Nella 17.ma domenica del Tempo ordinario, la liturgia ci propone il Vangelo in cui Gesù insegna ai discepoli la preghiera del Padre nostro, che nel testo di San Luca si conclude così:
"Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione".
Quale preghiera è più gradita a Dio di quella fraterna che Cristo stesso pone sulle nostre labbra in questo vangelo, ma sono le disposizioni interiori di chi si accinge a chiamarlo Padre che ne determinano l’efficacia. Consideriamo veramente fratello chi con noi condivide la fede, l’esperienza ecclesiale, o è perfino parente? Le nostre mani giunte per la supplica possono, al contempo, “grondare sangue”, per la maldicenza e il giudizio, la derisione, non di rado per il saluto negato dovuto a rancori. Proprio noi, però, abbiamo forse gioito della buona notizia del perdono dei nostri peccati da parte del Signore e della possibilità di risorgere dalla vita di solitudine senza senso a cui la disobbedienza ci aveva relegato. Il perdono chiama perdono, e chi ha gustato la tenerezza celeste è pervaso dal desiderio d’intercedere per il nemico vinto dal male. Quando, poi, le prove e le tentazioni, necessarie per la nostra salvezza, appaiono insormontabili, il dialogo intimo col nostro Salvatore deve al contempo crescere ed intensificarsi, e vale la pena, in taluni casi, di “disturbarlo” anche di notte, insistentemente. Il cuore di Dio cede sempre alla supplica accorata di coloro, che nel silenzio, interrompono il sonno, corroborati dalla speranza in Lui. (Sanfilippo)
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Sulla via della conversione, senza alcuna incredulità
Si può vivere da orfani o da figli. Schiavi o liberi. Infelici o felici. Chiediamoci in questa Domenica d’estate se viviamo da figli liberi; o se siamo schiavi di un sorriso, di un’attenzione, di un affetto. Diceva Papa Francesco: “I nostri bambini, i nostri ragazzi soffrono di orfanezza!” Oggi più che mai il mondo ci offre gadget per orfani, kit di sopravvivenza per anime prosciugate di senso e sostanza. Li abbiamo visti i nostri figli? Sembrano automi, la mano si infila in automatico nella tasca ogni tre, quattro minuti per tirar fuori lo smartphone, e lo sguardo inebetito a fissarne lo schermo, sperando un commento, un post, qualcosa che riempia il vuoto pneumatico di un tempo che ha il solo compito di scivolare via come una parentesi tra un messaggio e l’altro. E ora con il gioco dei Pokemon, tutti dietro alla realtà virtuale, sino a morirci, come purtroppo le cronache ci raccontano. Ma forse anche noi, padri e madri, siamo incapsulati nella stessa nevrosi che fa della vita un pedaggio da pagare per entrare nelle grazie degli altri, “sprecata” come quella dei nostri figli.
Allo stesso modo, una preghiera piena di parole “sprecate” è il sintomo di chi si sente tradito, inutile, disprezzato, dimenticato ai bordi della storia che conta, delle scelte importanti, e tenta, con le parole, di farsi notare e di essere importante. Come noi, spesso orfani che cercano di costruirsi un’identità che non sia ignorata. Le “tante parole” della preghiera, come i post gettati parossisticamente nei social networks, o nelle discussioni senza fine, in televisione come al bar o i famiglia, segnano una vita in ginocchio davanti agli uomini e alle cose, perché prostrata dinanzi a sé stessi; “come i pagani”: molti dei, nessun Padre.
Conoscere Lui, infatti, è la vita eterna, è sapere d’essere amati, ora, così come siamo, senza condizioni. I rabbini raccontavano questa breve parabola: “Il figlio di un re aveva preso una cattiva strada. Il re gli inviò il suo precettore con questo messaggio: “Ritorna figlio mio!”. Ma il figlio gli fece rispondere: “Con che faccia posso tornare? Mi vergogno a comparirti dinanzi”. Il padre allora gli mandò a dire: “Può un figlio vergognarsi di tornare da suo padre? E se tu torni, non torni da tuo padre?” (Dt R. 2,24). Chi ha conosciuto il Padre ha la libertà di ritornare sempre alla fonte e all’origine del proprio essere, di gettarsi tra le sue braccia con semplicità schietta, fiducia filiale, umile audacia, nella certezza di essere accolti con misericordia: “La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l’autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!”. Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre se non soltanto allorché l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?” (S. Pietro Crisologo, Ser. 71).
