famiglia di popoli non nella linea di un universalismo globalizzante che annienta le peculiarità, né nella prospettiva di un localismo anarchico o folkloristico che perde la comunione e l’interdipendenza. Per crescere come famiglia umana occorre operare nel locale, nel piccolo, ma in una prospettiva globale, mediata attraverso il provinciale, il nazionale e il regionale. La Pacem in terris può, infine, sollecitare a vincere i nuovi colonialismi che si verificano mediante asservimenti finanziari e speculativi, delocalizzazioni deleterie per i Paesi ospitanti, sfruttamenti di terre e miniere da Parte di Stati o imprese straniere che, mentre non coinvolgono le popolazioni indigene nelle attività produttive, inquinano il loro ambiente. La Pacem in terris è ancora attuale perché ci consente di apprezzare il bene comune e di comprendere come la democrazia non si può pienamente realizzare senza la giustizia sociale. E, quindi, di essere critici nei confronti di posizioni neoliberiste. Queste vagheggiano una concezione della democrazia che potremmo definire minima o prevalentemente procedurale, nel senso che la democrazia non deve porsi, se vuole essere autentica, finalità di giustizia sociale. L’espressione giustizia sociale è – scrive uno dei padri di tale neoliberismo -, «del tutto vuota e senza senso».3 Così, lo sono le espressioni come «bene comune», «bene generale». Quando la democrazia si ripropone di realizzare la giustizia sociale, di garantire i diritti sociali ed economici, che non hanno un reale fondamento, esula dai propri compiti ed è destinata ad un inevitabile declino.
La Pacem in terris è ancora attuale perché può consentire all’attuale politica, strozzata dall’oligarchismo e dal populismo, di dispiegarsi in un deciso servizio al bene comune, al giusto benessere dei cittadini (cf Pacem in terris, n. 91). La vera politica, insegna papa Giovanni, non si riduce a strumento di lotta per il potere, per coltivare interessi individuali e settoriali, per la conquista di posti e spazi più che per la gestione di processi di sviluppo sostenibile per tutti (cf Car. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, LEV-Jaca Book 2013, p. 31). Che la Pacem in terris sia stata profetica e sia ancora attuale ce l’ha mostrato ultimamente, ed in maniera eloquente, papa Francesco quando - riallacciandosi alle affermazioni giovannee secondo le quali, nell’era atomica, è «alienum a ratione» dare legittimità alla vecchia pretesa di risolvere i conflitti con la guerra giusta contro l’ingiustizia commessa -, giunge a dire con Paolo VI, nei confronti del conflitto in Siria: «Non più gli uni contro gli altri, non più, mai!... non più la guerra, non più la guerra!» (Discorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965: AAS 57 [1965], 881: cf Papa Francesco, Veglia di preghiera per la pace del 7 settembre 2013). Non è, da ultimo, inutile sottolineare, a mo’ di conclusione, l’apporto della Pacem in terris, specie per quanto concerne, più propriamente, gli ordinamenti giuridici e l’amministrazione della giustizia nelle democrazie odierne.
L’internazionalizzazione dei diritti deve, infatti, poter continuare ad usufruire di un codice etico-culturale transnazionale. Così, la discreta attrezzatura di governo globale, affermatasi negli anni passati, esige di essere perfezionata. Inoltre, lo ius positum internazionale deve rafforzarsi come spazio costituzionale e giudiziario mondiale.
In definitiva, in un contesto in cui si lamenta la carenza di visione, la Pacem in terris può essere ancora considerata matrice di una nuova progettualità a respiro globale.
INTERVENTO DEL DOTT. VITTORIO ALBERTI
Si può dire che «Il concetto di pace», questo corposo volume di oltre 600 pagine, appartenga, per così dire, forse anche dal titolo, al pontificato di Benedetto XVI. A febbraio, il testo era infatti quasi pronto per le prime correzioni quando giunse la notizia della rinuncia. Tuttavia, di certo, quel gesto così potente sul piano umanistico non poteva non informare di sé l’intera trattazione. Benedetto XVI, infatti, – dicendo di aver agito in piena libertà - ha posto al centro della sua scelta il primato della libera coscienza che, in sé, costituisce il terreno di incontro tra chi è cattolico e chi non è cattolico anche sul possibile rapporto tra gli uomini, la politica, che, di fatto, rivela il contesto e la declinazione dell’autorità, situazione centrale nella Pacem in terris, l’“enciclica politica” di Giovanni XXIII.
