martedì 18 febbraio 2014

Il Papa visto da vicino



Il  tweet di Papa Francesco: "Impariamo da Gesù a pregare, a perdonare, a seminare pace, ad essere vicini a chi è nel bisogno." (18 febbraio 2014)

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«È passato solo un anno di pontificato e sembra invece che sia trascorso un secolo». Si apre con questa constatazione il saggio in cui Giuliano Vigini ripercorre e analizza i primi 12 mesi di «Papa Francesco» (questo il titolo del volumetto delle Paoline, pp. 110, euro 7,50). Il sottotitolo enuncia invece il taglio del lavoro: «La Chiesa incontra il mondo». Infatti Vigini – da sempre accurato esegeta dei pontificati da Wojtyla in poi – ritrova l’«obiettivo prioritario» di Papa Bergoglio nel far percepire che «la Chiesa è una grande famiglia, dove si dialoga, ci si incontra, si condividono le esperienze di tutti. Una Chiesa aperta, accogliente, dinamica, che non parla soltanto a quelli che già ci vivono, ma esce dalle mura per farsi incontro a tutti». Anzi, è papa Francesco stesso a «uscire dalle mura», «dando l’esempio di come si può costruire, nella misericordia e nell’amore, una Chiesa più bella e una società migliore». Tutto il volume documenta poi tale assunto, ritrovandolo sia nel magistero, sia nelle prediche, sia nei gesti di questo ancor breve pontificato. Nelle ultime pagine, il decalogo e la cronologia del nuovo Papa.

Francesco: invito alla lettura. O meglio, alla comprensione. Per lasciarci in­terpellare, per metterci in discussio­ne, avere il coraggio di cambiare, dal­le parole e dall’esempio, dagli oriz­zonti aperti da papa Bergoglio. È que­sto che ci propone nella sua imme­diatezza Il progetto di papa Francesco. Dove vuo­le portare la Chiesa  (Emi, pp. 128, euro 9,90), la conversazione del vaticanista di Repubblica Pao­lo Rodari con padre Victor Manuel Fernandez, ar­civescovo e rettore dell’Università Cattolica Ar­gentina di Buenos Aires, da oggi disponibile nel­le librerie.

«In questo libro abbiamo cercato di capire dove lui ci vuole portare, ma ancora mi domando co­sa Dio ha voluto fare con la sua elezione», dice con franchezza padre Fernandez alla fine. Ma la sua voce non è quella di chi s’improvvisa esege­ta delle parole del Papa; il teologo è stato uno degli stretti collaboratori di Bergoglio per la rea­lizzazione del documento di Aparecida nel 2007 e certamente può essere considerato una delle personalità ecclesiastiche argentine che meglio conosce il suo pensiero. Ma soprattutto è que­sto che emerge dal suo riflessivo percorso den­tro alle parole di Francesco: come sacerdote e­gli si è lasciato interpellare nel vivo dalla sua a­zione, dalla sua testimonianza di vita, dalla sua cifra paterna di pastore.

«Anche se c’è una grande affinità di idee, per me egli stato ed è soprattutto un grande padre che è riuscito a riconoscere e a promuovere il meglio di me. In questo modo, con tenerezza, ha tolle­rato i miei errori, le vanità e le impazienze, e sem­pre mi ha spinto, in particolare con la sua testi­monianza, a continuare, a maturare e a cresce­re. Quello è per me il suo insegnamento più im­portante, perché mi ha fatto capire cosa signifi­ca essere sacerdote e come i sacerdoti debbono trattare le persone». È quanto ancora dice alla fi­ne. E forse è bene cominciare proprio da qui, dai frutti riusciti, per entrare nell’inizio.

E l’inizio non può che venire da una sollecitudi­ne ineludibile che costituisce il tratto portante del magistero di Francesco, caratterizzante del­la sua personalità e della sua missione: «L’an­nuncio del cuore del Vangelo prima di ogni altra cosa», afferma Fernandez. «Prima di tutto», pri­ma di qualunque programma, perché è destina­to a noi stessi. Per questo egli spiega la novità dell’Evangelii Gaudium, che non può essere u­no dei tanti testi da abbandonare in libreria. È la voce di un padre che sveglia, chiama, invita. E ri­percorrerne il cammino interno significa ad- dentrarci nelle pieghe del cantiere del suo pen­siero. Comprendere nella sostanza ciò che il pa­pa venuto dalla fine del mondo, lasciandosi gui­dare dallo Spirito Santo, apre non solo alla Chie­sa.

Padre Fernandez si sofferma sugli snodi essenziali: sulla missione co­me uscita da sé, sulla concezione di popolo, sullo spirito di rinnova­mento e di riforma che viene dal Concilio e che intende proseguire, sul dialogo per una reale «cultura dell’incontro» e sull’ecumenismo. Ma è proprio nell’accento posto sull’annuncio del cuore del Vange­lo, da intendere nel contesto di un rinnovamen­to della Chiesa, il nodo centrale per comprendere l’insegnamento e le scelte di questo Papa. «Egli pensa che una Chiesa che vuole uscire da se stes­sa e raggiungere tutti debba necessariamente a­dattare il suo modo di predi­care. Francesco ci in- vita a riconoscere che molte volte i precetti del­la dottrina morale della Chiesa si trovano al di fuori del contesto che dà loro significato. Una pastorale missionaria non può essere ossessio­nata dalla trasmissione disarticolata di un insie­me di dottrine che pretende di imporre a forza di insistere. L’annuncio per arrivare a tutti si de­ve concentrare su ciò che è l’essenziale, che è al­lo stesso tempo ciò che è più attraente perché ri­sponde alle esigenze più profonde del cuore del cuore umano».

