giovedì 20 dicembre 2012

La fine del mondo, quella vera


 Riporto i seguenti due articoli da "La nuova bussola quotidiana".

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Confermando l’abituale malvezzo di leggere solo il comunicato stampa e non il rapporto nel suo insieme, molti quotidiani hanno commentato l’uscita dell’«Annuario statistico 2012» dell’ISTAT notando quasi esclusivamente il sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi nel Nord Italia, dove solo il 48,8% si sposa di fronte al sacerdote o al ministro di culto di altra religione. Questo dato non è sconvolgente. In assoluto, l’Italia rimane tra i Paesi europei con la più alta percentuale di matrimoni religiosi (60,2%). I parroci inoltre sanno bene che – per quanto la Chiesa non incoraggi affatto questa pratica – molte coppie oggi si sposano anzitutto in Comune in modo discreto, rimandando il matrimonio religioso e i festeggiamenti più solenni a «quando se li potranno permettere».

La percentuale di chi si sposa in Chiesa rimane comunque molto più alta, quasi doppia, rispetto agli italiani che nelle inchieste sociologiche affermano di riconoscersi negli insegnamenti della Chiesa in genere. E lo stesso Benedetto XVI ha osservato che il matrimonio religioso non è un diritto, e che non è necessariamente un bene che chi non crede al matrimonio cattolico si sposi comunque in chiesa, aumentando il numero di matrimoni potenzialmente nulli.

Assai più preoccupante è il calo dei matrimoni in genere. Nel 2011 ci sono stati quasi novemila matrimoni in meno del 2010. Il quoziente di nuzialità italiano è tra i più bassi del mondo: 3,6 matrimoni per ogni mille abitanti, contro una media europea di 4,7. In Europa solo Slovenia, Bulgaria e Lussemburgo hanno quozienti di nuzialità più bassi dell’Italia. Si smentisce così il mito secondo cui l’Italia è il Paese dei matrimoni a differenza del Nord Europa secolarizzato. In realtà, nell’Unione Europea, la Danimarca (5,6), la Finlandia (5,6) e la Svezia (5,3) hanno quozienti di nuzialità molto più alti del nostro, e anche la Germania (4,7) e la Gran Bretagna (4,4) ci sono nettamente davanti. Benché le statistiche sulle convivenze siano per definizione incerte, è probabile che il numero delle coppie conviventi sia già oggi più alto di quello delle coppie sposate.

Il lievissimo aumento (da 1,40 a 1,41), statisticamente insignificante, del numero dei figli per donna non fa diventare meno drammatica la cifra dell’inverno demografico in cui vive la nostra nazione. Siamo lontanissimi dal tasso di sostituzione demografica, e anche dall’1,62 che rappresenta la media dell’Unione Europea. È vero che ormai alcuni Paesi dell’Europa dell’Est – Lettonia (1,17), Ungheria (1,25) e Romania (1,33), quest’ultimo il Paese con il record di aborti – ci stanno strappando la poca invidiabile palma del Paese del mondo dove si nasce di meno, e che anche Germania (1,39) e Spagna (1,38) fanno peggio di noi. Anche se – forse è più di una curiosità – se fosse uno Stato indipendente una nostra regione, la Sardegna, avrebbe il tasso di natalità più basso del mondo (1,15). È anche vero che gli aborti, grazie a Dio, sono lievemente diminuiti. Ma c’è poco da stare allegri.

Il nostro tasso di natalità per mille abitanti rimane di 9,3, molto al di sotto della media – già bassa rispetto ad altre regioni del mondo – dell’Unione Europea, che è di 10,7.

Questo ci porta al dato più preoccupante: l’indice di vecchiaia, cioè il rapporto tra chi ha più di 65 anni e chi ne ha meno di 14. L’Italia ha uno spaventoso indice di vecchiaia di 144,5, contro una media dell’Unione Europea di 111,3. È il secondo indice di vecchiaia più alto del mondo, dopo quello tedesco che è di 154. Come ha spiegato su queste colonne Ettore Gotti Tedeschi, è questa prevalenza dei vecchi sui giovani – destinata ad aggravarsi con il diminuire dei matrimoni e il persistente basso tasso di natalità – la vera radice della nostra crisi economica. Né deve ingannare il dato secondo cui i ricchi tedeschi sono i soli al mondo ad avere un indice di vecchiaia peggiore del nostro. Nei giorni scorsi, la Banca Mondiale li ha già avvisati: continuando con questa demografia, nel 2030 – che non è lontanissimo – la Germania starà peggio dell’Italia di oggi, per quanto efficiente sia la sua economia. È una magra consolazione.

Come aveva previsto il Beato Giovanni Paolo II (1920-2005) l’Europa e l’Italia avanzano a passo di corsa verso il «suicidio demografico». È questo il vero spread, che ci rende tutti più poveri. (M. Introvigne)

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 BELGIO, ARRIVA L'EUTANASIA PER L' ALZHEIMER.