Ora, quale rapporto intercorre tra la rinuncia di Benedetto XVI, l’enciclica Pacem in terris e l’idea di un terreno comune tra chi è cattolico e chi non è cattolico? La prospettiva reale della pace.
La pace, infatti, si può dire che sia un nuovo nome della laicità. Per quale ragione? basti pensare alla giornata di digiuno e preghiera indetta da papa Francesco il 7 settembre scorso. È un nuovo nome della laicità perché per giungere alla pace occorre prima di tutto fissare il primato dell’uomo e della dignità libera della sua coscienza traguardando l’orizzonte dell’unità tra diversi.
Porre al centro l’uomo, l’ha detto chiaramente papa Francesco nei giorni scorsi, è non porre al centro degli idoli, siano essi esteriori o interiori.
Così come Giovanni XIII, nel duro contesto della guerra fredda, parlò al mondo intero, e non solo ai cattolici, così mesi fa Benedetto XVI definì i tratti di tale processo e, oggi, papa Francesco manifesta chiaramente tale spirito e con un senso che spesso soprende per la sua formidabile forza espressiva.
Il volume, completato quasi del tutto nei giorni della rinuncia di Benedetto XVI, tranne in due punti non fa quindi riferimento a questi mesi del nuovo pontefice, ma i suoi contenuti accompagnano e aiutano a comprendere nell’attualità i suoi innumerevoli gesti.
Auspichiamo che questo libro possa parlare a tutti, secondo un’idea che già nel ’63 fu chiaramente espressa dallo stesso Giovanni XXIII che affermò: «L’enciclica Pacem in terris con il suo volto e i caratteri ecumenici è capace di essere universalmente intesa da tutti. I suoi elementi sono tali da captare il consenso di tutti gli esseri intelligenti e liberi, anche di quelli che non condividono la fede».
Gli interventi contenuti nel libro sono 29 e si articolano secondo diversi registri tematici, a valorizzare e, per così dire, sviscerare il concetto di pace a partire dalla Pacem in terris. I registri tematici sono: la ricezione (s’intende della Pacem in terris), la teologia, l’antropologia, la politica, l’educazione alla pace, l’ambiente. In questo senso, il concetto di pace contenuto nella Pacem in terris portato all’attuale è analizzato sotto tali diversi aspetti e punti di vista. In apertura, una lunga intervista al cardinale Turkson su cosa sia la pace e su come raggiungerla che, partendo dal suo concetto biblico, fissa l’idea secondo la quale la pace, essendo un dono, non è connaturata all’uomo e che, dunque, tale stato di cose determina la necessità della libera scelta del soggetto. Libera scelta per cosa? L’uomo sceglie di andare verso la pace attraverso la sua conversione, la sua educazione alla pace. Resta libero e può scegliere. E se può scegliere, la pace è possibile. Non è una velleità, per così dire moraleggiante e sentimentalistica, è una realtà, difficile, ma pur sempre una possibilità anche storica.
La Pacem in terris fissa un’idea molto vasta, molto ampia, di guerra e di pace. La pace, come la guerra, nasce sempre dall’intimo dell’uomo e non va intesa come assenza di conflitto o, la guerra, solo come contesa armata, fra forze armate. La guerra è, quindi, prima di tutto guerra interiore. Poi guerra intersoggettiva, sociale, poi politica: in una nazione, tra nazioni, tra popoli. È un crescendo, per così dire. E, in questo senso, tale idea vasta di guerra necessita, nella storia, di un altrettanto vasto concetto di pace.
Il cardinale Turkson, nell’intervista, che nel volume è in inglese (il testo è prevalentemente in italiano, ma compaiono interventi in inglese, francese, spagnolo, tedesco) afferma un concetto molto importante: che Giovanni XIII si sia posto, rispetto alla guerra, come Archimede al quale è attribuita la frase «datemi una leva e vi solleverò il mondo». Cosa significa? Che Giovanni XXIII si è posto al di fuori della storia, al di fuori anche della descrizione dei fatti storici specifici, per portarsi in una dimensione antropologica che centrasse l’idea di guerra e di pace nell’uomo, nella natura dell’uomo, non in un uomo specifico o in un determinato contesto, ma nell’uomo in sé.
