venerdì 14 febbraio 2014

Il tempo cristiano


Alla fine dell’anno da poco trascorso papa Francesco propose questa riflessione: “La visione biblica e cristiana del tempo e della storia non è ciclica ma lineare, è un cammino che va verso un compimento. Un anno che è passato non ci porta a una realtà che finisce ma che si compie, è un ulteriore passo verso la meta che sta davanti a noi, una meta di speranza, felicità, perché incontreremo Dio, ragione di speranza e fonte di letizia”. E poi: “Mentre finisce l’anno 2013 raccogliamo quello che abbiamo vissuto per offrire tutto al Signore e domandiamoci: come abbiamo vissuto il tempo che Lui ci ha donato?” 
La visione cristiana del tempo è davvero una delle grandi novità della storia. Se cerchiamo chi per primo abbia scandito il tempo della giornata con cura e precisione, troviamo i monaci; a loro dobbiamo anche l’invenzione, non a caso, del primo orologio meccanico, lo “svegliatore monastico”.
Il tempo prima di Cristo altro non è che un ripetersi infinito di cicli, in cui la singola persona è annullata; nelle dottrine orientali esso è un riproporsi di reincarnazioni, in cui non vi è alcuno spazio per l’unicità della persona, e quindi del suo specifico e irripetibile tempo.
Il tempo cristiano, invece, è donato ed unico: un solo tempo, ci è dato, una sola vita; il tempo cristiano, soprattutto, è stato invaso, sconvolto, redento dall’eternità, tramite l’Incarnazione di Cristo. Per questo ogni tempo, ogni istante presente di tempo, è preziosa preparazione dell’eternità futura.
Uno scrittore francese, passato dal socialismo al cattolicesimo, Charles Peguy, vedeva nella “riabilitazione del temporale” il cuore del cristianesimo; vendeva nella Incarnazione null’altro che la volontà dell’Eterno di salvare il mondo, il tempo, entrandoci dentro, assumendolo sino in fondo. Scriveva che il cuore della fede, della fiducia dei credenti, sta nel “coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale”. Perché “tolto il coinvolgimento non c’è più nulla. Non c’è più un mondo da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo. Non c’è più redenzione, né incarnazione e neanche creazione. Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine; rovine informi, cumuli e macerie, mucchi e affastellamenti; scompigli, disastri…”.
Da socialista, Peguy aveva vissuto e sperato nell’utopia, nel futuro, nella “città armoniosa” ventura, costruita dall’uomo. Dove non c’è “coinvolgimento dell’eterno nel temporale”, solo il futuro può rivelarsi per noi buono; oppure può spaventarci, perché, nell’immaginazione, più cattivo del presente e del passato. I pagani interrogavano sempre il futuro: divinazione, auspici, oroscopi… Che cosa succederà domani, era la preoccupazione dell’oggi. I millenaristi medievali condannavano in toto il presente, e avrebbero voluto radere al suolo ogni cosa: domani sarebbe arrivata l’età d’oro, l’età dello Spirito, l’età del bene… Gli atei dei secoli nostri hanno vissuto lo stesso disprezzo del presente e la stessa speranza nel “sol dell’avvenire”, nel Progresso redentore. E’ domani, insegnavano utopisti e marxisti, che saremo felici, giusti, eguali.
Altri, invece, di fronte alla durezza dei tempi, temendo il presente e il futuro, si rifugiano nel passato. Siamo fatti così, tendiamo a sfuggire qua o là, ma la fede è altro: il credere che l’eternità è entrata nel tempo; che il tempo presente, bello, o brutto, facile o difficile, è il tempo della nostra salvezza. Il cristiano ha sacro rispetto del passato, da cui proviene, ma sa che non gli è chiesto di rifugiarsi lì, sfuggendo la battaglia dell’ora presente; può avere fiducia nel futuro o paura, ma sa che non gli è chiesto se non di portare ogni singolo giorno, la gioia o la croce di quel giorno. “E così – continuava Peguy, lamentando la incomprensione di questo concetto nei cattolici del suo tempo-, dobbiamo muoverci tra due preti, quelli che negano l’eternità; e quelli che negano la temporalità”.
Riguardo a molti chierici del suo tempo, Peguy affermava che “tutta questa scristianizzazione è venuta dal clero”: dal clero che afferma che tutto va bene, che nega “il disastro”, e dai preti che “si lamentano, maledicono, calunniano, si trincerano, brontolano…”. Dai preti che, per sciocco ottimismo o per disperazione, non lottano, non amano, non sperano. E spesso quelli che negano il disastro e quelli che maledicono i tempi, sono assai simili. Non seguono Cristo, incarnatosi per salvare i peccatori, per condannare il mondo e per salvare il mondo; per scendere nel tempo e per redimere il tempo.
Parlando ai cristiani, Peguy diceva: “Misteriosi cristiani… avete reso infinito tutto. Non si può mai avere un momento di tranquillità. Miseri voi, la vostra miseria ha un gusto tutto suo. Ed è proprio la miseria cristiana. Avete reso eterno, reso infinito tutto”. Commenta Pierluigi Colognesi, nel suo bellissimo “La fede che preferisco è la speranza. Vita di Charles Peguy”: c’è in Peguy “la consapevolezza che in ogni istante c’è in gioco la salvezza… niente è superficiale e banale, ogni nunc ha il peso della mortis nostrae”. (F. Agnoli)
Il Foglio, 13 febbraio