sabato 21 settembre 2013

Messaggero di misericordia per le strade del mondo



A Bergamo la beatificazione del cappuccino Tommaso da Olera. 

(Rodolfo Saltarin, Vicepostulatore) L’uomo della misericordia che interviene per rappacificare gli animi, visitare e confortare gli infermi, ascoltare e incoraggiare i poveri, scrutare le coscienze e denunciare il male per favorire le conversioni. È il frate cappuccino, Tommaso Acerbis, che il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in rappresentanza di Papa Francesco, beatifica, sabato pomeriggio, 21 settembre, nella cattedrale di Bergamo. Era nato a Olera, in una borgata medievale della Val Seriana (ora appartenente al comune di Alzano Lombardo a pochi chilometri da Bergamo), sul finire del 1563. I genitori, papà Pietro e mamma Margherita, per mettere insieme pranzo e cena dovevano faticare sodo da mane a sera. Si pensa che i suoi avi fossero nobili e che sullo stemma avessero scolpito delle «uve acerbe».
Da bambino pascolava le pecore e poi da giovanotto sudava su fazzoletti di terra insieme al papà. All’età di diciassette anni decise di consacrarsi al Signore tra i cappuccini del Veneto. Raggiunta Verona, sede del noviziato, fu accolto come fratello non sacerdote (era analfabeta). Durante l’anno della prova e nei tre anni di formazione si rivelò un frate di profonda umiltà, ricolmo di speciali doni del cielo. 
Per tale motivo, nel periodo della formazione, il superiore padre Francesco da Messina gli insegnò anche a scrivere (eccezione più unica che rara in quel tempo), perché potesse riversare su fogli volanti ciò Dio gli andava suggerendo nel cuore. Poi, gli fu assegnato l’ufficio della cerca. Lo eserciterà per tutta la vita: trentatré anni in Italia e tredici in Austria (fece il portinaio solo un anno, a Padova, nel 1918-19). Caratteristica di Tommaso, come questuante per i frati e per i poveri del convento, fu quella di andare di anima in anima con la stessa facilità con cui andava di porta in porta. Perciò era molto di più quello che dava che quello che riceveva. Dava consigli, esortazioni e (quando richiesto) lezioni di ascetica e mistica; talvolta anche prodigi. Le tappe principali della sua vita furono: Verona, Vicenza, Padova, Rovereto e Innsbruck.
Si deve alla sua straripante generosità verso Dio e verso la Chiesa cattolica la nascita di due nuovi monasteri femminili (a Vicenza e a Rovereto) e la conversione di persone influenti. A causa della sua «sovrabbondanza d’amore», diventò maestro di spirito di diverse personalità come l’arciduca del Tirolo, Leopoldo V, e consigliere, a Trento, del cardinale Madruzzo. Tra i suoi numerosi figli e figlie spirituali, ricordiamo due eminenti figure: la badessa roveretana Giovanna Maria della Croce, «la figlia delle sue lacrime», che Tommaso condusse quasi per mano verso la consacrazione a Dio, e l’imperatore Ferdinando II d’Austria, che accompagnò in alcuni momenti cruciali del suo non facile governo. Morì nel convento di Innsbruck alle due di notte del 3 maggio 1631. I confratelli che gli stavano d’attorno e il superiore Provinciale che gli concesse il permesso di morire testimoniano che la sua fu una morte d’amore. Ricevuta la benedizione, Tommaso, che teneva stretto fra le mani un Crocifisso mezzo mangiato dai baci, si consegnò al cuore misericordioso di Dio. Aveva sessantotto anni di età e cinquantuno di vita religiosa. 