Chi ha “una stanza” dove ritirarsi e sfogare le proprie angosce, confessare i propri peccati, piangere e stringersi al petto di suo Padre, non ha più bisogno di prostrarsi agli idoli, e la sofferenza procurata dai rifiuti, dalle incomprensioni, dai fallimenti, non ha il potere di strappargli la speranza e la pace. Conoscere il Padre nell’esperienza del suo amore presente in ogni evento della nostra vita, ci sazia e ci fa persone, ci rende la dignità che ci spetta, l’attenzione, la stima, l’amore. Chi attinge al cuore del Padre sa amare gli altri di un amore libero, sganciato dalle rincorse affannate e deluse, sfugge ai compromessi, lotta per la castità, vive nella luce della verità, dona la sua vita senza appropriarsi di quella altrui: “Chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino” (Benedetto XVI, Deus caritas est, 42). Proprio come appare nella prima lettura della messa di questa Domenica.
L’incontro con Dio mio Padre fa scaturire il Padre nostro nel quale vivere ogni istante. Nell’intima preghiera che si abbandona totalmente a Lui, ritroviamo anche tutti gli altri uomini. In mio Padre nessuno mi è più estraneo, e ogni relazione assume i contorni della libertà e della verità. Come fu per Gesù nel Getsemani, l’Abbà che sgorga dal cuore attira a Dio, misteriosamente, schiere di uomini. Il Padre nostro è la prima missione che ci è affidata: abbandonati come un bimbo tra le braccia di suo Padre, avere nel cuore ogni figlio di nostro Padre, ogni nostro fratello. Per loro – perduti, dispersi, sofferenti – è la nostra vita di figli, ritmata e accompagnata dalle “parole” della preghiera. Esse invocano il “Nome di Dio santificato” nelle nostre esistenze, perché si veda “il Cielo in terra” nelle opere che Dio compie in ciascuno, opere sante, ovvero separate e diverse da quelle del mondo: le attitudini e i gesti, i criteri e le scelte che rivelano la paternità di Dio. Le opere dei figli di Dio.
Rivela la paternità di Dio chi accoglie un genitore anziano in casa ad esempio, dedicandogli il tempo destinato alle vacanze, allo stadio o al cinema, frantumando il proprio ego per far posto al suo, tornato ad essere quello di un bambino; così testimonia ai propri figli e al mondo che i genitori terreni sono icona e riflesso del Padre celeste, che tutti ama e a tutti provvede, e che siamo chiamati a venerare e servire Lui nel padre e nella madre della carne. Rivelano la paternità di Dio un padre e una madre che sanno occupare il proprio posto senza usurpare quello dell’altro: se la madre fa un passo indietro e lascia che sia il marito e padre ad esercitare l’autorità, mordendosi la lingua se necessario, e crocifiggendo la carne che non vorrebbe vedere la severità; se il padre sa ascoltare la moglie per accoglierne le ragioni, nella libertà da se stessi che desidera solo il bene dei figli, che è il riverbero della tenerezza, della severità, della libertà e della misericordia di Dio Padre verso tutti noi.
Rivelano la paternità di Dio lo zelo inesausto dei vescovi e dei presbiteri, che non dimenticano mai d’essere figli dello stesso Padre insieme con la porzione di popolo a loro affidata: Se infatti al vescovo è allestito un seggio più elevato, è perché tocca a lui sorvegliare, cioè custodire, il popolo. Difatti “vescovo”, in latino “sorvegliante”, uno cioè che dal di sopra osserva e vede dall’alto… Occorre una tale disposizione che, sebbene collocati quassù, in virtù dell’umiltà ci sentiamo sotto i vostri piedi, e insieme preghiamo per voi, affinché colui che conosce i vostri sentimenti vi custodisca… Noi ci diamo da fare per custodirvi, ma sarebbe inutile ogni nostro lavoro se non vi custodisse colui che scruta i vostri pensieri. Egli vi custodisce durante la veglia e durante il sonno. Addormentatosi infatti una sola volta sulla croce, ne è risuscitato e ormai non dorme più… Quanto a noi, infatti, è vero che vi custodiamo in forza dell’ufficio affidatoci, ma vogliamo essere custoditi insieme con voi. Nei vostri confronti siamo come pastori, ma rispetto al sommo Pastore siamo delle pecore come voi. A considerare il posto che occupiamo, siamo vostri maestri, ma rispetto a quell’unico Maestro, siamo vostri condiscepoli e frequentiamo la stessa scuola” (Sant’Agostino).
