venerdì 25 ottobre 2013

Se Dio è buono, perché c’è il male?

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di Claudia Mancini     LaPorzione.it
Nel precedente articolo, post dal titolo Una perla nel deserto, una Madre della Chiesa, ci ha introdotto alla riflessione sul problema del male. Nel ripetere che «ogni opera buona si configura come fuga dal male», Syncletica insegna che il male c’è, e abita tra di noi, perché è il male della nostra anima. È male tutto ciò che la nostra volontà non sa vincere con il bene, o non sa trasformare in occasione per operare il bene. Per fuggire il male, con la coscienza virtuosa della quale Dio ci ha munito, bisogna combattere le tentazioni del diavolo, il «cacciatore eccezionale» e «astuto nei mali», pronto a offrire pretesti per qualsiasi peccato. Del resto, Dio è buono e da lui derivano solo beni.
Certo, si potrebbe obiettare che Syncletica espone una determinata concezione del male, quella della migliore tradizione spirituale cristiana, e che se solo si considerassero altre prospettive le parole di Syncletica non risulterebbero altrettanto illuminanti e condivisibili. Lungo la storia del pensiero, infatti, sono state elaborate molte teorie sul problema del male perché esso è intimamente connesso con la questione ineludibile del senso della vita. Non avrebbero senso una religione, una teologia e una filosofia che non si confrontassero con la sfida del male; tanto più se si avesse l’onesta intellettuale di ammettere che le discipline di matrice scientista-positivista non possono e non sanno affrontare, per statuto e metodo, la questione del male e del senso della vita. Se è vero che quello sul male è un discorso arduo e complesso, scegliamo di circoscrivere la nostra riflessione sul male laddove esso può essere usato come pretesto (demoniaco?) per negare la bontà di Dio. Insomma, dalla lectio di Syncletica passiamo alla quæstio“che Dio sia buono e da lui derivino solo beni è una verità della fede cristiana o è anche una verità di ragione?”. Procediamo per gradi.
Quale male può effettivamente costituire un pretesto per negare la bontà di Dio? Riteniamo che sia innanzitutto necessario introdurre la distinzione che Tommaso d’Aquino ha elaborato, recependola almeno da Agostino (e da Tertulliano), tra malum culpæ e malum pœnæ (Cfr. Quæstiones disputatæ de malo, q.1, a. 4.). Nel primo caso (malum culpæ) si fa riferimento al male di cui l’uomo è responsabile, cioè del male di cui si rende conto e che potrebbe evitare – perché se così non fosse non si parlerebbe di “colpa”. Un grave delitto, le terribili stragi disseminate nella storia, i quotidiani atti di violenza sono fatti ignobili le cui colpe, però, non possono ricadere su Dio; il malum culpæ va imputato agli uomini, per non aver ascoltato la propria coscienza capace di giudicare secondo la distinzione che ognuno ha ben presente, quella tra il bene (ciò che è da fare) e il male (ciò che è da evitare). Tuttavia, anche davanti al malum culpæ più grave, l’uomo trova sempre un misero pretesto per deresponsabilizzarsi, fino ad accusare Dio di avergli dato una natura tale da consentirgli il male, cioè di avergli dato la dignità della libertà. Questo arbitrario processo psicologico di estrema deresponsabilizzazione dell’uomo, davanti alla colpa della propria coscienza che non vuole scegliere il bene pur potendo, si trova ben descritta in una pagina di Paul Ricœur: «L’esperienza della colpevolezza nasconde nella sua profondità il sentimento di essere stati sedotti da forze superiori, che il mito non farà fatica a demonizzare. Così facendo, il mito non farà che esprimere il sentimento di appartenere ad una storia del male, sempre già là per ciascuno. L’effetto più visibile di questa strana esperienza di passività è che l’uomo si sente nello stesso tempo vittima e colpevole» (P.R., Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, trad. it. Morcelliana, Brescia, 1991, pp. 14-15). In realtà, il malum culpæ di cui ci si lagna, al punto da imputarlo a Dio o alla seduzione di «forze superiori», non può essere mai compiuto se non con autentica e piena responsabilità da parte dell’uomo. Non è insomma il caso del male inteso come “colpa” che può essere addebitato a Dio. Diverso è il caso del malum pœnæ, il male cioè che è solo subito da chi non ha di esso diretta responsabilità. È il caso emblematico e doloroso dellasofferenza innocente dei bambini vittime della crudeltà degli adulti o, ancor più, di una malattia o di unasofferenza subita. In questo caso, il male è inteso come qualcosa di così incomprensibile ed ingiusto che risulta davvero facile imputarlo a Dio. Di più, il malum pœnæ può diventare motivo di scandalo e di ribellione a Dio tale da offrire il pretesto per eliminare Dio stesso: «la negazione di Dio è nutrita dalla contestazione che l’enigma del male gli indirizza, ma un tale enigma non fa un solo passo avanti, al contrario, con la soppressione di Dio. Con questa non si spiega la sofferenza, non si sgomina né il dolore né il male. Viene anzi persa la speranza in una finale vittoria su di loro» (V. Possenti, Dio e il male, Sei, Torino1995, ix). Si può “eliminare Dio” ma, così facendo, non si elimina il problema del male dall’orizzonte di senso.
