lunedì 17 dicembre 2012

18 Dicembre: Giuseppe, figlio di Davide...



Rembrandt (1606-1669)
Mentre Giuseppe e Maria dormono, l'angelo appare in sogno a Giuseppe


 Il silenzio di san Giuseppe non manifesta un vuoto interiore, 
ma, al contrario, la pienezza di fede che egli porta nel cuore, 
e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione.

Benedetto XVI




Matteo 1,18-24.

Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.


Il commento


Il timore di Giuseppe dinanzi ad un Figlio inaspettato è il nostro di fronte a noi stessi, figli nel Figlio, e a quello che Dio vuol fare nella nostra vita. In Maria abbiamo ricevuto le sembianze del Figlio, la stessa natura di Dio. Ma nonostante ciò, abbiamo paura di noi stessi, della nostra ombra, degli spigoli del carattere, delle nostre incertezze, delle parole, dei gesti. Per timore siamo schiavi del demonio che ci fa pensare male di noi stessi e di Dio, e catapultiamo su chi ci è prossimo il giudizio senza misericordia che abbiamo su di noi. La paura e lo scandalo di un'infinita distanza, la lacerazione come una ferita sempre aperta tra la sublimità della nostra vocazione e l'inadeguatezza di ciò che riteniamo sia il nostro essere, e il nostro modo di stare al mondo. Lo scandalo e la paura di Giuseppe perché era accaduto qualcosa di strano, fuori dai calcoli e dalle regole: la vita di Dio appare, infatti, dove nessuno se lo aspetta. Senza preavviso, senza chiedere il permesso, al di là di ogni legge, addirittura al di là della stessa Legge di Dio: Maria incinta fuori del matrimonio, "promessa", ma non ancora sposa. Qualcosa da annichilire il cuore, lo schianto dell'Incarnazione, evento imprevisto sul crinale della Storia. E Giuseppe assorto, tremante, impaurito, a cercare modi e parole per ovviare all'imponderabile. Come noi, oggi, dinanzi alla nostra vita, alla nostra storia, alle briciole di un'esistenza che vorrebbe avere capo e coda, e non ne trova in nessun percorso logico. 

"Giuseppe, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo". Tua sposa. La promessa sposa è giàsposa, la Provvidenza di Dio ha precorso il tempo. Ha infranto le regole del mondo, la biologia del cosmo, disegnando, dall'eterno e per l'eterno, un cammino di salvezza tra le piaghe dell'umanità peccatrice. Sarebbero arrivate le acque amare per Maria, gli insulti, i sorrisi ironici, sino alla spada che, sotto la croce, le avrebbe trafitto l’anima. Anche Lei, Immacolata Concezione, senza peccato s'è fatta peccato per partorire al mondo il Dio fatto peccato. In Lei appare il cammino della Misericordia dentro la storia di peccato delle generazioni degli uomini. La Madre e il Figlio senza ombra alcuna di peccato tacciati di peccato, la Croce per entrambi, segno dell'amore estremo e folle di Dio, totale e gratuito ai peccatori. Per salvarli, e ricrearli a sua immagine, ha fatto peccato la Madre e il Figlio, mentre Giuseppe prende con sé quanto lo Spirito Santo aveva generato, e, follemente, aveva attuato. Così si andava profilando l'arduo cammino dell'amore: Gesù al Giordano, nella fila dei peccatori, e Maria incinta fuori del matrimonio. Ma c'è una verità nascosta, il mistero che fa tremare la terra, Lei è già sposa agli occhi di Dio, Lei è santa, Lei è la Madre santa del Figlio santo perché Dio si è nascosto nella carne dell'uomo. Solo gli occhi di Dio vedono oltre l'angusto sguardo dell'uomo cristallizzato nello stupore e nella paura di Giuseppe. Per questo la parola dell'Angelo rivolta oggi anche a ciascuno di noi è un balsamo di pace e di speranza: "Non temere" di prendere con te Maria, la nostra storia fecondata dallo Spirito Santo. In Lei siamo generati, e quel che è generato in Lei è santo. Siamo opera del respiro di Dio, la Sua vita è dentro la nostra vita, anche se la carne la sorregge a malapena; la casa d'argilla che sono le nostre membra peccatrici, quelle zolle di terra che ci scandalizzano, ci bloccano, ci impauriscono non sono che la povera stalla di Betlemme dove Dio ha voluto prendere dimora. Non temiamo allora, le nostre debolezze, ciò che in noi sembra essere fuori legge, e magari lo è… Quello che ci genera oggi a questo giorno come ad ogni giorno è il dito di Dio; il soffio del Suo Spirito dà vita alla nostra morte. In Dio siamo già sposati con il Suo Figlio. E' Lui il nostro destino, la nostra debolezza è una debolezza in più allineata nell'albero genealogico di Gesù. Siamo preziosi agli occhi di Dio: anche quando i nostri occhi guardano la nostra vita riflessa in uno specchio, i suoi guardano, e amano, il Suo Figlio in noi, come hanno guardato Maria. Come Giuseppe ha imparato a guardare quella Ragazza, e la storia d’amore che Dio aveva inaugurato in Lei, per la salvezza del mondo. Siamo chiamati anche noi a seguire Giuseppe, e obbedire alle parole di Dio che ci strappano dal sogno per accogliere la realtà come un dono d’amore che, attraverso di noi, è destinato a giungere ad ogni uomo.