Siamo padri, madri, vescovi, presbiteri che camminano insieme ai fratelli come figli dell’unico “Padre Nostro” sulla via della conversione; per loro imploriamo che “Dio santifichi il suo Nome” impresso nei suoi figli con il battesimo: chiediamo che in tutti possa crescere il seme della vita divina, e per questo eterna, che abbiamo ricevuto nel fonte battesimale. Quando preghiamo così, significa che desideriamo essere accolti e formati in una Iniziazione Cristiana dove, come nel catecumenato della Chiesa primitiva, ascoltare la Parola di Dio e lasciarsi illuminare e trasformare da essa: “La mia Parola si farà strada tra di voi, la mia Parola sarà per voi un Dio redentore, e voi sarete un Popolo di santi per il mio Nome” (Targum Neophiti).
Chiediamo dunque che il Padre apra per noi un cammino di conversione, e che ci renda fedeli nell’obbedienza alla Chiesa, perché ci accompagni nella maturazione, sino a che la fede divenga adulta, e si manifesti in opere di vita eterna che solo i cristiani possono compiere. Essi sono “santi”, separati come il Popolo di Israele, al quale fu data la “Legge di Santità”, nella quale è contemplato ogni aspetto della vita: “Voi siete santi perché io sono santo. Come io sono separato anche voi siete separati. Io vi separerò dai popoli, perché siete miei. Se siete separati dalle Nazioni, allora mi appartenete, se non lo siete, allora apparterete a Nabucodonosor, re di Babilonia e ai suoi simili” (Sifre Qedoshim).
La Chiesa non si può mescolare al mondo. Preghiamo perciò anche perché nelle nostre comunità non si insinui alcuna radice velenosa di incredulità. Proprio perché sappiamo di essere deboli e peccatori, inclini al male e alle seduzioni mondane, chiediamo a Dio che “venga il suo regno”, che difenda la sua Chiesa, la colmi del suo Spirito che la separa dal peccato e realizzi in noi la Legge di santità dell’amore sino al nemico. Così, mostrando concretamente la vita divina in noi, “venga” e si renda visibile “il regno” che rivela la “santità di Dio” al mondo, ovvero il suo essere totalmente altro, diverso dagli idoli, separato dalla corruzione, amore puro che supera i limiti della carne. Per questo, implorando “l’avvento del Regno” chiediamo al Padre Nostro che ci accolga nella sua intimità dove vivere come figli del Re, regnando sul denaro e sugli idoli mondani, rinunciando al prestigio e alla carriera per compiere la missione affidata di formare famiglie cristiane, di essere presbiteri offerti all’evangelizzazione, suore e religiosi liberi per servire i piccoli e i poveri: regnare con Cristo per dischiudere a tutti le porte sul destino che attende ogni uomo, il Regno dei Cieli che giunge ovunque appaiano i cristiani, laddove la Chiesa estende la sua testimonianza di libertà e amore.
E sappiamo che il trono di Dio qui sulla terra è la Croce sulla quale ha innalzato suo Figlio: “l’iscrizione regale, alta sulla Croce, schiude le profondità del mistero: Gesù è il Re e la Croce il suo trono. La regalità di Gesù, scritta in tre lingue, è un messaggio universale: per il semplice e il sapiente, per il povero e il potente, per chi si affida alla Legge divina e per chi confida nel potere politico. L’immagine del Crocifisso, che nessuna sentenza umana potrà mai rimuovere dalle pareti del nostro cuore, resterà per sempre la Parola regale della Verità” (Suor Maria Rita Piccione). Chiedere che “venga il tuo Regno”, significa dunque pregare perché non ci manchi mai la Croce, e che ci aiuti a non fuggire da essa. Impossibile se non desideriamo che “si compia la volontà di Dio, come in Cielo così in terra”: i cristiani, infatti, attraverso l’essere crocifissi con Cristo, incarnano sulla terra la vita celeste.
Dio, infatti, rispettando la nostra libertà, può essere l’unico “Padre Nostro” solo nel nostro abbandono filiale del Getsemani, dove “Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà conforme ed unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma della nostra autonomia – e proprio portando la nostra volontà nelle mani di Dio, ci dona la vera libertà: Non come voglio io, ma come vuoi tu” (Joseph Ratzinger). E come vuole il Padre la nostra vita di ogni giorno? Crocifissa con Cristo, perché in tutto possiamo vivere come figli nel Figlio. E questo significa concretamente: “umiltà nella conversazione, fermezza nella fede, discrezione nelle parole, nelle azioni giustizia, nelle opere misericordia, nei costumi severità… non fare dei torti e tollerare il torto subito, mantenere la pace con i fratelli, amare Dio con tutto il cuore… nulla assolutamente anteporre a Cristo, poiché neppure lui ha preferito qualcosa a noi. Volontà di Dio è stare inseparabilmente uniti al suo amore, rimanere accanto alla sua croce con coraggio e forza” (S. Cipriano, Trattato «Sul Padre nostro»).