Quale Dio può essere ritenuto causa del malum pœnæ? Il malum pœnæ può essere imputato a Dio solo a patto che Dio sia riconosciuto come l’effettivo responsabile di ogni cosa, il creatore unico, Principio e Fine del mondo, e che si affermi la dipendenza dell’uomo e del mondo intero da lui. Il malum pœnæ può essere imputato effettivamente solo a un Dio creatore, perché solo la creazione esprime adeguatamente la concezione di derivazione e dipendenza totale dell’uomo e del mondo da Dio. Bisogna considerare che una nozione di creazione siffatta entra nella storia del pensiero solo con la rivelazione ebraico-cristiana: «è stato il cristianesimo ad aver annunciato in tutto il mondo la visione coerente di un Dio onnipotente, unico e creatore, e se proprio questo è il presupposto per imputare a Dio il malum pœnæ, è dunque solo nell’ambito della tradizione cristiana che ha senso porre il problema del male chiedendone conto a Dio» ( Cfr. R. Di Ceglie, Dio e l’uomo, LUP, Città del Vaticano, 2007, pp. 170-180). Se è solo al Dio cristiano che ha senso imputare il malum pœnæ, una riflessione coerente sul male, che pretenda avere dignità filosofica, non può prendere in considerazione il cristianesimo fino ad un certo punto. Se al Dio cristiano imputiamo il male perché Egli è il creatore, non possiamo dimenticare, però, la stretta connessione che nel cristianesimo vi è tra creazione e provvidenza:«Sebbene il male, in quanto esce dall’agente proprio sia cosa disordinata, e sotto questo aspetto si definisca come privazione dell’ordine, ossia disordine, nulla impedisce che da un superiore agente sia introdotto in un ordine; ed è così che cade sotto la provvidenza» (Tommaso d’Aquino, Quæstiones disputatæ de veritate, q. 5, a. 4, ad 3). Lo stesso Dio creatore al quale si vuole imputare il male è l’Innocente che muore per gli uomini, perché se «le opere di Dio sono sue» risulta evidente che «Egli ama sino la più umile tra esse». Una riflessione coerente sull’enigma del male dovrebbe spingersi fino in fondo al mistero del cristianesimo, fino al «Logos della croce». Solo se si colloca il male nell’unica prospettiva capace di rendergli coerentemente ragione, fino alla finedella storia della salvezza, già qui ed ora si potrà vedere il male con occhi nuovi: apparirà che la sofferenza a volte è motivo di crescita e conversione, e dunque produce bene; che i dolori e sofferenze di ogni tipo a volte si possono rivelare l’unica via per acquisire un’umanità piena; che le sofferenze, rintrodotte all’interno della questione del senso della vita, non trovano spiegazione ma la danno.
Bontà e provvidenza divina – Torniamo alla nostra quæstio: “che Dio sia buono e da lui derivino solo beni è una verità della fede cristiana o è anche una verità di ragione?”. Il tema della bontà di Dio non può prescindere da quanto detto fino ora. Che Dio sia buono e da lui derivino solo beni, è un’affermazione che consegue dal riconoscimento della dipendenza dell’uomo e del mondo intero da lui. Essendo il rapporto di creazione tra Dio e l’uomo quello che esprime adeguatamente e coerentemente la concezione di una derivazione totale del mondo da Dio, è solo nell’ambito della tradizione ebraico-cristiana che ha senso porre il problema del male chiedendone conto a Dio. La nozione di creazione rappresenta uno dei maggiori contributi del cristianesimo al pensiero filosofico, e il cristianesimo solo – con il «Logos della croce» – è capace di offrire una visione filosofica coerente con una tale nozione, fino ad includere un’altrettanto adeguata e coerente risposta al problema del male.