APPROFONDIRE



19 Mar 2012
lunedì 19 marzo 2012. Regalo per la festa del papà. Per la solennità che abbiamo celebrato oggi, propongo la lettura di questo stupendo testo di Fr. Ephraim... Giuseppe: Il mistero del Padre. Pubblicato da vito luigi valente a 14:41 ...

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GIUSEPPE: PURA TRASPARENZA DI DIO

di Divo Barsotti

Ritiro a Casa San Sergio, 19 marzo 1973
Letture: 2 Sam 7,4-5.12-14.16; Rom 4,13.16-18.22; Mt 1,16.18-21.24
La collaborazione dell'uomo
Dalla prima lettura, si capisce come l'iniziativa della vita spirituale l'ha sempre il Signore. È Lui che interviene esigendo la fede dall'uomo. La collaborazione che Dio chiede all'uomo, perché si compiano le opere sue e rimangano opere di Dio, è soltanto l'umile abbandono dell'anima che si affida a Lui, è soltanto la fede dell'uomo che crede in Dio e spera contro ogni speranza. Solo così si permette a Dio di operare, perché proprio in questa fede noi si lascia spazio all'atto divino. La fede, infatti, indica per l'uomo quell'abbandono umile e pieno che è il non fidarsi di sé, ma l'affidarsi ed appoggiarsi unicamente alla parola di Dio. Nella fede tu permetti a Dio di essere Dio, perché è solo così che l'uomo, rimettendosi totalmente all'onnipotenza dell'amore divino, lascia che Dio operi in sé.
È proprio quello che ci dicono la prima e la seconda lettura. Sembrano le due letture non avere un rapporto fra loro, ma il rapporto è il più intimo che si possa pensare. Dio dice a Davide per mezzo del profeta Natan: «Tu mi vuoi costruire una casa, ma non sei tu che me la costruirai; sarò io che ti costruirò una casa e ti darò una discendenza che continui per sempre e tu regnerai; ma è opera mia». La casa di Dio non è tanto un tempio di pietre quanto l'uomo, quanto la Chiesa, che aduna tutti coloro che saranno il tempio santo del Signore. Perché, sì, la discendenza di Davide sarà il Cristo, ma saranno anche tutti quelli che annunciano il Cristo. L'umanità che è legata al Cristo venturo, questo è il tempio di Dio, di cui Cristo sarà il culmine, quello che corona l'edificio. In generale la Sacra Scrittura vede in Cristo soprattutto la pietra su cui tutto l'edificio poggia, ma può essere anche Colui che corona ogni cosa: "culmen et fons". Dio crea questo tempio proprio dal sangue di Davide. Dio non opera nulla senza di te, nemmeno l'Incarnazione del Verbo. Dio non opera nulla se non attraverso le tue stesse potenze, se non attraverso l'uomo. Ma per operare attraverso l'uomo, Dio esige dall'uomo l'abbandono alla promessa divina, esige che l'uomo creda alla parola che Dio gli annuncia. La fede dell'uomo, dicevo, lascia libero spazio alla divina potenza. E Davide crede, e proprio per questo diviene colui dal quale nascerà il Cristo.
Abramo
San Paolo parla di questa fede a proposito di Abramo: egli riceve Isacco come dalla morte, perché Dio aveva comandato ad Abramo di ucciderlo. E tuttavia quel figlio, nella cui discendenza sarebbero stati benedetti i popoli della terra, Abramo lo riottiene, non perché lo vuole salvare dalla parola di Dio che ne esige la morte, ma perché si rimette totalmente a Dio. E dal momento che Dio chiede che il figlio sia sacrificato, il padre è pronto anche ad ucciderlo. I disegni di Dio non si compiono attraverso i nostri mezzi, l'intelligenza, le nostre capacità, ma attraverso la purezza di una fede che implica l'assoluto abbandono. Isacco diverrà la radice santa, colui dal quale dipende la salvezza del mondo, proprio perché Abramo, senza dubitare della parola di Dio, è pronto ad ucciderlo.