Ma il coraggio e la forza non ci verranno dal “pane” con cui il mondo cerca di sfamarsi. Qualsiasi alimento mondano, di fronte alla croce, mostra i suoi limiti invalicabili: non sarà l’aver frequentato l’università migliore ed essermi laureato con il massimo dei voti a farmi distendere le braccia per donarmi a mia moglie e a mio marito così come sono. Non sarà un lavoro gratificante e l’essere diventato dirigente ad aiutarmi quando un figlio si ribella e corre verso i peccati. Non saranno i soldi a darmi il coraggio per accettare un cancro e la forza per offrirmi con amore attraverso di esso. Non saranno i beni di questo mondo ad alimentare l’uomo nuovo che resta crocifisso con Cristo. Al contrario, i desideri della carne sono nemici di Dio e gli muovono guerra. Per questo il Signore ci insegna a chiedere al Padre il “nostro pane quotidiano ogni giorno”, ben diverso da quello degli altri, dei pagani. C’è un solo “pane” che è “nostro”, che ci appartiene e ci è dovuto, l’unico adatto alla nostra anima, appropriato al nostro cuore, conveniente alle nostre forze; il “pane” caratteristico ed esclusivo del “Regno” che “viene” (non a caso una traduzione possibile di “pane quotidiano”, forse la più esatta grammaticalmente, è “pane che viene”); il solo “pane” proprio dei cristiani, i “santi” chiamati “ogni giorno” a “santificare il Nome” del Padre “compiendo la sua volontà come in Cielo così in terra” attraverso lo Shemà dell’amore crocifisso a Dio e a prossimo.
Questa petizione sgorga, infatti, dall’intimo di coloro che, nel cammino di gestazione alla fede, hanno sperimentato come il Popolo di Israele “tutto il cammino che il Signore tuo Dio gli ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarli e metterli alla prova, per sapere quello che aveva nel cuore e se avrebbero osservato o no i suoi comandi”. In esso il Signore “li ha umiliati, gli ha fatto provare la fame, poi li ha nutriti di manna, che non conoscevano… per fargli capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Cfr. Dt 8).
Per questo il Padre Nostro è la preghiera della Chiesa, il Nuovo Israele che è “ogni giorno” in conversione per compiere la sua missione. Nel deserto della vita, tra difficoltà e dolori, ansie e problemi, frustrazioni e umiliazioni, prega il Padre perché gli dia “ogni giorno” la manna di cui ha bisogno, come durante l’esodo al Popolo di Israele ora nel nuovo esodo che è chiamata a compiere; la Chiesa sa che i suoi figli potrebbero dimenticare il Padre e corrompersi, esattamente come la manna, per questo fa ripetere loro “ogni giorno” la preghiera che chiede il “pane che discende dal Cielo”, l’unico che può saziare. Così scopriamo che il Signore ci invita a chiedere al Padre il dono di se stesso, “il pane della vita, perché chi ne mangia non muoia”. Lui è “il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Cfr. Gv 6). Con il Padre nostro, chiediamo dunque a Dio di non farci mai mancare l’Eucarestia, la predicazione della Parola, il corpo vivo di Cristo che è la comunione della Chiesa. Che “ogni giorno”, nella comunità, possiamo nutrirci di Cristo per essere figli di Dio uniti indissolubilmente alla sua “carne offerta per la vita nel mondo”. Nella Chiesa, infatti, si impara ad essere marito e moglie, padri e figli, fidanzati e amici, colleghi e parenti, ricevendo ogni giorno la “ricompensa” del “pane celeste” sul quale Dio ha messo il suo “sigillo”, lo Spirito Santo che ci fa immagine e somiglianza del Padre e le difende nelle diverse circostanze della vita.
Così, anche se soli nella stanza dell’ufficio o in classe, al mercato o in un letto d’ospedale, dove il mondo e la sua mentalità la fanno da padrone, possiamo pregare in comunione con tutta la Chiesa, ed entrare “ogni giorno” nel combattimento con le tentazioni del demonio. Questi, infatti, ci attende per indurci ad esigere che Dio trasformi le pietre in pane: ogni relazione, oggetto, evento convertito in cibo commestibile da afferrare e disporre a piacimento per saziare gli appetiti della carne. Il Padre Nostro è la preghiera che emerge in filigrana dalle “parole” di Gesù con le quali ha polverizzato i fendenti subdoli del demonio quando fu tentato da lui nel deserto. Il “pane quotidiano” della “volontà di Dio”, il cibo che l’uomo non conosce, la docilità del cuore che non “tenta” Dio, l’obbedienza che non “serve” gli idoli ma “Dio solo”.