È dunque importante «un’adeguata proporzio­ne, un equilibrio in relazione a questo 'cuore', e per questo egli applica un criterio proposto dal Vaticano II spesso dimenticato: 'la gerarchia del­le verità'. Le verità cristiane si comprendono nel­la loro relazione reciproca e ancor più in relazione al centro: l’amore infinito di Dio che chiama alla sua amicizia, che offre salvezza e vita». Fernandez si addentra inoltre un altro male che snatura la missione: «Il problema dell’ego elitario». «È un egocentrismo che deforma la missione del servizio che Dio ha comandato loro» spiega, e che por­ta alla mondanità spirituale che avvelena la Chie­sa.

Nel suo documento magisteriale Francesco lo spiega in modo crudo e diretto: «Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparen­za. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’oriz­zonte chiuso della sua immanenza e dei suoi in­teressi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati, né autenticamente è aperto al perdono. È una tremenda corruzione con ap­parenza di bene (n. 97)». «Credo che chiunque riesca a capire questo – dice Fernandez – arriverà a scoprire la controparte positiva; in altre paro­le lo stile di vita che egli vuole proporre ai fede­li ha come simbolo prezioso la figura umile, spo­gliata, libera e generosa di san Francesco d’As­sisi».

Lui, il Povero d’Assisi, si è lasciato guardare, 'ri­creare' da Cristo. Lui si è lasciato interpellare a cuore nudo. E non ha messo il saio per acquistare consensi. Ciò che chiede papa Francesco non è dunque un cambio d’abito, non è un appello ad allinearsi, ad adeguarsi ad una nuova linea pa­pale. Non siamo chiamati a «francescanizzarci». Perché l’autentica povertà di spirito, l’evangeli­ca povertà non s’indossa. Una mera emulazione di Francesco, un’emulazione esteriore ci fareb­be apparire solo ridicoli.

Stefano Falasca (Avvenire)

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Vangelo e cultura secondo Paolo VI

L'analisi del teologo padre Diego Fares sulla antropologia di Francesco alla luce della "Evangelii nuntiandi" di Montini, sul numero di sabato de "La Civiltà Cattolica"


In un articolo dell’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica” uscito sabato 15 febbraio, padre Diego Fares, uno dei teologi più stimati dall’attuale pontefice, ha illustrato la visione antropologica di Papa Francesco, che è in gran parte ispirata, secondo l’autore, all’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” scritta nel 1975 da Paolo VI (p. 351). Desideriamo riprendere questo testo, che per la sua profondità, è ancora estremamente attuale.
Scrive Paolo VI: “occorre evangelizzare – non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici – la cultura e le culture dell’uomo, nel senso ricco ed esteso che questi termini hanno nella Costituzione «Gaudium et Spes»”.
Secondo il Pontefice, è necessario che il messaggio del vangelo si incontri con la cultura e le culture dell’uomo moderno. Per cultura non si intende qui l’erudizione, il puro sapere, ma, secondo quanto affermato appunto dalla Gaudium et Spes al numero 53, “tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano”.
Se dunque la cultura è tutto ciò che ruota attorno all’uomo e alla sua vita, il vangelo non può non interagire con essa. Quando il Verbo si è fatto carne nella persona di Gesù di Nazaret, il divino ha assunto completamente la natura umana, ivi compreso l’aspetto culturale. Gesù infatti fu in tutto un uomo di cultura ebraica: parlava in aramaico, osservava le leggi del suo popolo, onorava le festività giudaiche, pregava nel Tempio di Gesusalemme, ecc.
È in questo contesto culturale che egli annunciò il messaggio di salvezza. Non vi è dubbio che il suo Vangelo, espresso nell’idioma ebraico, con categorie culturali tipiche del suo popolo, non solo avvicinò gli uomini a Dio, ma contribuì anche ad elevare la cultura del suo tempo. Infatti Gesù, come egli stesso afferma, non è venuto ad abolire, ma a portare compimento (cfr. Mt 5,17).
Guardiamo, ad esempio, al discorso della montagna. Gesù dice: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere, chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Inoltre io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio” (Mt 5,21-22). Gesù inserisce il suo insegnamento nel quadro normativo legale e religioso del suo tempo: se la Legge vietava giustamente l’omicidio, egli rafforza questo comandamento dicendo che è ingiusto anche offendere il proprio fratello. Egli porta a perfezione un comando già buono. Per dirla con le parole di Paolo VI, Gesù interagisce con la cultura del suo tempo, “partendo sempre dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio”.
Allo stesso modo, oggi i cristiani sono chiamati a continuare l’opera che egli ha iniziato, giacché la Chiesa prolunga nel tempo il Mistero dell’Incarnazione. Quando i cristiani annunciano il Vangelo, devono necessariamente tenere conto del contesto culturale delle persone alle quali si rivolgono, avendone ben presenti i pregi e i difetti, per elevare i primi e correggere i secondi.
E qual è il contesto culturale dell’uomo di oggi? Sicuramente l’uomo moderno vive immerso nella tecnologia, ama il mondo di internet, desidera essere informato in continuazione grazie ai sempre più potenti mezzi di comunicazione, sente come tema centrale quello della libertà.
Sono tutti dati che i cristiani, nel proporre la nuova evangelizzazione, non possono ignorare. Tutti questi elementi della cultura moderna ci parlano del desiderio dell’uomo di superarsi, di andare oltre le sue barriere, di conoscere, di sentirsi libero e quindi felice. È compito dei cristiani di oggi non abolire tutte queste cose, ma portarle a compimento orientandole a Dio.
Solo così si potrà evitare “la rottura tra Vangelo e cultura” che secondo Paolo VI “è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre”.
Nicola Rosetti