venerdì 14 febbraio 2014

La fame e la sete


la fame e la sete

di Maria Elena Rosati     trentamenouno
“Antonio è immobile, accovacciato, con le gambe ritratte al petto; la bocca aperta, gli occhi sbarrati. Chiuso in un nodo indissolubile. Il suo respiro è bloccato, come trattenuto dalle mani che si incrociano sul petto, stringendo avidamente i lembi della pesante tunica nera che lo avvolge. […]
[...] Antonio è un giovane nel pieno degli anni, consumato nel corpo e nella mente da lunghe privazioni ma non per questo esente dai desideri della carne e del fisico. Ancora più temibili, dunque, le sue tentazioni in forma di donne procaci che stimolano il desiderio ed evocano l’appagamento dei sensi. Alle spalle di Antonio e’ un orcio per l’acqua, ormai vuoto, si direbbe, e comunque fuori dalla sua vista, proprio come l’altra fonte di salvezza a cui attingere: la croce graffita sulla roccia in alto. E’ solo con i suoi mostri, quelli creati dalla paura di peccare che convive in tutti noi santi e non, quando siamo messi alla prova. E il peccato assume tante sfumature, quanti sono i nostri bisogni più profondi, taciuti e repressi che siano, mentre la mente si illude spesso di poterli controllare con un atto di forza, altrimenti detto di volontà. Ma si sbaglia”.
(tratto da “La forma del tempo”, di  Fulvia Strano, Edilet 2009, pag. 35)
Fulvia non me ne vorrà, se apro questo post con le parole di uno dei suoi libri. La sua spiegazione del quadro di Domenico Morelli, “Le tentazioni di S. Antonio” ha avuto su di me l’impatto di uno schiaffo, fin dalla prima lettura. Perchè io quel quadro lo conoscevo, ma non lo avevo mai guardato con attenzione, non mi ero mai accorta delle procaci figure femminili che spuntano da sotto la stuoia e dalle pareti della caverna. Non avevo mai fatto caso all’atteggiamento di lui, che le vede, le sente e cerca di resistere. Non avevo mai notato il viso sconvolto. Dopo quella spiegazione, l’immagine di S. Antonio abate nel deserto risuona con ancora più forza.
Perché in fondo l’immagine dell’uomo solo e  atterrito, circondato da voci e volti che lo perseguitano, e gli ricordano la propria debolezza, appartiene a tutti noi. Tutti viviamo momenti in cui si sentiamo come Antonio nel quadro di Morelli: stanchi , affamati, soli, incompresi da tutti in una sofferenza che non sappiamo definire, senza forze per combattere quelle voci che ci dicono di nuovo quanto siamo sbagliati, brutti, soli e incapaci di essere amati. Circondati dalle nostre ossessioni, dalle paure, compaiono tutte le tentazioni che offrono facile soluzione ai nostri problemi, mentre la speranza si assottiglia, e la salvezza appare impossibile.
Un’immagine di disperazione che appartiene a tutti, anche a chi sembra aver ottenuto tutto dalla vita. Anche ad un attore premio Oscar, apprezzato e stimato da tutti, e morto da solo, in bagno, con l’ago della siringa ancora infilato al braccio, segno di una battaglia persa, anche se combattuta a colpi di rehab, successi, buona volontà.
La morte di uomo disperato, come tanti altri, meno famosi, e ignoti alle cronache.  Un uomo che ha vissuto nel suo deserto, e ha sentito fame e sete.
Fame di soldi, di sesso, di successo, di potere, di vendetta, di avere sempre di più, di non soffrire, di farsi giustizia. Fame di sorrisi e braccia intorno a me, come cantava Baglioni qualche anno fa, di libertà, di speranza. Sete di amore, di tenerezza, di comprensione, di pace e serenità, di sicurezza, di qualcuno che ti indichi la strada, qualcuno con cui combattere, qualcuno con cui costruire. Sete di felicità, piena e duratura.
Fame e sete da colmare, e un mare di tentazioni che si insinuano,  mostrando le vie più facili: la lussuria per appagare la solitudine, l’alcol per annegare i pensieri, la droga per stordirsi e non sentire. E poi la vergogna di quello che si è , o si è diventati, la chiusura, la solitudine, la depressione che avvolge tutto come un vortice. Per chi può c’è la  lunga mano della rehab, che mette una pezza, ma che se non ha solide radici su cui ricostruire, fa ancora più danni. Per gli altri c’è la disperazione, e la fine di senso.
Ci hanno insegnato a coprire l’ombra della croce, a nascondere il graffito sul muro a colpi di superstizione, di razionalità, di autodeterminazione. Ci hanno insegnato che siamo soli a combattere. Ci hanno detto che possiamo fidarci solo di noi, che nasciamo e moriamo da soli, che la nostra libertà consiste nel fare quello che ci pare, e nel voltare la faccia a quello che fanno gli altri, a farci gli affari nostri. E non giudicare, non correggere, non distinguere il bene dal male, diffidare fortemente di chi opera ancora distinzioni così nette della realtà, e crede ancora nella verità. A non cercare la felicità vera per la nostra vita.
L’idea della salvezza è così sempre più lontana  e inconsistente nel nostro orizzonte, e la parola di chi ci dice “Venite a me voi tutti che siete affaticati a oppressi, ed io vi ristorerò; prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt.11, 28 – 29) rimane una vocina flebile,  nel traffico di suoni , di consigli, di parole vuote di cui siamo circondati; una favola del passato, roba di nonne, bigotti e beghine, roba che non fa più per noi.
La verità è che abbiamo paura. La verità è che non abbiamo l’umiltà di dire di sì, di accettare quell’invito, perché seguire chi ci assicura pace e conforto vuol dire rinnegarsi, riconoscere i propri errori, e che non ce la fai da solo; caricarsi della croce della propria imperfezione, prendere su di noi quello che siamo, perdonarci e chiedere di essere perdonati per gli errori che abbiamo commesso. Seguire così, carichi del nostro fardello, con fiducia,  l’unico che dice con sicurezza “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame e chi vive e crede in me non avrà più sete[…] colui che viene a me non lo respingerò” (Gv. 6, 35-37). E scoprire che esiste un amore infinito per noi, che ci accoglie anche quando ci facciamo schifo, e non sappiamo più cosa fare con la nostra vita, e che attende un nostro cenno per diffondersi, e tirarci su, da qualsiasi abisso siamo finiti. Per vivere nel mondo come figli eletti, come stirpe regale. Per ritrovarci, uscire dal deserto delle nostre disperazioni, e tornare ad essere “luce del mondo e sale della terra”.