I suoi scritti, nati per obbedire ai superiori, far piacere a Dio ed essere di aiuto spirituale a chi li riceveva, sono ora custoditi nell’archivio dei cappuccini di Innsbruck. Ebbero l’onore di avere tre edizioni: quella di Augusta del 1682 e quella di Napoli del 1683 con il titolo collettivo di Fuoco d’amore; la terza, quella critica, con titoli distinti: Selva di contemplazione (2005), Scala di perfezione (2010), Trattatelli ed Epistolario.
Anche se sgrammaticati da un punto di vista formale, i suoi numerosi scritti sono ricchi di temi ascetico-mistici e persino d’illuminanti intuizioni. Temi e intuizioni che attendono di essere approfonditi da parte di specialisti in teologia fondamentale e mistica. Non è un caso che Giovanni Pozzi dia del nostro Tommaso questa definizione: è «uno degli autori ascetico-mistici fra i più interessanti del suo secolo».
Per me sono questi i temi più importanti: l’«amore puro» e la devozione al Cuore di Gesù. Con riferimento al primo, un censore dei suoi scritti lo riassume in questi termini: «Il tema dominante negli scritti ascetico-mistici del servo di Dio è l’amore di Dio, la contemplazione dei divini misteri, specialmente dei misteri della passione di Gesù, nonché delle disposizioni soggettive necessarie per raggiungere, con la grazia divina, il grado più perfetto dell’amore di Dio: un amore filiale, totalmente disinteressato, insomma quello che il Servo di Dio chiama l’”amore puro”».
Qual è il messaggio che scaturisce dalla devozione al Cuore di Gesù? È lo stesso Tommaso a indicarcelo, nel passaggio di una lettera a Maria Cristina, una consacrata di Hall: «Gusterà lo sposo Gesù in chiesa, in camera, vivendo, dormendo, operando nell’interno e nell’esterno. E in ogni luogo e tempo avrà la cara e dolce presenza dell’amato Cristo, nel quale lei dorme un sonno soave: nel cuore spalancato di Cristo». Inoltre: qual è il messaggio, che nasce dall’incontro fra il cuore aperto di Gesù, sintesi del suo amore verso di noi, e la risposta dell’«amore puro» come vertice della nostra vita spirituale? Tommaso lo comunica in questo modo: «(È) servire a Dio rettamente non guardando né a gloria, né a gusti e né a inferno, ma in ogni nostra azione, tanto spirituale quanto temporale, (è) guardare solo nella pupilla degli occhi di Cristo».
L’attualità del duplice invito — gustare l’amore di Dio verso di noi, vivendo nel cuore aperto di Cristo in croce, e corrispondere al suo amore attraverso la forma alta dell’«amore puro» — ci viene suggerita (sia pure indirettamente) dalla stima che Papa Giovanni XXIII aveva verso questo bergamasco, da lui definito — secondo la testimonianza del vescovo Loris Capovilla — «un santo autentico» e «un maestro di spirito». «Ciò che colpiva Papa Giovanni — continua il vescovo Capovilla — era la constatazione della perfetta fusione dell’umile vita di tutti i giorni, condotta dal laico cappuccino, con una vita eminentemente contemplativa. Negli ultimi giorni di sua vita (…) volle che a turno (…) gli leggessimo, oltre alle pagine dell’Imitazione di Cristo, del Breviario e di altri libri di pietà, copiosi brani di Fuoco d’amore».