Tuttavia, non possiamo trascurare che i filosofi pre-cristiani avevano implicitamente intuito questa concezione cristiana della connessione tra creazione e provvidenza, poiché erano criticamente (nei confronti del mito) alla ricerca dell’Uno, dell’Arché, e, da Platone ad Aristotele, avevano sempre identificato il Principio ed il Fine, in quanto tale, come Bene. Leggiamo nella Repubblica«Non si può scusare né l’errore di Omero né quello di alcun altro poeta quando, senza alcun fondamento di verità, affermano che “due vasi sono posti sulla soglia di Zeus/ed essi contengono le sorti: l’uno le sorti felici e l’altro quelle funeste”; […] né si può dire che Zeus è per noi dispensatori di beni e di mali». La conclusione di queste considerazioni è ancor più esplicita: «Insomma, quello che va evitato in ogni modo è che si attribuisca a dio, che è buono, la responsabilità dei mali». [Platone,Repubblica, 379 de; 380 d]. Sul tema della bontà di Dio e dell’opposizione tra esistenza del male ed esistenza di Dio, interessante è anche quanto emerge dalla lettura del dialogo platonico Alcibiade minore, dialogo Sulla Preghiera. Socrate invita gli uomini a pregare gli dèi per chiedere cosa sia veramente propizio per loro: «Penso, quindi, Alcibiade, che fosse saggio quel poeta che, mi sembra, […] compose una preghiera che dice pressappoco così: “O re Zeus, dacci i beni sia che li chiediamo sia che non li chiediamo, ma allontana i mali anche se li chiediamo”». Socrate riconosce una differenza sostanziale tra uomini e dèi, per cui solo questi ultimi sanno cosa è veramente bene per gli uomini. Aggiunge, poi, Socrate: «Mi domando se gli uomini non “accusino” senza alcuna ragione gli dèi quando imputano loro l’origine dei propri mali, mentre sono proprio loro che con le proprie scelleratezze, o piuttosto stoltezze, si procurano dolori oltre la propria sorte». [Platone, Alcibiade Minore,142e –143a; 142 de]. Nelle Leggi, riferendosi all’Assoluto e alla sua perfetta distribuzione di beni e mali, Platone arriva perfino a fondare le ragioni dell’esistenza di un “ordine provvidenziale”: «Tu stesso, misero mortale, per quanto piccolo tu sia, entri per qualche cosa nell’ordine generale e vi ti riferisci continuamente. Ma tu non rifletti che ogni generazione particolare si fa in vista del tutto, perché esso viva di una vita felice; che nulla si fa per te, e che tu stesso sei fatto per l’universo; che ogni medico, ogni abile artigiano, dirige tutte le sue operazioni verso un fine, tendendo al bene comune e riferendo ogni parte al tutto, e non il tutto a qualcuna delle parti. E tu mormori, perché ignori ciò che è il meglio nello stesso tempo per te e per il tutto, secondo le leggi dell’esistenza universale». [Platone, Leggi, 903 bc]
Che Dio sia buono e da lui derivino solo beni non è solo una verità delle fede cristiana, è anche una verità di ragione concepita e difesa dai maggiori filosofi pre-cristiani. Del resto, secondo la celebre espressione di Epicuro, se Dio permette il male, o non è onnipotente (ma allora non è Dio) o non è buono (e quindi non va adorato, come conviene ad un Dio). La sola ragione è sufficiente, negli uomini di buona volontà, per comprendere che il problema del male non si risolve se si “elimina Dio”, tantomeno se si ammette la coesistenza di due Principi, il bene ed il male, o l’“esistenza del male in Dio”. Che Dio sia buono e da lui derivino solo beni è una verità di ragione che il cristianesimo ha portato a compimento: solo il cristianesimo è stato capace di offrire una visione filosofica coerente con una tale nozione di Dio, fino ad arrivare a dare una altrettanto adeguata e coerente risposta al problema del male.
Questione complessa, quella del male, che forse abbiamo solo sfiorato. Tuttavia, l’aver mostrato come la questione della “bontà e provvidenza di Dio” sia presente nei filosofi pre-cristiani come verità di ragione prima ancora che di fede, pensiamo sia stata una buona occasione per mostrare come l’essenza della religionecristiana sussista ad un livello di “filosofia implicita” (Fides et Ratio) nella dimensione intellettuale e morale di ogni uomo di buona volontà. “Filosofia implicita”, “senso comune”, “senso comune religioso”, sono categorie del pensiero dimenticate da certa filosofia moderna e contemporanea, perché mostrano una verità scomoda per alcuni: «l’uomo è spontaneamente religioso, anche se non spontaneamente cristiano». Che cosa sia e quale valore abbia il “senso comune religioso” tenteremo di spiegarlo nel prossimo articolo, affidandoci all’autorità di Paolo VI e Don Giussani.