Davide
Quello che è vero per la fede di Abramo nei riguardi di Isacco, è vero anche a proposito di Davide nei riguardi del suo figlio. Secondo quanto riportato dalla Bibbia, gli ultimi anni di Davide furono funestati da lotte intestine; prima viene ucciso Amnon, poi Assalonne e infine Adonia: tutti i primogeniti. Sembrava che non dovesse rimanere più nulla a Davide. E invece colui dal quale nascerà Gesù, viene ad essere proprio il figlio della donna adultera, il figlio di Betsabea. Colui che doveva essere il ripudiato, quegli diviene lo strumento di Dio, perché si compiano le promesse divine.
Dio agisce sempre così, in un modo che ai nostri occhi sembra strano e che ci sconcerta continuamente. Ma è giusto che ci sconcerti, perché altrimenti noi seguiamo sempre i nostri modi di pensare e di vedere. Bisogna rinunciare ai nostri modi di vedere e di pensare per affidarci a una sapienza che infinitamente ci supera, a una onnipotenza che opera nel nulla.
Anche a noi il Signore ha fatto magnifiche promesse, come dice l'apostolo Pietro nella sua prima lettera e se vogliamo giudicare quello che possiamo fare umanamente parlando, rimaniamo sgomenti: la nostra santificazione, la beatitudine eterna, sembra un sogno pensarla. Per tutta l'eternità, vivere di Dio! Che Dio sia nostro! Che cosa ti chiede perché queste promesse si adempiano? Di credere nella sua parola, nonostante la tua debolezza, nonostante l'esperienza che hai giorno per giorno della tua imperfezione. Andando avanti negli anni cresce in noi la consapevolezza di quanto siamo miseri, imperfetti e impotenti, di quanto sono grandi i nostri peccati. È bene che sia così, perché la fede diviene più pura. Nasce in noi la coscienza viva della infinita distanza da Dio e della nostra impotenza anche a correggerci di un solo difetto.
Come facciamo a sperare? Oh! Proprio per questo dobbiamo sperare perché, più in noi cade ogni fiducia nelle nostre possibilità, più puro e perfetto è l'abbandono che dobbiamo avere nella misericordia infinita, nell'amore di Dio. Dio opera proprio nella misura che lasciamo libero spazio alla sua azione divina con una fede ogni giorno più grande.
San Giuseppe
Pensate un po' quel pover'uomo di Giuseppe! Discendeva dalla dinastia di Davide, ma non soltanto non sta più a Betlemme ma addirittura abita nella Galilea. E la Galilea per gli antichi Giudei era una nazione di rinnegati perché si erano confusi con i pagani e dunque erano Giudei che non vivevano più la perfetta adesione alla legge divina. Il vero giudeo è quello di Gerusalemme. «Da Nazareth può venire qualcosa di buono?». Anche se c'era andato a finire quel pover'uomo di Giuseppe era sempre un paese mezzo fra pagano e giudeo. E lui era andato a finir lassù per lavorare, perché la Galilea è più ricca economicamente della Giudea. La Giudea son tutti sassi; in Galilea invece