All’intervista segue poi, in francese, un importante contributo e ricordo del cardinale Etchegaray, già presidente di “Giustizia e pace”, e quindi l’ampia introduzione di mons. Mario Toso che illustra l’enciclica con specifica attenzione alla sua qualità di enciclica “politica”, per così dire, rispetto all’enciclica “sociale” Mater et magistra. L’introduzione centra la sua attenzione sull’idea di autorità e sull’idea di democrazia, due categorie oggi in spesso gravoso divenire.
Seguono, quindi tutti gli interventi suddivisi all’interno delle diverse aree tematiche: i Cardinali Maradiaga e Marx, Mons. Sánchez Sorondo, Enzo Bianchi, Stefano Zamagni, Martin Rhonheimer, Johan Verstraeten, Jean-Dominique Durand, Romano Penna, Paolo Asolan, Eberhard Schockenhoff, Gianni Manzone, Martin McKeever, Carmelo Vigna, David Hollenbach, Douglas Roche, Joseph Joblin , Paolo Carlotti, Vittorio Possenti , Vincenzo Buonomo, Rodrigo Guerra Lopez, Carlo Nanni, Giovanni Galizzi, Ignazio Musu. Completano il volume le conclusioni di Flaminia Giovanelli, sottosegretario del Pontificio consiglio, che compie un bilancio dell’intero lavoro orientandolo verso l’attualità, anche dell’attuale scenario ecclesiastico. Vorrei concludere con una affermazione di papa Francesco del 22 marzo di quest’anno, che abbiamo inserito nella quarta di copertina: «Non vi può essere pace vera se ciascuno è la misura di se stesso, se ciascuno può rivendicare sempre e solo il proprio diritto, senza curarsi allo stesso tempo del bene degli altri, di tutti, a partire dalla natura che accomuna ogni essere umano su questa terra».
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(1) Vi sono comunità che, pur riconoscendo il diritto primario alla vita, hanno praticamente liberalizzato l’aborto e alcuni gruppi ne vorrebbero sancire il “diritto”. Non solo. Vi sono ordinamenti giuridici e amministrazioni della giustizia che consentono la discriminazione di chi fa la obiezione di coscienza nei confronti dell’aborto, della guerra e dell’eutanasia. Parimenti, mentre nelle Costituzioni è omologato il diritto alla libertà religiosa, crescono i pregiudizi e la violenza nei confronti dei cristiani e dei membri di altre religioni, ad es. ma non solo, in tutta l’area dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa). In tale area si è praticamente disegnata una linea divisoria netta tra credenza religiosa e pratica religiosa, sicché spesso ai cristiani viene ricordato, nel pubblico dibattito (e sempre più di frequente anche nei tribunali), che possono credere tutto ciò che vogliono nelle loro case e nelle loro teste, e che possono rendere culto come desiderano nelle loro chiese private, ma che semplicemente non possono agire in base a queste credenze in pubblico. Si tratta di una distorsione deliberata e di una limitazione del vero significato della libertà di religione, e non corrispondono alla libertà prevista nei documenti internazionali, compresi quelli dell’OSCE. Sono molti gli ambiti in cui emerge in modo evidente l’intolleranza. Negli ultimi anni si è manifestato un aumento significativo di episodi in cui dei cristiani sono stati arrestati e persino perseguitati per essersi espressi su questioni cristiane. Alcuni leader religiosi sono stati minacciati con l’intervento della polizia dopo aver predicato sul comportamento immorale, e alcuni sono stati addirittura condannati al carcere per aver predicato gli insegnamenti biblici relativi all’immoralità sessuale. 
(2) Le nuove tecnologie includono le comunicazioni digitali, che permettono ai dati di essere compressi; un “sistema di posizionamento globale” (GPS), che rende possibile una guida ed una navigazione più precisa; sistemi d’arma che possono sfuggire alla rilevazione radar (stealth); e, naturalmente, l’information technology (IT). In particolare, i nuovi strumenti per il recupero e l’analisi automatica dei dati (data e text mining). 
(3) Cf F. A. VON HAIEK, Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata, Il Saggiatore, Milano 2010, p. 183.

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Vaticano/ 50 anni "Pacem in terris" tra Siria e crisi economia
TMNews
 
Presentato in Vaticano convegno dal due al quattro ottobre --Scritta 50 anni fa da Giovanni XXIII, l'enciclica "Pacem in terris" rimane attuale per un mondo marcato dalla crisi economica, da guerre come quella siriana o dalla persecuzione dei cristiani in diverse aree (...)