martedì 3 settembre 2013

Prima che sia troppo tardi



Terzo  tweet di Papa Francesco oggi: "Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! " (3 settembre 2013)

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Il cardinale Sandri ribadisce la necessità di fermare la spirale di violenza in Siria. 

(Nicola Gori) Fermarsi prima che sia troppo tardi. Perché rispondere alla violenza con la violenza in Siria significherebbe innescare una drammatica spirale che avrebbe «irreparabili sviluppi» per tutta la regione. Ma anche perché i primi a subirne le conseguenze sarebbero i cristiani d’Oriente, che «soffrono con tutto il popolo di quella nazione» e non vogliono essere considerati «stranieri». È il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, in questa intervista al nostro giornale, a raccogliere le preoccupazioni di Papa Francesco e a sostenere il suo forte appello per la pace in Siria.
All’Angelus di domenica Papa Francesco ha lanciato un appello per la pace in Siria dai toni particolarmente forti e angosciati. Siamo veramente a un punto di svolta nell’evoluzione della già drammatica situazione nel Paese?
Si può fare finta di niente. Ma non si può non vedere e non ascoltare la sofferenza e il grido di chi geme per la violenza e per la guerra. L’accorato appello del Santo Padre all’Angelus di domenica scorsa è venuto dal cuore di un padre preoccupato per le sorti dell’intera umanità. Di fronte alla corsa alle armi, che ha ulteriormente inasprito l’estenuante conflitto, e alla concreta possibilità di un ulteriore intervento armato entro il confine siriano, il Papa ha sentito tutta l’urgenza di chiedere che ci si fermi, prima che sia troppo tardi. È prevedibile, infatti, la malaugurata conseguenza di un coinvolgimento di altri Paesi nel conflitto con irreparabili sviluppi. Per questo egli si è rivolto indistintamente a tutti: a chi ha le armi, cominciando da quelle di distruzione di massa, e a chi le fornisce! A tutti ha chiesto di fermarsi. Ha benedetto le mani di coloro che si impegnano per l’assistenza umanitaria e ha espresso il desiderio che a essi si aggiungano molti altri e sia possibile, più che la guerra, la solidarietà di tanti volontari pronti ad alleviare le sofferenze che colpiscono soprattutto i deboli. A quelli che possono decidere le sorti dell’umanità ha chiesto di agire attraverso il negoziato e la diplomazia e non con le armi. Come ebbe a dire il beato Pontefice Giovanni Paolo II, l’8 ottobre 2000, consacrando l’umanità alla Madonna nel grande giubileo del 2000: «L’umanità possiede oggi strumenti d’inaudita potenza: può fare di questo mondo un giardino o ridurlo a un ammasso di macerie». In realtà le devastazioni vanno avanti senza sosta da più di due anni in Siria e sembra che non si voglia comprendere ciò che è drammaticamente evidente, cioè che di questo passo si può solo precipitare in un baratro. Anche su questo giungerà il giudizio di Dio e della storia.
Il Pontefice ancora una volta ha indicato la via del dialogo e del negoziato per risolvere la situazione in Siria. È ancora possibile comporre le posizioni delle diverse parti in causa e conciliare le esigenze di sicurezza e di stabilità dell’intera regione mediorientale?
Le parole del Papa sono ben lungi dal vago invito moralistico. Sono già un passo concreto indicato ai responsabili. Egli ha ben specificato che quanto stava per dire nasceva “dal suo intimo”, aggiungendo queste parole: «Chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza». Papa Francesco nel silenzio e nella preghiera si è messo in ascolto del proprio cuore, rattristato da tanto dolore. E ha voluto riportare alla voce insopprimibile della coscienza i combattenti, i potenti e l’umanità intera, dicendo: fermatevi in ascolto del cuore e non dell’interesse di una fazione, di un partito, di una alleanza politica, militare o economica. Ascoltare, dunque, per agire! Solo così è possibile «guardare all’altro come ad un fratello». Questa è la strada maestra, questa è l’autentica primavera umana, e perciò realmente anche araba per la Siria, l’Egitto e l’Iraq. Il Medio Oriente è attraversato dalla diversità: popoli ed etnie, religioni e culture (sunniti e sciiti, cristiani di diverse confessioni). E all’interno di questi grandi gruppi vi sono ulteriori suddivisioni. Ma il Medio Oriente è stato per millenni e può ancora essere il luogo ove la diversità impara nel quotidiano a convivere e a costruire l’unità. Però, va incrementata la logica del reciproco rispetto e della testimonianza. In questa prospettiva la stessa presenza degli orientali cattolici vorrebbe essere testimonianza vivente di come la diversità non ostacoli, bensì esalti armonicamente l’unità.