L’esempio si adatta bene alla stagione: se fate rotolare una palla di neve a valle questa diventerà una valanga. E’ quello che sta accadendo in Belgio. Nel 2002 il Parlamento belga confeziona una bella palla di neve sull’eutanasia rendendola legittima, ma solo a “beneficio” dei maggiorenni. Poi negli anni la palla di neve è arrivata sino a valle trasformandosi in slavina: a breve l’eutanasia potrà essere offerta come “servizio” anche ai minori e chi è affetto da Alzheimer. Questa è la proposta di legge presentata di recente dal Partito socialista e che con buona probabilità passerà in Parlamento perché già ora ha ricevuto l’appoggio da diversi partiti di destra e dai verdi. "Si tratta di aggiornare la legge per tener conto in modo migliore di alcune situazioni drammatiche, di storie estremamente dolorose (...) di fronte alle quali non possiamo restare senza risposta", ha spiegato il presidente del Partito socialista Thierry Giet. L’inferno è lastricato da buone intenzioni, tra le quali spiccano quelle pietose.
Il Belgio è l’ennesimo esempio di un teorema ormai verificato innumerevoli volte sul piano pratico: legittimate una pratica iniqua recintandola con infiniti paletti e vedrete che tempo qualche anno questi paletti uno alla volta salteranno tutti.
Ciò che è successo in Belgio, dove già una persona su cento muore per una pratica eutanasica, è un fenomeno sociale e culturale che nasce e si sviluppa intorno ad alcuni principi cardine del pensiero mortifero di carattere squisitamente eugenetico.
Primo: tu vali se sei sano. Se non lo sei ti scartiamo con l’aborto o con la diagnosi pre-impianto se concepito in vitro. Se invece sei già venuto al mondo siamo sempre in tempo a ricorrere all’eutanasia.
Secondo: tu vali non solo se dai prova di essere sano, ma anche se ci confermi che almeno sai fare qualcosa, che produci. Si chiama funzionalismo: la dignità di un essere umano è valutata a seconda delle sue abilità. Va da sé che il feto e il vecchio affetto da demenza senile poco valgono. Anzi: tolgono alla società delle risorse umane, di tempo ed economiche preziose.
Il tema era stato già trattato da Riccardo Cascioli in un suo articolo dell’agosto 2011 apparso sulla Bussola dal titolo “La morte ti fa generoso”. Scriveva Cascioli in merito ad un pezzo pubblicato sul New York Times a firma di David Brooks: “il nostro autore spiega che una parte importante del deficit [USA] è dovuto proprio a questo tentativo di allungare la vita da malati. Secondo Brooks, il male del nostro tempo è quello di non saper guardare in faccia la morte, così spendiamo ingenti somme di denaro pubblico per prolungare di qualche giorno, settimana, mese o anno una vita che ormai non ha più senso perché condotta comunque in malattia. Solo i pazienti di Alzheimer, dice Brooks, nel 2005 sono costati alle casse dello Stato 91 miliardi di dollari, e nel 2015 quella spesa sarà più che raddoppiata, a 189 miliardi, per poi raggiungere 1 milione di miliardi annui nel 2050. ‘Ovviamente – dice Brooks – non taglieremo i malati di Alzheimer mandandoli a morire da soli, su una collina. Mai useremo la coercizione per far morire anziani e malati. Ma è difficile pensare seriamente di ridurre la spesa sanitaria se le persone e le loro famiglie non cominciano ad affrontare la morte e i loro doveri verso i viventi’.”
Qui Brooks preconizza uno sviluppo – anzi: un’involuzione – della coscienza collettiva che a breve pensiamo si realizzerà in Belgio, Paesi Bassi e altre nazioni ormai sulla breccia da anni nelle pratiche eutanasiche. Ci riferiamo alla transizione culturale dal “diritto a morire” al “dovere morire”. Dovere che si fa pressante se, come un ospite ormai poco gradito, non togliamo il disturbo quando ormai siamo diventati per vecchiaia o malattia solo un vuoto a rendere. Insomma: si parla tanto di sostenibilità ambientale, perché non applicare il concetto anche alla vita delle persone?
Passato – perché prima o poi passerà – il principio che la nostra vita è un bene disponibile si arriverà a teorizzare che essendo bene disponibile potrà essere confiscato dallo Stato e potrà essere gettato nella spazzatura per il bene nostro o per quello dell’intera società. E poco importa se non saremo d’accordo, oppure, come nel caso dei minori e dei malati di mente, se non potremo né essere d’accordo né essere dissenzienti. Il passaggio sarà quindi dal principio di autodeterminazione inteso in senso assoluto – decido io della mia vita – al principio dell’eterodeterminazione: decidono i miei familiari, parenti, amici della canasta o lo Stato se la mia vita è per me o per la società ancora bene prezioso e utile. Fantasticherie? Non crediamo. E’ già successo e da noi. La Cassazione permise a Beppino Englaro di staccare la spina alla figlia perché egli agiva nel “best interest” dell’incapace. Fu lui a decidere, non certo Eluana.
Il calcolo dell’utilità della mia vita verrà dunque fatto tra pochi anni non solo tenendo conto della mia situazione particolare ma in vista del bene collettivo. E quindi porte aperte agli indici economici più importanti per capire se il gioco vale la candela, se c’è un qualche guadagno sociale nel tenere in vita chi come un parassita ci toglie risorse. PIL, spread, Iva, debito pubblico, età pensionabile, inflazione, costo del denaro e tassi di disoccupazione saranno le voci da inserire nel registratore di cassa della vita sostenibile. Tutto questo su un piatto della bilancia e sull’altro un povero vecchio di 83 anni che non riconosce più da tempo né figli né moglie e non si ricorda ormai da anni nemmeno il suo nome. Secondo voi da che parte si inclinerà il piatto della bilancia? (T. Scandroglio)