sabato 8 marzo 2014

Il Vangelo, la Chiesa e le donne



Dal profumo di Betania alla pietra rimossa. Solo chi ama resta. 

(Ugo Sartorio) Con l’arrivo a Betania ha inizio l’ultima settimana della vita terrena di Gesù. Dopo il miracolo che ha riportato l’amico Lazzaro in vita, cresce l’ostilità da parte di chi vuole mettere a morte il Rabbi di Nazaret. «Intanto i sommi sacerdoti e i farisei avevano dato ordine che chiunque sapesse dove si trovava lo denunziasse, perché essi potessero prenderlo» (Giovanni, 11, 57).

Gesù capisce che nessun segno potrà ormai convincere i suoi oppositori se non il segno di Giona, della vita nascosta nel ventre della terra, del dono totale di sé per amore: «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Matteo, 12, 40): è questo il testo dell’evangelista Matteo, che, a differenza di Luca, interpreta in senso pasquale il segno di Giona applicandolo alla morte e risurrezione di Gesù. Il terzo evangelista, che parla ai pagani, ai non ebrei, preferisce invece accentuare la dimensione di proclamazione missionaria alla genti: «Nel giorno del giudizio gli abitanti di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona» (Luca, 11, 32).
Mentre assistiamo all’escalation del clima di violenza e inganno, entrano in scena gli attori e si indica il luogo dove avviene l’azione. Siamo a Betania, località che i lettori del vangelo di Giovanni già conoscono bene, luogo dell’amicizia, per Gesù luogo del cuore cui fare ritorno e dove trovare ristoro e calore umano. Qui abitano l’amico Lazzaro, Marta — identificata nel ruolo consueto di colei che serve a tavola, cfr. anche Marco, 10, 40 — e la sorella Maria, che Giovanni ha presentato ampiamente nel capitolo precedente citandone otto volte il nome.
Vi è poi un altro personaggio, che è quello di Giuda: la sua domanda — «Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?», 11, 5 — provoca la risposta secca e indignata di Gesù «Lasciatela fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me» (11, 7-8). Mentre Marco parla genericamente di «alcuni» tra i presenti (14, 4) e Matteo fa esplicito riferimento ai «discepoli», cumulativamente (26, 8), solo Giovanni fa intervenire, come voce solista, Giuda. Forse la comunità, dopo la drammatica fine di questo discepolo, anticipa alcune reazioni che denotano distanza dal maestro e sostanziale infedeltà al discepolato.
Maria di Betania fa e tace. Non ha teorie da dimostrare. Qui c’è tutta la concretezza delle donne che è legata a un intuito vitale, a un istinto protettivo, alla volontà di mettere sempre e comunque al centro la persona, di onorarla. Si può, a ragione, parlare di affectus fidei, della fede come qualcosa che ci tocca, che ci “sor-prende” (ci prende come da sopra), fede sentita e senziente, non arida e vuota conoscenza di contenuti ma coinvolgimento dei sensi, dei sentimenti, del corpo, della gestualità; amore in presa diretta, che accetta anche di essere frainteso.
Il rimprovero di Giuda, o, a seconda dei vangeli, dei discepoli, è duro, un po’ simile a quello rivolto agli indemoniati, e Maria è indicata come posseduta dal demone dello spreco, della cura eccessiva e ossessiva, nonché impropria, di Gesù, che distrae dai problemi della storia. Il rischio, ieri come oggi, è quello di essere infedeli alla logica più profonda del Vangelo, ed esserlo «a fin di bene», magari per accurati calcoli pastorali. Gesù definisce il gesto della donna (nella versione di Marco, 14, 6) come «azione bella» (kalòn èrgon), non come «azione buona» secondo la traduzione italiana anche recente, cioè un’azione in cui la persona si esprime in totalità e pienezza, nella sua intenzionalità profonda, senza recita alcuna. Inoltre, l’azione compiuta dalla donna (sempre in Marco) non è, nelle parole di Gesù, «verso di me», ma, più precisamente, «in me / en emòi» (cfr. 14, 6).