Perché la logica della violenza e della ritorsione non può essere la strada per risolvere la crisi siriana?
La logica della violenza e della ritorsione non è mai una strada da percorrere, perché induce ad una catena di accuse e vendette, che non tengono conto del sangue versato ed aumentano il rancore e l’odio, infrangendo a volte gli stessi vincoli familiari e comunitari. Così facendo la Siria si trasformerà sempre più in un inferno sulla terra. Laddove sono stati compiuti dei crimini, vanno sostenute le istituzioni e i tribunali internazionali chiamati a verificare e a giudicare in modo imparziale la violazione dei diritti della persona umana e dei crimini contro l’umanità.
Nel conflitto siriano i cristiani stanno soffrendo più delle altre realtà perché sono la componente più debole della società. Come aiutarli?
Il libro dell’Apocalisse ci parla dei cristiani come i redenti, coloro che hanno attraversato la «grande tribolazione» e «seguono da vicino l’Agnello, ovunque egli vada». Sentiamo l’attualità di questa parola pensando ai nostri fratelli d’Oriente, così vicini all’Agnello, al Signore Gesù, che nella liturgia, con consapevolezza profonda, celebrano come unico Redentore e al quale cantano la fede con la propria vita. Si pensi a pastori e fedeli uccisi per il fatto di essere cristiani e a quei vescovi e sacerdoti rapiti o spariti nel nulla. Non posso non ricordare i due presuli ortodossi, i due preti cattolici rapiti da mesi e infine padre Dall’Oglio. Anche per questo, secondo l’espressione del Vaticano II, i cristiani d’Oriente sono «i testimoni viventi delle origini» oggi più che mai, perché ci dicono con la vita Chi è la sorgente della speranza per l’uomo. È il Crocifisso, che ha versato il sangue per la pace universale. Proprio perché vogliono continuare ad essere cittadini dell’amata Siria, essi soffrono con tutto il popolo di quella nazione. Ma non vogliono essere considerati stranieri i discepoli di Gesù, che fin dalle origini del cristianesimo vivono in quelle terre condividendone pienamente le gioie e le sofferenze. Vanno sostenuti con la nostra preghiera e aiutati a rimanere amanti della verità e della giustizia. Si può e si deve far di tutto affinché sia possibile l’opera di carità di tanti volontari, cristiani e non, a favore delle famiglie e dei piccoli innocenti e indifesi. Troppo poco si è fatto per garantire corridoi umanitari e qui le responsabilità sono di tutte le parti in conflitto.
I cristiani orientali della diaspora come possono far sentire la loro voce all’opinione pubblica internazionale per favorire il processo di pace?
Per l’amore e l’attaccamento alle proprie radici possono confermare e incrementare l’ammirevole sostegno di cui hanno già dato prova. Li immagino in queste ore tra i primi ad attivarsi nelle diverse nazioni a diffondere le parole del Santo Padre, spendendosi per la maggiore adesione possibile alla giornata di preghiera e di digiuno di sabato prossimo. Ho tanta speranza soprattutto nei giovani, forse più disponibili a mobilitarsi, per amore della giustizia e della pace: anche in questa occasione essi sapranno “fare rumore”, come ha più volte chiesto loro il Papa a Rio nella Giornata Mondiale della Gioventù. Affido senz’altro ai giovani questa mobilitazione per la pace. Sappiano svegliare specialmente gli orientali, quelli che nel mondo ricoprono incarichi di responsabilità e quanti hanno immense possibilità, affinché si uniscano ai più umili, e soprattutto a Papa Francesco, perché sia ascoltato il “grido della pace”.
L'Osservatore Romano

