giovedì 27 febbraio 2014

L'amore di mamma e papà per Paolo VI


Nel settembre del 1959 si svolse a Milano un Sinodo minore diocesano che, per volontà dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini, ebbe come tema di studio e discussione «Matrimonio e famiglia». Secondo il cardinal Montini tali questioni, basilari per la vita umana e cristiana, sempre più frequentemente, in quegli anni, erano soggette all’«amaro rilievo dei moltissimi errori, oggi divulgati con i mezzi più moderni e più insidiosi, che minano in radice la sanità e la santità delle due istituzioni».

L’arcivescovo stabilì così che la sua diocesi s’impegnasse nell’analisi di questi temi nel corso di tutto l’anno successivo, raccomandando al clero diocesano, all’Azione cattolica e alle altre organizzazioni laicali uno studio accurato e una «fedele e felice applicazione». «Un parroco di Milano – raccontava Montini il 22 settembre 1959, concludendo il Sinodo – stimolato per certe circostanze a un esame alla sua parrocchia, mi diceva: "Ma io ho scoperto, e non lo sapevo, trecento famiglie illegittime nella mia parrocchia, quando si contavano una volta su le dita uno, due, tre... cinque; e non lo sapevo, e non lo vedevo"». Pure l’arcivescovo rimase colpito e turbato dalle trasformazioni cui andava soggetto l’istituto familiare già sul finire degli anni Cinquanta.

L’attenta e approfondita riflessione su tali argomenti rappresentò allora per Montini una improrogabile urgenza pastorale e lo convinse fosse pertanto necessario riaffermare, quali principi fondanti, matrimonio e famiglia, ponendoli a confronto con i mutamenti imposti dalla vita moderna; e, dunque, con quella che egli definiva la «negazione coperta o palese, parziale o totale, che oggi da tante parti li impugna». Mosso da queste istanze, all’inizio del 1960, il cardinale affrontò pubblicamente e apertamente quella che riteneva, ormai anche per la Chiesa cattolica, una «vitale questione», e affidò le sue considerazioni sul matrimonio cristiano e sulla famiglia a una Lettera pastorale indirizzata alla diocesi di Milano per la Quaresima, intitolata «Per la famiglia cristiana». Tra tutti i testi del magistero prodotti da Montini negli anni milanesi, fu il più meditato e studiato. L’arcivescovo vi trattava con chiarezza, rigore e preveggenza le insorgenti tematiche che minacciavano la regolarità e l’unità della famiglia, soffermandosi sulle separazioni e sul divorzio e dedicando ampio spazio all’aborto e alla regolazione delle nascite. Su questi aspetti è stato notato come il testo milanese presenti singolari similitudini, anche dal punto di vista terminologico, con la Humanae vitae, l’enciclica promulgata da Papa Montini otto anni dopo: certe espressioni su matrimonio e famiglia, contenute nella Lettera pastorale, ritorneranno quasi identiche in alcuni dei discorsi pronunciati da Paolo VI, al quale si deve l’istituzione, nel gennaio del 1973, di un Comitato per la famiglia (tramutato poi in Pontificio Consiglio), sorto con l’intento di studiarne i problemi, incoraggiare le iniziative concrete e sostenere i pastori e le associazioni cattoliche.
Alle famiglie Montini raccomandava di affrontare difficoltà e problemi con la «preghiera familiare», suggerita sempre alle coppie che univa in matrimonio. Una delle più temibili minacce alla stabilità del rapporto coniugale era infatti causata per il cardinale dalla «solitudine» di molti sposi, dovuta all’affievolirsi degli antichi e un tempo solidi legami parentali. «Quante famiglie sembrano davvero lanciate in mezzo alla società; ma così solitarie, così staccate, così sradicate, così senza un appoggio, senza una sicurezza! – affermava già nel 1958 –. Pochi legami che congiungono ancora la parentela, quasi nessun legame che sostenga dall’alto queste povere comitive, queste povere famiglie così improvvisate, così poco ben compaginate». Rafforzando i vincoli familiari e recuperando la vicinanza, l’affetto e il dialogo con le famiglie d’origine, molte difficoltà potevano invece essere più agevolmente superate. Montini traeva questa certezza dalla sua esperienza familiare, come egli stesso affermò durante una visita nella natìa Brescia, per le nozze di una nipote. «Lo traggo dagli esempi, dai ricordi delle rispettive famiglie (...), dalla mia specialmente che qui tante volte ho visto riunita ai piedi della Madonna e che qui ho sentito tante volte così buona, così vera, così capace di consolare, di educare, di far godere il panorama di questa scena presente e di indirizzare il nostro cammino per cose più grandi e trascendenti ed eterne». Il ricordo dell’esempio familiare ritornò anche anni dopo, quando, divenuto Papa, Paolo VI parlò all’amico Jean Guitton dell’amore intenso e profondo che unì i suoi genitori, Giorgio Montini e Giuditta Alghisi, scomparsi entrambi nel 1943, a pochi mesi di distanza. «All’amore di mio padre e di mia madre, alla loro unione – confidava Paolo VI al filosofo francese – (...) devo l’amore di Dio e l’amore degli uomini».
Questo sentimento, vibrante e fecondo, è testimoniato dalle lettere che la madre, Giuditta Alghisi, scrisse al marito nei periodi in cui Giorgio Montini si trovava lontano dalla famiglia a causa degli impegni di lavoro. In parte, tale epistolario è stato ripercorso e citato nella Positio per la causa di beatificazione del Pontefice bresciano. Giuditta Alghisi aveva diciannove anni nel 1893, quando conobbe Giorgio Montini, partecipando a un pellegrinaggio a Roma, organizzato proprio dal giovane avvocato bresciano, in occasione del 25° di episcopato del papa Leone XIII. Due anni dopo, il 1° agosto 1895, diventata maggiorenne, sposò il fidanzato, che aveva quattordici anni più di lei, superando i contrasti e le difficoltà posti dal suo tutore. «Uniti allora colla fede e l’entusiasmo della gioventù pura – ricordava la Alghisi nel 25° anniversario di matrimonio – lo siamo ancora oggi più profondamente per la completa fusione delle anime nostre che credono, amano, sperano con una sola volontà, colla stessa fiducia».

