di CostanzaMiriano
Tra chi, di fronte agli atti di terrorismo di matrice islamica sostiene, in nome di un vago irenismo, che si tratti di gesti folli, come se non avessero un fondamento teologico, e chi sostiene invece che siamo allo scontro di civiltà, io mi colloco istintivamente più vicina a questi ultimi. Ma non sono certa che si tratti proprio di uno scontro: più esattamente, credo che siamo alla collisione tra una civiltà e una non civiltà. Dove la civiltà è quella musulmana, mentre la nostra, quella occidentale, è la stanca, satolla, assuefatta e imbarbarita discendenza della magnifica civiltà europea – occidentale e orientale – che era nata dai valori cristiani inculturati nella ragione greca e latina portate al massimo splendore dalla fede.
Quella stessa civiltà che però poi ha rifiutato Dio, ha messo al centro l’individuo con tutti i suoi desideri ma senza alcun senso del limite, e che poi, imbolsita dalla sazietà, ha deciso di suicidarsi. In questo quadro desolante la cosa bella è che quello che sta succedendo – terrorismo (di cui i media tendono ad ampliare le dimensioni), crisi di economia e di senso – può essere per noi un’occasione di conversione. Sia per le folle, quelle a cui Gesù guardava con tenerezza perché erano “come pecore senza pastore”, che per noi che forse il pastore lo abbiamo intravisto nella nostra ricerca. Tornare a essere cristiani come unica risposta possibile. L’importante è sapere che quello che noi dobbiamo difendere con orgoglio e con tutte le nostre forze non sono un’identità o dei valori (“valori cristiani” è un’espressione che non significa niente, o meglio, che non significa la cosa più importante): quello che noi dobbiamo cercare, con il cuore dolorante di desiderio, è un incontro con Cristo, che dia senso a tutto quello che viviamo, che salvi ogni cosa sulla terra, perché ogni cosa è redenta dall’amore di Cristo, se riconsegnata a lui. Così è nata la nostra civiltà, non dall’orgoglio identitario ma dalle catacombe, e più tardi da un incontro con Cristo che i monaci facevano nel silenzio e nella preghiera, ed era la ricerca di Cristo a far desiderare loro di curare i malati, costruendo gli ospedali, di tramandare la sua parola, creando biblioteche, di raffigurare Dio o il desiderio di lui, e così è nata tutta l’arte fino a quella contemporanea (che infatti è tendenzialmente brutta, perché un tempo era l’uomo che cercava, come poteva, di raccontare la sua ricerca di Dio, poi invece ha cominciato a raccontare la sua ricerca di se stesso, piccolo omuncolo che non può certo far battere di bellezza i cuori di generazioni nei secoli).
Il tentato suicidio della nostra ex civiltà è descritto mirabilmente in un libro lucidissimo e profondo di Claudio Risé, nel suo Sazi da morire. Sottotitolo: Malattie dell’abbondanza e necessità della fatica. Non riesco a riassumerlo senza fargli torto, ma è davvero un libro che è indispensabile leggere, perché diagnostica (l’autore è uno psicanalista) la malattia dell’Occidente: un continuo oscillare dal delirio di onnipotenza e dalla volontà di godimento illimitato a una sostanziale impotenza e depressione. Questo disagio porta a sviluppare vere e proprie malattie, quelle di cui muoiono in occidente nove persone su dieci, ma soprattutto comporta il riferire costantemente tutto a se stessi, con una scarsissima consapevolezza del mondo attorno e degli altri, che è esattamente il contrario di quello che succede quando entriamo in una relazione d’amore col Dio trinitario, un Dio che è prima di tutto tre persone in relazione fra di loro. Paradossalmente è la relazione che ci libera, non l’autodeterminazione, e questo, che la Bibbia ci annuncia, la psicoanalisi ce lo conferma. Come dice il filosofo esistenzialista e psichiatra Jaspers “è il fatto di non essermi messo da solo nel mondo che mi rende libero” di ricercare e costruire la mia esistenza possibile. Il suddito del sovrano medioevale ha per certi versi le mani più libere del cittadino di qualsiasi delle rivoluzioni moderne: essere contenuti definisce un limite. Quell’esistenza possibile di Jaspers, dentro la quale è necessario stare. Non ogni desiderio si può realizzare. È l’essere accolti e definiti da qualcosa di più grande, forte e stabile che può dare tranquillità e sollievo al nostro cuore inquieto, quello di cui parla anche sant’Agostino.
Noi cristiani abbiamo come simbolo la croce non come strumento di morte, ma di vita. È davvero la croce che ci salva. È una verità non solo teologica e spirituale, ma anche storica, sociologica, e psicologica. La fatica è necessaria al nostro benessere, al nostro equilibrio, ed è una verità anche per chi non crede, perché tutte le verità di fede (come che è la croce che redime) sono anche verità umane. L’uomo ha bisogno di fare qualcosa di impegnativo per provvedere a sé, l’abbondanza ci lascia nell’inquietudine. Soprattutto, è più difficile che cerchiamo Dio, fino a che non abbiamo bisogno di alzare gli occhi verso di lui per chiedergli aiuto per qualcosa, e non parlo solo di bisogno economico. Nella prosperità – dice la Bibbia – l’uomo non comprende.
Possiamo ancora salvarci, il suicidio è in corso ma il laccio intorno al collo si può allentare. L’unica via, però, come ha scritto un lucidissimo monsignor Negri, è non puntellare l’impero, ma rifare il cristianesimo. E non rifarlo in senso orgogliosamente identitario. Piuttosto con una umile silenziosa conversione prima di tutto personale, pronta a diventare fatto pubblico non appena le circostanze ce lo chiedono, come è stato per esempio per i family day (quando ci sono i deboli in pericolo, allora sì che bisogna tirar fuori le unghie, non per orgoglio identitario ma per il dovere di difenderli).
So che una delle cose meno necessarie del momento è un’altra politologa autodidatta che dica la sua sui cambiamenti epocali che abbiamo sotto gli occhi – una civiltà che muore, qualcuno che la azzanna da fuori, la suddetta civiltà colta da afasia che balbetta paroline generiche sulla fratellanza generale, e che non riesce a chiamare le cose col proprio nome. Lo so, ma. Ma non se ne può più della retorica delle candeline e dei gessetti colorati, dei vaghi sentimenti di fratellanza politicamente corretti, per cui vanno tutti bene purché non siano maschi eterosessuali cattolici. Lo so ma non possiamo difendere con orgoglio i nostri centri commerciali, la nostra ignoranza, la nostra dipendenza tecnologica e la nostra incapacità di provvedere a noi stessi. Non abbiamo molto di serio da difendere. Guardiamo in faccia al fatto che siamo al declino e che su una nave che fa acqua così tanto non ha senso riparare le falle ma salire su una scialuppa e portare in salvo le cose più preziose. Salvare il seme, salvare quello che può farci vivere ancora, e avere il coraggio di accettare il crollo, sapendo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio.