domenica 16 febbraio 2014

Don Ciotti legge la «Evangelii gaudium»



«La vera gioia è accogliere l’altro»
intervista a Luigi Ciotti a cura di Paolo Lambruschi
in “Avvenire” del 16 febbraio 2014

Per tanti, credenti e no, un pastore che ha addosso l’odore delle pecore è don Luigi Ciotti, cui il 
cardinale Michele Pellegrino affidò tanti anni fa la parrocchia della strada. 
Nella sua esperienza nelle periferie urbane e umane, lei è riuscito a conservare la gioia del 
Vangelo e ad annunciarla? 
La gioia è l’attenzione all’altro, mettersi nei suoi panni. La gioia del cristiano è lo spogliarsi dell’io, 
il farsi accogliente. E ovviamente farsi carico della sofferenza e dell’ingiustizia che incontra nel 
cammino della vita. Annunciare la gioia non è un semplice consolare o compatire, una pacca 
affettuosa sulle spalle. Certo anche la solidarietà è importante quando viene dal cuore, ma di fronte 
a certe ferite, lutti, umiliazioni, la manifestazione di vicinanza non basta. Bisogna dare speranza alle
persone, dando loro gli strumenti affinché ritrovino dignità. La gioia del cristiano è questa, perché 
aiuta gli altri a sollevarsi dalla disperazione e perché una vita dedita a questo impegno è intensa, 
dunque felice. Ma gioia è prima di tutto avere come compagno di viaggio Dio. Compagno a volte 
scomodo, esigente, ma che non ci lascia mai soli. 
L’esortazione «Evangelii gaudium» parla di «tristezza individualista ». Come contrastarla? 
Francesco ci ricorda che l’essere umano ha natura sociale. I rapporti ci nutrono, quelli con gli altri o
quello con Dio. Credo che le due dimensioni non solo non siano incompatibili, ma strettamente 
legate l’una all’altra. Si può arrivare a Dio attraverso le persone e arrivare alle persone attraverso 
Dio. La «tristezza individualista» da cui anche il credente non è immune è anche frutto di una fede 
più attenta alla lettera che allo Spirito, alla dottrina che alla vita. La gioia è quando saldiamo il Cielo
e la Terra, quando riconosciamo nelle opere umane la «fame di sete e di giustizia » del Vangelo e 
nel Padre eterno un Dio che soffre per noi e con noi, collaborando alla costruzione della giustizia 
già in questo mondo. 
Nel contesto urbano i cui mali sono «il traffico di droga, l’abuso e lo sfruttamento di minori, 
l’abbandono di anziani e malati» il Papa vede un terreno di contraddizioni e sfide evangeliche.
Qui la Chiesa come può servire meglio l’uomo e la giustizia? 
Non stancandosi mai di accorciare le distanze. La Chiesa deve abitare la storia e andare incontro 
alle speranze di giustizia di ognuno, al di là di fedi e orientamenti culturali. Gesù non distingueva di
fronte alle sofferenze di deboli, emarginati e vittime! Questo impegno deve partire, come non si 
stanca di ricordarci il Papa, dalle periferie perché è da lì che si costruisce la speranza di tutti. 
Società prospere sono quelle che costruiscono progetti di cittadinanza a partire dai più poveri e 
deboli senza dimenticare le periferie dell’anima, perché si può essere economicamente garantiti, ma
fragili e disperati dentro. Poi c’è l’altro lato della medaglia. L’impegno non riguarda solo la Chiesa 
ma la politica e infine tutti noi. Il Papa parla di «cittadini a metà». La gravità dei mali delle città è 
inversamente proporzionale al nostro grado di responsabilità: più riusciamo a essere cittadini 
sempre, con quel che comporta in termini di coerenza, onestà, attenzione agli altri, più quei mali si 
ridurranno. Vale per laici e cristiani. 
Il Papa propone anzitutto la conversione del Papato. Che ne pensa? 
Che ci sta dando una grande lezione di umiltà e saggezza. Ci ricorda che il declino delle istituzioni 
politiche, spirituali, economiche, comincia quando il potere prende il posto del servizio e il 
principio di immunità quello di responsabilità. L’esortazione al cambiamento è credibile se 
l’esempio viene dall’alto. Quanti potenti possono affermare di darlo? 
Per Francesco ambiti di nuova evangelizzazione sono i battezzati «che non vivono le esigenze 
del Battesimo, non hanno un’appartenenza cordiale alla Chiesa e non sperimentano la 
consolazione della fede» e chi non conosce Gesù o lo rifiuta. Cosa significa per lei? 
Significa, credo, quello che il Papa dice in un altro bellissimo passaggio dell’Evangelii gaudium : 
«La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione». La missione della Chiesa non è 
trasmettere precetti, ma liberare le persone, renderle capaci di responsabilità e amore. Perciò deve 
saper parlare a tutti usando, dove il suo lessico può suonare estraneo, la forza dell’esempio, del 
gesto, della testimonianza incarnata. Per il martire don Pino Puglisi il fatto che la sua opera di 
evangelizzazione portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede non era segno di sconfitta. A lui 
importava che le persone si aprissero allo stupore, alla conoscenza, alla responsabilità per trovare, 
anche da laici, il loro modo di credere e vivere. «Nessun uomo è lontano dal Signore – scrisse un 
giorno –, Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il suo amore, non forza 
il cuore di nessuno. Ogni cuore ha i suoi tempi che neppure noi riusciamo a comprendere». 
«Questa economia uccide». Il Papa condanna così le ingiustizie provocate da un sistema 
economico e finanziario che divinizza mercato e denaro consumando gli esseri umani. Anche 
Benedetto la chiama «cultura dello scarto». Come si contrasta? 
Ridando dignità alle persone. Cioè lavoro, possibilità di costruirsi un’autonomia, di realizzare 
passioni, soddisfare quel bisogno di conoscenza che una società volta al futuro non deve smettere di
alimentare. In una parola, con la giustizia sociale. Ha ragione il Papa: quest’economia uccide. E lo 
fa ammazzando la speranza. Volteremo pagina quando saremo capaci di costruire maggiore 
uguaglianza, una più equa distribuzione del reddito, una meno inaccettabile disparità fra salari e 
profitti, e una più decisa tutela dei beni necessari alla vita, quei beni comuni che non possono essere
proprietà di nessuno. Occorre un profondo cambiamento culturale, un’emancipazione dall’ideologia
dell’avere e del possesso. Ciò che resta – e si trasmette – è l’essere, sono le relazioni. I beni 
materiali siamo destinati a perderli. 
Tra i mali di oggi, il Papa mette «una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista» di 
dimensioni mondiali. Da dove possono partire singoli, comunità e associazioni per 
combatterli? 
Da proposte educative, da coerenza e credibilità. Servono leggi adeguate, Gruppo Abele e Libera 
sono impegnati perché sia approvata presto una più efficace normativa anticorruzione. Ma questa – 
ci ricorda il Papa in uno splendido testo, «Guarire dalla corruzione», edito da Emi – è una malattia 
sociale e prima ancora della relazione, tanto più grave perché mascherata da un’assoluzione 
preventiva che unisce corrotto e corruttore. Vinceremo corruzione, mafie, illegalità, se saremo 
capaci di scrivere leggi fondate nella voce delle coscienze. Fare il bene non vuol dire solo rispettare 
le regole. Significa, di fronte al male, non voltare la testa.