venerdì 6 settembre 2013

Una generazione perduta



A colloquio con il cardinale Vegliò sulla situazione dei rifugiati e dei profughi siriani. 

(Nicola Gori) La metà dei due milioni di profughi costretti finora a fuggire dalla Siria è costituita da bambini. Un dato che, più di ogni altro, fotografa le dimensioni della tragedia umanitaria del Paese mediorientale. «C’è il rischio che un’intera generazione di bambini diventi una generazione perduta» denuncia in questa intervista al nostro giornale il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, confermando che il dicastero vaticano sta seguendo quotidianamente l’evolversi della situazione e lavora a stretto contatto con gli organismi caritativi e con le Chiese locali.
Nel suo appello all’Angelus di domenica scorsa Papa Francesco ha chiesto di non risparmiare alcuno sforzo per garantire assistenza agli sfollati e ai profughi della Siria. Qual è la situazione attuale e quali sono i dati più aggiornati sulle persone che scappano dal conflitto e si riversano nei Paesi vicini?
La situazione umanitaria in Siria appare particolarmente disastrosa e ogni giorno che passa non fa che peggiorare, con profonde conseguenze umanitarie. Il massiccio esodo di rifugiati agita i Paesi limitrofi, sopraffatti dal gran flusso di arrivi. Negli ultimi sei mesi, infatti, il numero dei rifugiati è raddoppiato passando da un milione di persone a due milioni. La Turchia ha accolto 460.000 persone, il Libano 720.000, l’Iraq 170.000, la Giordania 520.000 e l’Egitto 110.000. Nella seconda metà di agosto più di 50.000 persone hanno attraversato il confine con il nord dell’Iraq. Il conflitto non risparmia neanche i bambini e il numero di quelli costretti ad abbandonare la Siria è arrivato a un milione. Dobbiamo essere grati e ammirare i Paesi immediatamente a ridosso della Siria che, nonostante l’enorme aumento dei rifugiati, hanno lasciato aperte le frontiere a quanti fuggono da quel Paese martoriato. Il campo profughi allestito a Zaatari, nel deserto della Giordania, è diventato la quarta città del Paese, mentre i profughi siriani in Libano rappresentano il 25 per cento della popolazione.
Tuttavia non bisogna dimenticare la popolazione che è rimasta in Siria.
Infatti. Un terzo della popolazione, sette milioni di persone, hanno bisogno di assistenza umanitaria. Più di 110.000 cittadini sono stati uccisi. Cinque milioni di persone sono state costrette a lasciare il loro luogo di residenza e sono diventate sfollati interni. Essi vanno a stare in zone che sono diventate campi di battaglia e cercano di sopravvivere, nella paura e nell’insicurezza, mentre attorno le infrastrutture vengono distrutte. Tutto ciò si ripercuote gravemente sull’assistenza sanitaria e sull’istruzione, mentre l’approvvigionamento alimentare, dal produttore al consumatore, è sconvolto. Le famiglie sfollate vivono ovunque sia possibile, nelle scuole e in altri edifici pubblici, in edifici parzialmente costruiti, in alloggi presi in affitto o presso familiari e amici. Bisogna ammettere che si tratta della situazione più tragica degli ultimi anni.
Che cosa si può fare per loro?
Neanche le Nazioni Unite e le organizzazioni non governative possono rispondere in maniera adeguata alle esigenze da affrontare, poiché non ci sono fondi disponibili. Devono lavorare con i mezzi a disposizione, facendo del loro meglio. L’appello dell’Onu per ottenere finanziamenti per far fronte alla crisi siriana nei primi sei mesi del 2013 — il più ampio appello per la raccolta di fondi mai lanciato — ammonta a cinque miliardi di dollari. Ad oggi, tuttavia, tale appello è stato coperto solo per il 40 per cento. Ciò significa che molti bisogni non saranno soddisfatti, causando ulteriori sofferenze alla popolazione. La mancanza di fondi non permetterà, inoltre, di raggiungere gli standard internazionali di assistenza. La comunità internazionale delle organizzazioni delle Nazioni Unite e di quelle non-governative opera nei Paesi limitrofi e nella stessa Siria, dove