L’incontro e l’unione col marito furono sempre vissuti e interpretati dalla signora Montini in una prospettiva provvidenziale: «Ringrazio il buon Dio con tutta l’effusione del cuore – scriveva infatti Giuditta, nell’estate del 1901 – per le ineffabili compiacenze che Egli mi ha concesse col tuo amore, per tutte quelle squisitezze di cui abbiamo insieme gustato e soprattutto per quell’affetto vivo, profondo, completo con cui ci amiamo sempre dal giorno in cui Egli, Egli proprio ci fece incontrare». Il matrimonio fu allietato dalla nascita, in rapida successione, dei tre figli maschi, «tre cari follettini – li descriveva con tenerezza la mamma – svolazzano lieti pel cortile dietro le variopinte bolle di sapone». E il marito rallegrato del «bel quadro che vedo con l’anima: tu e i piccini intenti a parlare di Gesù», rispondeva alla moglie: «Benedetta la tua bocca, che insegna ai miei bambini il nome e la vita del Salvatore».

La vita coniugale non era priva di difficoltà, dovute anche alle sempre più frequenti assenze del capofamiglia, che all’attività giornalistica aveva assommato i crescenti impegni in campo sociale e politico. «Ero lì lì per andare un po’ in collera! – gli confidava la moglie nell’ottobre del 1905 –. È inutile, mi hai avvezzata male... o troppo bene, così, quando passano due giorni senza tue righe, il mondo mi pare cambiato. Ma stasera, quando leggo che non sei molto di lena, che non sei soddisfatto, la mia piccola ira s’è sfumata e sento insieme in cuore come un gran cruccio. Un bel bacione dalla tutta tua Giuditta». Nel 1916, mentre pure i due figli più grandi, Ludovico e Giovanni Battista, si trovavano lontani da casa (Ludovico fu combattente al fronte durante la Prima guerra mondiale), Giuditta affidava nuovamente al Signore la sua famiglia: «Ringraziamo, ringraziamo tanto il Signore e preghiamolo a renderci degni delle sue grazie, a conservare viva in noi quella fede nella quale troveremo sempre luce, aiuto per raggiungere la meta verso cui ci siamo incamminati e verso la quale i figlioli nostri tendono con tanta generosità, con tanto slancio sincero! Tu sei il Capitano, la tua fedele compagna è fiera di te, di seguirti».

Alla luce di queste lettere, che ci testimoniano l’amore fortissimo dei coniugi Montini, illuminato e guidato da un’incrollabile fiducia in Dio e nell’immancabile sostegno della Provvidenza, possiamo facilmente comprendere come sia stato proprio Paolo VI, nella sua ultima enciclica – la tanto amata e contestata Humanae vitae – a trovare le parole più belle per parlare dell’amore tra un uomo e una donna, di quell’«amore totale» che unisce in maniera esclusiva marito e moglie e che è realmente «una forma tutta speciale di amicizia personale», un amore «pienamente umano», e quindi insieme «sensibile e spirituale». E sempre Papa Montini, nell’ottobre 1970, incoraggiò il Vicariato di Roma, che aveva dedicato la riflessione pastorale per quell’anno al sacramento del matrimonio, perché «la pastorale della famiglia – insisteva Paolo VI con parole di grande attualità – si presenta oggi come la più tempestiva, la più impegnativa e anche la più feconda di risultati benefici e duraturi».

Eliana Versace (Avvenire)