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L'Osservatore Romano
Nel giorno in cui l’Onu certifica che i rifugiati siriani all’estero sono ormai più di due milioni, la minaccia di un inasprimento del conflitto, con conseguenze non valutabili ma certamente spaventose, pende sul popolo siriano e, più un generale, sull’intero Medio Oriente.

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Cristiani armeni in Siria: il rischio di un genocidio
di Stefano Magni

Sulla Siria si snocciolano molti dati, i 100mila morti, i 2 milioni di rifugiati, i 2 anni e 6 mesi di conflitto. Ma si dimenticano i circa 100mila cristiani armeni che vivono ad Aleppo. E i circa 6mila che hanno abbandonato la Siria nel timore di nuove persecuzioni. Si teme sempre per l’uso di armi chimiche da parte del regime di Bashar al Assad. Ma se i ribelli dovessero conquistare Aleppo, quei 100mila armeni potrebbero diventare le vittime di un nuovo genocidio. Fra i tanti popoli che temono un intervento statunitense contro Assad, gli armeni sono quelli che tremano di più.
La storia degli armeni in Siria è drammatica quanto sconosciutaNe abbiamo parlato con Antonia Arslan, scrittrice, nota al grande pubblico per aver scritto il romanzo “La masseria delle allodole” una delle più toccanti testimonianze del genocidio degli armeni del 1915, il crimine commesso dai Giovani Turchi, prodromo di tutte le violenze totalitarie del Novecento.
«Ci sono armeni da sempre in Siria – spiega Antonia Arslan – Ci sono sempre stati ad Aleppo, che è una città antica, ed era un vivace crocevia di popoli. E questa è la chiave per capire perché le deportazioni che seguirono i massacri degli armeni nel 1915 avevano come destinazione proprio Aleppo. E come questo abbia salvato parte delle vittime. Aleppo, nella terribile estate del 1915 e nell’anno successivo, si mobilitò per salvare quanti più deportati possibili. Si mossero gli armeni che vivevano nella città, si mossero gli occidentali che vi lavoravano, si mosse il console tedesco di Aleppo (Walter Rossler, una figura straordinaria) e anche la popolazione araba che era, sì, soggetta all’Impero Ottomano, ma non condivideva il suo odio per gli armeni. Il più grande albergo dell’Aleppo di allora, il Baron’s Hotel (dove in seguito sostarono anche Lawrence d’Arabia e Agatha Christie) era di proprietà di una famiglia armena ed era la sede dello stato maggiore di Djemal Pashà, il terzo dei triumviri turchi responsabili del genocidio. Era fanatico anche lui. Ma almeno era sensibile: ai soldi. Gli altri due triumviri, Talaat Pashà ed Enver Pashà, nel 1916 si precipitarono a chiudere questa “falla” del genocidio, apertasi in Siria. E infatti in quell’anno, con una serie di rastrellamenti ad Aleppo, molti armeni sopravvissuti furono arrestati e deportati nei campi di concentramento di Deir Ezzor, dove fu condotta la vera e propria “soluzione finale”. La comunità dei sopravvissuti, ad Aleppo, iniziò a ingrandirsi di nuovo, prima nel periodo del mandato francese, poi nella Siria indipendente».
Il rapporto dei cristiani armeni con il regime di Assad non è mai stato conflittuale. Ed è per questo che frange della resistenza ora li considerano “collaborazionisti”. In realtà, spiega Antonia Arslan: «I due Assad, padre e figlio, appartengono loro stessi ad una minoranza religiosa, quella degli alawiti, che costituisce il 10% della popolazione siriana. In origine, almeno, era un regime nazionalista laico. Non ha mai dominato l’idea di sterminare per l’appartenenza religiosa. Gli armeni, così come le altre minoranze cristiane della Siria, hanno vissuto con una certa tranquillità fino allo scoppio della guerra. L’ambasciatrice italiana, Laura Mirachian (di origine armena) ha sempre confermato che la situazione fosse stabile, relativamente tranquilla, per gli armeni di Aleppo. Non ci sono dubbi che il regime sia peggiorato e che gli ultimi anni siano stati terribili. Ma incolpare le minoranze cristiane di tutti i suoi crimini è un argomento che usano coloro che le vogliono sterminare tutte». Con l’inizio della rivolta e la sua degenerazione in guerra civile, le comunità armene «hanno tentato di fare quel che fecero i loro connazionali durante la lunga guerra civile libanese (1975-1990): rimanere chiusi nei loro quartieri, non attirando l’attenzione dei belligeranti. Cosa che è sempre più difficile. In Libano gli armeni sono riusciti a salvare i loro distretti, ma ora sono ancora a rischio, a causa dell’esportazione della violenza siriana nei Paesi vicini. La loro “politica della chiocciola”, quella di stare chiusi nei propri quartieri, deriva anch’essa dalla memoria del genocidio turco: l’esperienza dello sterminio è ancora troppo recente per non provare un senso di istintivo terrore».
E se vincesse la resistenza islamica al regime di Assad? «Mi hanno già raccontato episodi terrificanti. Una delle dinamiche classiche di questo tipo di “guerra” è lo stupro sistematico delle ragazze. Portate via dalle loro case, stuprate a ripetizione e poi uccise quando sono ridotte a straccio. Oppure convertite a forza all’islam e sposate con contratti di matrimonio che durano un giorno. E poi sposate da un altro uomo, e un altro ancora … e infine buttate via, uccise. Il terrore per questo tipo di violenza è fortissimo ed è evidente che le milizie jihadiste siano per l’eliminazione di tutte le enclave cristiane». Quando Aleppo stava per cadere definitivamente nelle mani dei ribelli, gli armeni si preparavano al peggio: «A fine maggio ne parlavo con monsignor Georges Noradounguian (rettore del Pontificio Collegio Armeno), che ha tutta la sua famiglia ad Aleppo. In quel momento sembrava che i ribelli dovessero espugnare la città. E lui mi diceva che la sua famiglia era chiusa in casa, nel quartiere armeno. Nel momento in cui fossero arrivati i ribelli, non sarebbe rimasto altro che lasciarsi andare giù dal terzo piano. Rispetto alla violenza, alle torture, alla morte lenta e dolorosa, è già meglio il suicidio». In vista di una possibile vittoria dei ribelli, le comunità armene in Europa e in Nord America non possono far altro che preparare una fuga di massa. Anche se: «Non credo che possano avere udienza da Obama. Il presidente statunitense ha sempre rifiutato di pronunciare la parola “genocidio” per i fatti del 1915, anche se lo aveva promesso in campagna elettorale. Quel che gli armeni cercano di organizzare, almeno, è una fuga. Ho paura che pensino che non ci sia più niente da fare per garantire la sopravvivenza di questa comunità in Siria. C’è solo l’idea di scappare e salvarsi dalla possibilità di un nuovo genocidio».