giovedì 13 novembre 2014

La vita e il “libro del mistero”

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di Francesco Agnoli
In una delle su poesie più belle, Il Libro, Giovanni Pascoli esordisce così: “Sopra il leggio di quercia è nell’altana/aperto, il libro”. La quercia è antica, il libro è lì per essere letto. Gli uomini ci si avvicinano e lo sfogliano – indietro, avanti, avanti, indietro-, “ad inseguire il vero”.
Quale uomo rinuncia totalmente a leggere il libro? Cercare di capire qualcosa è un obiettivo
di tutti. Quando soffriamo, o quando si incontra la morte di un caro, o di un bambino, o il male della guerra, urliamo: perché?
L’ultimo verso della poesia di Pascoli recita così: “sotto le stelle, il libro del mistero”.
Come se per il poeta fosse il cielo il garante del senso. Come se proprio per questo, il libro fosse leggibile, almeno in parte, anche dall’uomo.
La metafora del libro ha una lunga storia. La troviamo già in sant’Agostino: “Altri, per trovare Dio, leggono un libro. È un gran libro la stessa bellezza del creato…Dio non ha tracciato con l’inchiostro lettere per mezzo delle quali tu lo potessi conoscere… Gridano verso di te il cielo e la terra: “Io sono opera di Dio””.
Per Isacco di Ninive il creato è un libro, reso ermetico dal peccato. Per san Francesco, ogni creatura è un cantico, una parola di Dio.
Il primo libro che abbiamo a disposizione, dunque, è la realtà, quella di cui i greci cercavano l’archè. Un libro che si rivela affascinante, e nello stesso tempo, terribile. Il fascino lo colgono tutti, davanti alla bellezza di un fiore o di un tramonto. Dante, nel Paradiso, parla del mondo come di un volume “legato con amore”, che però si legge veramente, nella sua unità, soltanto nell’incontro con l’Autore. Per Galilei, nella sua lettera al monaco, scienziato ed amico padre Benedetto Castelli, due sono i libri, quello della Natura e quello della Rivelazione: entrambi provengono dallo stesso “Verbo divino”. Per Keplero il “libro della Natura” è venerabile e prezioso: “Poiché noi astronomi siamo sacerdoti del Dio Altissimo con rispetto al libro della Natura, è nostro dovere tendere non alla nostra gloria, ma, al di sopra di tutto, alla gloria di Dio”.
Per il padre della chimica, Robert Boyle, Dio ci parla anche attraverso il “libro della natura”, che però si svela come un grande e bell’ “arazzo arrotolato che non possiamo vedere tutto in una volta…”. Un arazzo più o meno arrotolato, a volte visibile solo da dietro: si vedono fili contorti, ma non il disegno; casi, incidenti, non Provvidenza. Chi lo ha detto che il libro non sia un assurdo? Un falso? Un finto libro senza conclusione, e senza senso? Il male, la sfiducia, la sconfitta, ci inducono a pensarlo. Perché un bellissimo fiore, o la nascita di un figlio, ci parlano di Dio; la morte e il male insinuano il dubbio.
Qual’ è, allora, l’ “intelligenza della fede”?
Presupporre che il senso vi sia. Cartesio sosteneva che l’ateo non può avere quella fiducia nelle facoltà razionali umane che deriva al credente dal sapere che esse vengono da un Dio che non inganna; ma il cardinal Henry Newman notava: “credo in un disegno perché credo in Dio, non in un dio perché vedo il disegno”. Forse, agostinianamente, si può riassumere così: “credo nel disegno, perché credo in Dio, e credendo in Dio vedo, meglio, il disegno”. Questa è, a mio avviso, l’intelligenza della fede. Richiesto sulla differenza tra lo scienziato credente e il non credente, il sacerdote padre della cosmologia contemporanea, Lemaitre, rispondeva: “Entrambi si sforzano di decifrare il palinsesto di molteplici stratificazioni della natura dove le tracce delle diverse tappe della lunga evoluzione del mondo si sono sovrapposte e confuse. Il credente ha forse il vantaggio di sapere che l’enigma ha una soluzione, che la scrittura soggiacente è, alla fine dei conti, opera di un essere intelligente, dunque che il problema posto della natura è stato posto per essere risolto e che la sua difficoltà è indubbiamente proporzionale alla capacità presente o futura dell’umanità”.
Chiosando: cosa fa sì che l’intelligere della fede superi la barriera del male, dello scandalo, del limite, dell’apparente casualità, talora, della natura e della storia, per arrivare più a fondo? Sino a scoprire il Dio, talora visibile, talora absconditus? Cosa fa sì che il dolore di Camillo de Lellis e la sofferenza di Giovanni di Dio abbiano generato non abbattimento e prostrazione, ma carità a fiumi? Che un credente accolga un figlio, anche se non voluto o malato, invece di abortirlo? E cosa fa dire, oggi, ad Annalisa Minetti, che ha cominciato a vedere, quando è diventata cieca? Cosa fa sì che un credente trasformi la sconfitta in un’opportunità, e veda la mano di Dio là dove altri vedono la cieca casualità? Tre virtù: la fede, che durante il buio non dimentica ciò che la ragione e il cuore, di norma, percepiscono e desiderano di ordinato, di vero, di bello, di buono; la speranza, che spinge a vivere ogni esperienza sapendo che in ultima analisi la Providenza veglia, benché velata; l’amore che esalta l’intelligenza, e le permette di sprofondare nel cuore intimo della realtà, perché dove c’è amore la comprensione fa un balzo: dal libro, al Mistero buono che lo governa, e poi, di nuovo, al libro. Non solo da leggere, ma di cui essere co-autori. Sempre e comunque, perché a garantire è Dio. Sia che agisca a viso aperto, sia che si muova in incognito. Il Foglio, 13/11/2014