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Nella cattedrale di Bergamo la beatificazione del cappuccino Tommaso da Olera. L’arte di essere poveri

Fede, carità, umiltà, povertà: sono tratti caratteristici della figura di Tommaso da Olera (1563-1631). Ad indicarli il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, che sabato pomeriggio, 21 settembre, nella cattedrale di Bergamo, ha presieduto — in rappresentanza di Papa Francesco — il rito di beatificazione.Tommaso da Olera, al secolo Acerbis, «religioso questuante, apostolo senza stola, predicatore instancabile del Vangelo», ma anche «consigliere di potenti e di sovrani (tra loro Paride Lodron, principe di Salisburgo, di Ferdinando II, imperatore d’Austria, dell’arciduca Leopoldo V, del duca Massimiliano I di Baviera)», è stato — ha ricordato il cardinale — «costruttore di chiese e monasteri, benefattore di contadini e minatori, anticipatore del dogma dell’Immacolata e dell’Assunta, precursore della devozione al Sacro Cuore, apostolo della controriforma, uomo ammirato per la sua umiltà, povertà e santità in Italia e in Austria».
Il nuovo beato, ha aggiunto, «può davvero costituire l’ideale sempre attuale del perfetto religioso, che — come dice il concilio Vaticano II — è persona di contemplazione e di zelo apostolico». Del resto, era questo l’auspicio anche di Paolo VI, che nel 1963 scriveva: «Possa il ricordo di quest’umile figlio della forte terra bergamasca spingere i sacerdoti e i fedeli a sempre maggiore donazione di sé nell’adesione consapevole alla verità rivelata, nell’impegno di testimonianza cristiana in tutti i settori della vita, e nell’esercizio instancabile e ardito delle virtù specialmente della carità».
In tempi e situazioni difficili per la fede cattolica, ha detto il porporato, Tommaso «visse intensamente il sentire cum Ecclesia». La sua fede infatti «non era ricerca faticosa della luce, ma sereno possesso della verità. Le sue certezze di fede gli davano il coraggio di testimoniare senza rispetto umano la piena adesione alla Chiesa cattolica nei cinquant’anni di frate questuante». Questo cappuccino, pur essendo sprovvisto di istruzione scolastica, «aveva il dono di parlare di Dio in modo alto e profondo non solo con i piccoli e i semplici, ma anche con le persone istruite e con gli stessi principi, da lasciare stupiti e ammirati». La sua fede era incrollabile e la professava sia con la parola, sia, «nonostante la sua poca dimestichezza con la scrittura, con trattatelli, nei quali esortava alla preghiera, all’amore di Dio e alla virtù».
Soffrì molto per le divisioni nella Chiesa e per cinquant’anni percorse le campagne e le città del Veneto, i monti e le vallate del Tirolo e dell’Austria per riportare tutti all’unità della fede. «Soleva dire — ha sottolineato il cardinale — che il suo apostolato era quello di raccogliere i frammenti caduti dalla mensa della Chiesa».
Dalla fede scaturì la carità verso Dio e verso il prossimo, che «si manifestava in convento e fuori convento, questuando di casa in casa per i suoi frati e facendo i lavori più umili, come lavare le scodelle, aiutare in cucina e lavorare nell’orto». Fu al servizio delle numerose comunità dove «l’obbedienza lo portava e a esse provvedeva con la ricerca quotidiana di elemosina». Nel Tirolo, ha ricordato, «ormai anziano, continuò la fatica della cerca su per i monti, a piedi scalzi e spesso con il freddo pungente». Cercava di portare la pace dovunque vi fossero conflitti, non solo all’interno delle comunità, ma anche nelle famiglie per spegnere l’odio fratricida. «La sua carità — ha detto — si concretizzava nelle opere di misericordia corporali e spirituali, confortando gli afflitti, visitando i carcerati, consolando e spesso anche guarendo gli ammalati». Ma Tommaso si distinse anche per la sua umiltà e la sua povertà. A questo proposito, considerandosi ignorante, indegno e peccatore, «nascondeva vita e grazie spirituali, attribuendo tutto il bene che faceva a Dio, rifiutando sempre lodi e onore, e chiedendo perdono a tutti prima di morire». Il cardinale ha ricordato che Tommaso indossava un abito povero e poveri sandali, spesso rammendati con l’ago, sempre a disposizione nella bisaccia. «Invitava alla povertà anche i ricchi — ha aggiunto — che spesso spendevano somme ingenti nell’abbellire le loro dimore». Era convinto, ha sottolineato, che «vivere e agire da poveri era un’arte da imparare, sia dai religiosi che dai laici. Per spirito di povertà impiegava bene il tempo nel lavoro, nella preghiera, nella carità verso i bisognosi. Visse e morì da povero su un misero pagliericcio».
L'Osservatore Romano