Comprendiamo allora perché, subito dopo la petizione del “Pane” il Signore ci insegni a chiedere al Padre di “perdonare i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”; è questo il “pane” di cui si nutrito il Signore, la volontà di Dio che lo attendeva, l’opera preparata per Lui: dischiudere il “Regno santo” ai peccatori con il “perdono”. Ancora una volta Gesù ci invita a chiedere al Padre di crocifiggerci con Lui per sperimentare in ogni istante il suo perdono ed essere trasformati in perdono offerto ai “nostri debitori”. Se non accoglieremo il “perdono” di Dio umiliandoci nella confessione e nel riconoscimento dei nostri peccati anche di fronte ai fratelli, e se non “perdoneremo” i “debiti” di chi ci è accanto, anche dei nemici, non saremo figli di Dio, ma figliastri del padre della menzogna. Così è illuminata anche l’ultima petizione, con la quale chiediamo al Padre di “non indurci in tentazione e liberarci dal male”. I cristiani sono sotto l’assedio del demonio, c’è poco da scherzare. Anche se molti non ci credono più perché hanno smesso di credere a Cristo e hanno fatto della Chiesa una ONG sterile, come ripete Papa Francesco.
No, il demonio esiste, e vuole distruggere i cristiani e la Chiesa, perché non compiano la missione di predicare il vangelo e testimoniare il “Regno di Dio” con il perdono dei nemici, e salvare così l’umanità che tiene schiava con le sue menzogne. Anche se “lo spirito è pronto, la carne è debole”. Sant’Ignazio di Loyola ammoniva che il demonio tenta soprattutto sub specie boni, cioè sotto apparenza di bene, inducendo a compiere la sua volontà che sembra, a prima vista, ragionevole, bella e utile, piacevole, esattamente come accadde a Eva. E ci caschiamo tutti, soprattutto di fronte all’assurdo che è perdonare il nemico. Non è ragionevole, non è buono, non è utile né piacevole. E’ stolto e pericoloso. Se accettiamo questa logica perversa, automaticamente ci apparirà ragionevole, addirittura doveroso e santo, il suo contrario, e finiremo per pensare, scegliere e agire senza discernimento; e così peccheremo, perché tutto ciò che non è pensato, scelto e fatto con l’amore di Cristo è peccato.
Per questo il Signore ci invita a chiedere al Padre di “non indurci nella tentazione” dei pensieri, di “liberarci dal male” che si insinua ben camuffato sotto apparenza di bene umano e carnale. A chiedere con insistenza di non spingerci sino all’albero dove si nasconde il serpente, di non lasciarci avvicinare così tanto alla menzogna come fece Eva, perché non ce la faremmo; cadremmo in un istante nella trappola del dialogo interiore con il demonio. A chiedere di non “indurci in tentazione” e di “indurci” invece ad ascoltare la sua Parola, a spingerci tra le braccia del Signore. A proteggerci per non farci “indurre” dal demonio a tentare Dio, come aveva insinuato a Gesù nel deserto; noi non resisteremmo alla tentazione di obbligare Dio a fare quello che vogliamo. Con questa ultima petizione Gesù ci chiama a conversione, e, insegnandoci a pregare così, ci invita a fare quotidianamente una professione di umiltà!
E a non presumere di noi stessi come i farisei, a supplicare il Padre di aiutarci a non giocare con il fuoco avvicinandoci alle sue fiamme, di scioglierci dalle catene dei sofismi satanici, di aiutarci, come recita il salmo, a rifugiarci in Lui mentre sono scosse le fondamenta della verità che ha salvato la nostra vita, e fuggire come un passero verso il monte della Croce, dove, in silenzio e con le orecchie tappate, resistere alle onde malefiche dei pensieri del demonio, che ci arrivano forse proprio da chi ci è più vicino. Come Cristo di fronte a chi lo tentava di scendere dalla Croce per rivelare se era davvero Dio, che taceva e pregava il Padre di perdonare i suoi assassini, compiendo sino alla fine quello che la Chiesa e tutti noi chiediamo nel Padre Nostro: “Abbà, Papà, nelle tue mani consegno il mio Spirito”.