A partire da queste considerazioni, due domande possono essere rivolte alla vita consacrata dei nostri giorni. Cosa differenzia un’opera buona da un’opera bella? Le opere dei consacrati sono prevalentemente buone o belle? «Le opere belle — scriveva il cardinale Martini — non sono le opere esteriori (come appunto preghiera, digiuno, elemosina) bensì quelle descritte nello stesso capitolo 5 di Matteo: le beatitudini. Opera bella è l’essere poveri, lo scegliere di non servire al denaro, l’essere di cuore semplice (i puri di cuore), l’essere operatori di pace. Il gesto di questa donna appartiene dunque non tanto alle opere efficaci bensì alle opere belle che qualificano la persona, così come le beatitudini sono atteggiamenti vissuti dalla persona».
Di fatto, l’opera buona può sempre avere un doppio fine, una seconda intenzione, un motivo non pienamente disinteressato. Se rende lode a Dio può anche essere utilizzata per rendere gloria a se stessi. Pensiamo alla differenza che esiste tra essere per i poveri, con i poveri, come poveri. Nella sequenza, si va dall’opera buona verso l’opera bella. Quest’ultima è più trasparente rispetto al manifestarsi del Regno e dei suoi frutti.
La seconda domanda suona così: «Qual è la qualità del nostro discepolato?». Nel testo di Giovanni, 12, 1-11, ma anche in Marco, 14, 1-9, sono infatti a confronto due modelli di discepolato. In genere si usa mettere in parallelo la figura di Giuda con quella di Pietro, per via di un comune tradimento che però ha esiti del tutto opposti.
Vi è però anche la possibilità di mettere in confronto un discepolato maschile con un discepolato femminile, l’amicizia che vacilla e cade da una parte e l’amicizia che resiste dall’altra. Giuda e Maria di Betania compiono, stando al racconto evangelico, i gesti più intimi nei confronti del Maestro: un bacio, l’unzione dei piedi poi asciugati con i capelli. C’è, dunque, un forte contrasto tra il ritratto di Giuda e la figura di Maria: Maria, fedele, unge di profumo Gesù. Giuda, traditore, causa la sua morte.
Maria con la sua azione è la donna di un gesto, a quanto pare, gratuito, giacché è rivolto a un Gesù che simbolicamente si presenta morto. Giuda con le sue critiche tradisce la sua schiavitù al denaro. L’evangelista loda il gesto trasparente di Maria con una fine osservazione: la casa si riempì della fragranza del profumo. Al contrario la domanda di Giuda è una frode e il narratore ne sottolinea le torbide intenzioni.
Giuda Iscariota, il traditore, non solo è antagonista di Gesù e di Maria di Betania, ma è anche il prototipo di quanti tradiscono l’amicizia di Gesù per un pugno di monete. Parimenti Maria di Betania non è unicamente la donna che unge di profumo il Signore: essa impersona tutti quelli che amano Gesù con cuore sincero e riconoscente.
«In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (Marco, 14, 9). Colpisce quell’«in ricordo di lei» che vincola in maniera indissolubile l’annuncio del Vangelo alla narrazione del gesto «bello» della donna di Betania. Un’espressione che è diventata bandiera della teologia femminista, di cui vale la pena di ricordare il libro di Elisabeth Schüssler Fiorenza pubblicato nel 1984 e così intitolato.
Oltre a questa, c’è un’altra consegna di Gesù che si è mantenuta nei secoli: «fate questo in memoria di me» (Luca, 22, 19) in riferimento al gesto eucaristico, anche se l’espressione non va intesa in senso riduttivo come ripetizione di una formula, bensì allude alla ripresentazione di tutta la vita di Gesù nell’«atto massimamente sintetico della fede» (Ignazia Angelini).
Ora, mentre questa seconda memoria ha avuto seguito e costituisce il fulcro della vita della comunità cristiana, la memoria di lei si è spenta, in qualche modo è andata perduta. Nella Chiesa vi è stata nei secoli una certa allergia al profumo di Betania: cosa da donne, un gesto che entra troppo nel personale e crea imbarazzo, non bisogna dare eccessivo credito alle ragioni del cuore. Per cui a livello di vissuto, di presenza, di pratica, di trasmissione della fede le donne hanno occupato i primi posti, mentre la Chiesa si è costruita (nelle sue strutture, nella sua teologia, nella sua azione pastorale) sostanzialmente in modo maschile, patriarcale. E questo fin dagli inizi.
Se si pone grande enfasi sul fatto che le donne sono le prime testimoni, del risorto, è anche vero, e lo sottolinea Joseph Ratzinger nel suo Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (2011), che esse appaiono nei testi narrativi, meno collegati alla struttura giuridica della Chiesa nascente (solo gli uomini, nell’ebraismo, erano testimoni attendibili in un processo), mentre cedono il passo a figure solo maschili nelle tradizioni in forma di professione.
Le donne ci sono, ma nella loro invisibilità. E forse ancora oggi la Chiesa sta pagando pegno per questa smemoratezza, per una memoria di lei che non è stata all’altezza se, come scrive provocatoriamente il teologo Armando Matteo, nel cattolicesimo italiano — e non solo — assistiamo alla fuga delle quarantenni, col profilarsi di una situazione del tutto inedita. Dopo aver considerato che «da secoli la fortezza silenziosa della Chiesa cattolica è la presenza delle donne: sono loro che principalmente trasmettono la fede ai piccoli che vengono al mondo e sono sempre loro che con una generosa e impagabile collaborazione portano a compimento numerosi ministeri ecclesiali», egli si chiede «che cosa sarebbe oggi la Chiesa senza le mamme, senza le catechiste, senza le suore, senza le “signorine” impegnate al servizio delle comunità cristiane?», mentre il resto del libro (La fuga delle quarantenni) è dedicato a constatare e valutare una nuova forma di assenza: dopo quella dei giovani, che la Chiesa avrebbe in buona parte già perso, quella delle donne. Molti sono i motivi che hanno portato a tale deriva, ma uno di questi è certamente la scarsa valorizzazione del femminile, che l’autore esprime con precise parole: «Le donne nella Chiesa sono responsabili di tutto, ma poi non decidono di niente. Come tacere il fatto che si desidera da loro solo un servizio concreto, spicciolo, mentre le decisioni operative restano in mano alla componente maschile-clericale, avallando sistemi di poteri per nulla differenti da quelli della socialità diffusa?».
Se vi è un fatto sul quale i quattro Vangeli concordano, è quello che riguarda la presenza delle donne al sepolcro la mattina di Pasqua: alcune donne, nelle prime ore del giorno, quando ancora era buio, andarono alla tomba di Gesù. Non mancano, naturalmente, le varianti, vale a dire che i Vangeli divergono su quante erano effettivamente le donne, sull’accoglienza loro riservata al sepolcro e su come reagirono a ciò che videro e udirono. Tutti sono d’accordo nell’affermare che si tratta, senza dubbio alcuno, di una ulteriore dimostrazione di fedeltà a Gesù, e che da quel momento, a partire da quel gesto di attaccamento ostinato al maestro e amico, le donne entrano come protagoniste (con i limiti detti sopra) nei racconti della risurrezione.
Il testo più sviluppato in proposito è quello giovanneo. Non volendo svolgere l’esegesi dettagliata di Giovanni, 20, 1-8, sollevo solo una domanda, quasi ovvia. Perché, dopo la croce, la morte, la sepoltura, i discepoli (maschi) fuggono e le donne restano? Mentre i primi avevano seguito Gesù perché vedevano in lui la possibilità di realizzare un progetto glorioso, vincente dal punto di vista umano, di successo, le donne avevano seguito Gesù perché lo amavano. E solo chi ama resta!
Così come resta e piange Maria di Magdala, nei pressi del sepolcro. «Hanno portato via il mio Signore» (20, 13), questo è il suo strazio. È allora che vede due angeli; mentre a Pietro e Giovanni non era stata concessa la beatitudine della presenza angelica, a Maria di Magdala sì, e questo perché Gesù si prende cura di chi si prende cura di lui. Poi la donna si gira e vede Gesù, non sa che è lui. Solo quando è chiamata per nome esplode l’incontro. In quel momento, però, la volontà di tornare al passato è troppo forte, anche se subito contrastata dal rimando di Gesù al futuro. La fede è novità, novità assoluta, mai abitudine. Ed è così che una donna diventa la prima annunciatrice della risurrezione, apostola tra gli apostoli, colei a cui è affidato il messaggio che cambia la storia, anche la nostra, se lo vogliamo.
L'Osservatore Romano