lunedì 2 settembre 2013

Insieme cercatori di Dio



Cristiani e musulmani nelle parole di due protagonisti del dialogo in Francia. 

È uscito in Francia il 29 agosto Le prêtre et l’imam. Entretiens avec Antoine d’Abbundo (Montrouge, Bayard Éditions, 2013, pagine 183, euro 17), di padre Christophe Roucou, direttore del Servizio nazionale per le relazioni con l’islam, e dell’imam Tareq Oubrou, rettore della Grande moschea di Bordeaux. Pubblichiamo una nostra traduzione della prefazione, scritta dal presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso.(Jean-Louis Tauran) Quando chiuderete questo libro, sarete più ottimisti. Due amici, due credenti, due membri attivi delle loro rispettive comunità, non solo ci insegnano che il dialogo interreligioso è una realtà molto concreta, ma dimostrano anche che non si tratta di un dialogo tra specialisti, tra teologi, ma di un dialogo tra credenti. Non sono le religioni a dialogare, sono i credenti. Conoscendo personalmente i due interessati, il rigore di Tareq e la fede gioiosa di Christophe, sono certo che molti lettori scopriranno le predisposizioni interiori di questi due “dialoganti”: rispetto, attenzione, perseveranza.
Leggendo queste pagine si percepisce bene che all’origine della loro amicizia e della loro collaborazione c’è una comune ambizione: ascoltare, accogliere, comprendere e amare. È un punto sul quale vorrei insistere, è la necessità di imparare ad ascoltare. Ciò presuppone che io sia intellettualmente e affettivamente disponibile per l’altro. Non si tratta di mettere tra parentesi la propria fede, di valutare le ricchezze dell’altro, di cercare semplicemente nell’altro quel che assomiglia di più a ciò in cui io credo; sarebbe la negazione del dialogo. Si tratta al contrario di avvicinarmi all’altro nella sua alterità, di ascoltare la presenza dell’Altro. Si tratta di accettare la diversità. Tutte le risposte di padre Christophe Roucou e dell’imam Tareq Oubrou mostrano bene che l’ascolto non è qualcosa di passivo, ma è attenzione e volontà di avere fiducia nell’interlocutore. Non è una questione di orecchio, ma è soprattutto un atteggiamento interiore. Quando tale dialogo si fonda su un ascolto insieme silenzioso e desideroso di comprendere, allora diviene trasparente ed è facile denunciare i pregiudizi che spesso sono all’origine delle nostre difficoltà.
Leggendo le risposte incisive di Tareq e di Christophe, si possono anche intuire gli ostacoli in grado di annientare la costruzione paziente degli scambi: una fede fragile, una conoscenza superficiale dell’altro, i fattori socio-politici, l’intolleranza, l’assenza di reciprocità. Ma possiamo anche intuire gli elementi che “salvano” ogni dialogo interreligioso: la fiducia reciproca dei credenti, la valutazione realistica delle condizioni socio-politiche nelle quali vivono, la possibilità d’incontrarsi in occasione delle feste religiose e tutto ciò che la vita quotidiana propone in termini di servizio e di collaborazione al bene comune. Come dice giustamente Christophe Roucou: «È nella relazione con Dio che si costruisce un certo tipo di uomo, una certa umanità. Le società totalitarie ci hanno insegnato che quando Dio viene messo da parte, anche l’uomo viene dimenticato. Mi sembra inoltre importante e urgente riaffermare che noi postuliamo che l’altro è un fratello in umanità perché crediamo che Dio ci ha creato, gli uni e gli altri. È su di Lui che si fonda questa fraternità» (pag. 44).
Ma tutto ciò non è un’attività a uso interno delle nostre rispettive comunità: i credenti che devono confrontarsi con la diversità culturale e religiosa, con i misteri e le difficoltà della vita, possono contribuire con il loro esempio al rinnovamento delle società. Poiché sanno vivere la diversità nell’unità, aiutano le società plurali ad accettare e a capire gli altri. Come dice Tareq Oubrou: «Si vive con Dio per vivere meglio con gli altri. Tipico della fede è far uscire l’essere umano dal suo ego per farlo entrare nell’Alterità assoluta e fare così posto agli altri uomini. È così che l’individuo si realizza: nel suo rapporto con Dio, nella sua comunità spirituale, nella sua società, nella sua umanità, nell’universo» (pag. 90-91).
Si può dunque vedere delinearsi in queste pagine una pedagogia del dialogo che consiste nel formare le comunità (religiose o non) alla differenza: alla capacità di vedere l’altro come un dono e non come una minaccia. Per noi cristiani, in particolare, l’altro è colui che è sempre capace di fare l’esperienza di Dio. Le nostre città saranno sempre più multi-etniche e multi-religiose. In tal senso, padre Roucou e l’imam Oubrou ci aiutano a credere insieme, a condividere i nostri valori e le nostre esperienze, e a testimoniare la nostra religione, in un contesto multi-religioso, talvolta anti-religioso. Attraverso la serietà del loro impegno e l’onestà delle loro risposte, ci mostrano bene che il dialogo interreligioso è tutt’altra cosa rispetto all’entusiasmo del cuore. È un impegno che presuppone una certa ascesi, disciplina e molta pazienza. È anche una rimessa in discussione salutare: quando dobbiamo definirci come cristiani o come musulmani di fronte all’altro, è l’intera nostra vita che dobbiamo esaminare. Ma tutto in definitiva si basa sulla fiducia e sull’amicizia degli interlocutori e tutto finisce in una fraternità realistica e, speriamo, contagiosa.
Dobbiamo essere grati ai nostri due amici che ci aiutano a costruire e a vivere con loro un dialogo che favorisce la maturità nella fede, il desiderio di approfondirla sempre più e di liberarla dalle sue false sicurezze, e a mantenere socchiusa la porta che si apre sul mistero dell’uomo. Il dialogo può essere in effetti l’appello di Dio alla fraternità universale. Mi guarderò bene dal dimenticare che tutte queste pagine sono attraversate dalla preghiera. Il lettore scoprirà, attraverso formule facili da ricordare, l’esperienza spirituale di questi due pellegrini della verità. La preghiera nutre il dialogo e l’orienta verso la verità, il cammino che conduce a Dio passa per l’uomo e il più grande servizio che possiamo rendere ai nostri fratelli in umanità è fare il bene, comportarci come credenti credibili, capaci di amare persino il nemico e di servire tutti gli uomini.
Papa Benedetto XVI, che è stato uno dei più ardenti promotori del dialogo islamico-cristiano, nel dicembre del 2012 invitava i suoi collaboratori a non aver paura di «prendere il largo nel vasto mare della verità». È a questa navigazione serena che ci invitano le presenti pagine poiché «non si dialoga solo per imparare a vivere insieme, ma anche per vivere insieme come cercatori di Dio», come afferma giustamente Christophe Roucou (pag. 56).
L'Osservatore Romano