deve affrontare problemi di sicurezza. Nei Paesi circostanti i rifugiati vivono in modo indipendente nelle aree urbane, ed esistono anche popolazioni nei campi. Ciò richiede un approccio operativo differente. In entrambe le situazioni la vita è diventata dolorosa. Attualmente è evidente che nelle aree urbane aumentano le famiglie che non trovano alloggio e sono costrette a mendicare il cibo per sopravvivere; altre saltano i pasti; le tensioni tra i membri della famiglia sono in aumento; a volte nei campi non c’è spazio sufficiente. In Iraq, per esempio, un campo accoglie una popolazione tre volte maggiore di quanto previsto all’inaugurazione nell’aprile 2012. Le famiglie devono condividere le tende. Alcuni rifugiati non possono affrontare queste difficoltà e rischiano la vita per tornare in Siria.
Quali difficoltà incontrano le organizzazioni umanitarie che si occupano dell’assistenza agli sfollati e quali risposte ha dato la comunità internazionale per farsi carico della loro situazione?
Faccio notare che il 50 per cento di coloro che sono stati costretti a fuggire è costituito da bambini. La maggior parte di loro sono traumatizzati dalle crudeli esperienze vissute. Molti hanno perso i familiari durante i bombardamenti e sono fuggiti nella notte, quasi senza effetti personali. Alcune ong stanno affrontando questi traumi, tuttavia si tratta di un’attività che rimane limitata. Secondo molti, queste esperienze traumatiche lasceranno un’intera generazione di bambini segnata e c’è il rischio che diventi una generazione perduta. Allo stato attuale, è sotto gli occhi di tutti la fuga massiccia dalla regione. Sfruttati dai contrabbandieri, si avventurano su vere e proprie carrette del mare per arrivare nei Paesi europei, a volte a rischio della propria vita. Ciò mette in discussione anche l’atteggiamento dell’Europa. Nessuna nazione da sola può soddisfare le esigenze di tanti sfollati, ma altre nazioni dovrebbero aiutare i Paesi vicini alla Siria facendosi carico di queste persone e offrendo loro asilo o reinsediamento. Sarebbe di grande aiuto se i Paesi occidentali dimostrassero concretamente il loro impegno verso la condivisione di questa responsabilità e fornissero il reinsediamento come soluzione permanente. Ciò vuol dire invitare le persone e offrire loro la possibilità di crearsi una nuova patria, e ricominciare a vivere. La Germania ha offerto di recente l’ammissione per motivi umanitari a 5.000 rifugiati siriani, assicurando così un futuro a chi fugge.
Il Pontificio Consiglio ha in cantiere iniziative particolari per rispondere all’appello del Papa?
Il nostro dicastero studia giorno per giorno la situazione in Siria dai rapporti che arrivano quotidianamente dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) e dalle ong che lavorano in Medio Oriente. Abbiamo contatti con la Commissione cattolica internazionale per le migrazioni (Icmc), con la Caritas e con il Servizio dei gesuiti per i rifugiati (Jrs), che lavorano in loco e nell’area. Questo studio ci serve sia per preparare la nostra partecipazione alle riunioni del comitato esecutivo dell’Acnur, che si svolgono a Ginevra a cadenza trimestrale, sia per dare seguito a quanto discusso durante tali riunioni. Questa è essenzialmente un’attività di approfondimento e di ricerca per analizzare le diverse possibilità di intervento, per valutare quanto già fatto e per offrire suggerimenti a quanti agiscono. Il nostro dicastero svolge la sua opera sempre con le Chiese locali, che hanno la responsabilità diretta, e le Chiese in Siria, Giordania e Libano stanno lavorando alacremente e hanno dato risposte generose ed efficaci a questa drammatica situazione. Inoltre, uno dei compiti di questo Pontificio Consiglio è quello di far conoscere e sensibilizzare l’opinione pubblica su tale fenomeno. Devo aggiungere che a me personalmente la situazione in Siria sta particolarmente a cuore, essendo stato in Medio Oriente come nunzio apostolico in Libano dal 1997 al 2001.
L'Osservatore Romano