ci sono anche orti e campi. Giuseppe discendeva da Davide, ma la dinastia di Davide nessuno la ricordava più ormai in Israele. Dopo Salatiel, tutto cade come nell'ombra, sono dimenticati tutti i discendenti di Davide. Non solo la discendenza di Davide è dimenticata, ma l'essere anche sradicata dalla sua terra, dalla Giudea, voleva dire ancora più per la dinastia perdere ogni speranza di una promozione politica e di arrivare alla regalità. L'avrà mai pensato Giuseppe nella sua vita che proprio attraverso questo sradicamento doveva divenire il padre di colui che è il "Kyrios", il Signore del cielo e della terra? Non solo il reuccio di cartapesta che comandasse soltanto a Gerusalemme, ma il Signore dei signori? Il "Kyrios", il Signore del cielo e della terra: Cristo Signore! Eppur tuttavia egli, nella semplicità della sua vita, si affida a Dio. Non sa dove Dio lo conduce, ma sa che si è affidato al Signore e non teme. Non dubita di prendere in casa questa giovane donna che ha un figlio che non è suo. Si rimette a Dio dal momento che Dio gli dice di esserne il padre e di dare il nome a questo bambino. È una obbedienza pura, è una fede perfetta, e da questa fede perfetta nasce la grande dignità di essere lui il padre putativo del Figlio di Dio.
Padre putativo, ma di fronte alla legge è veramente padre: come discendenza dinastica egli è veramente il padre che rappresenta Davide, la continuità della stirpe. E tutto per questa fede assoluta, per questo rimettersi totalmente nelle mani di un Dio che lo conduce attraverso questo cammino di oscurità. È certo grandissima la fede di Maria, ma dopo la fede di Maria credo a nessuno il Signore ha chiesto più fede che a quest'uomo che, essendo discendente di Davide, sapeva che proprio nell'obbedienza alla parola divina si sarebbero compiuti, attraverso la discendenza di Davide, i disegni di Dio.
Lasciar fare a Dio
Dobbiamo lasciar giocare Dio, ecco quello che c'insegna la vita di san Giuseppe: dobbiamo lasciare che Dio giochi con noi, rimettendoci a Lui. Fidiamoci di Dio, lasciamoci portare da Lui con semplicità ed amore, con abbandono perfetto, serenamente. Non ci turbiamo per tutto quello che avviene. Penso alla situazione del mondo e della Chiesa: più gravi sono le situazioni nelle quali ci troviamo, più grande può essere l'azione divina perché, certo, in queste situazioni, più pura è la fede dell'uomo che si abbandona e spera. Proprio per questo dobbiamo sperare. Son proprio sfortunati quelli che sono vissuti in tempi di pace, di serenità, quando tutto andava bene ma allora potevano avere meno fede di noi. Pensate la nostra fortuna! Vivendo in tempi così calamitosi, in tempi così bui, in tempi così tenebrosi, non possiamo fare altro che chiudere gli occhi e gettarci nelle mani di Dio. Bisogna fidarci del Signore, avere una fede assoluta in Dio il quale ci porta attraverso una via di oscurità, ma che sfocia nella luce di una sua presenza, nella manifestazione di una sua divina potenza. Ed è questo meraviglioso: che alcune volte questo sfociare nella luce avviene soltanto nel momento della morte, come certamente è avvenuto per Giuseppe perché questo pover'uomo è vissuto tutta la vita in questa fede e non ha visto nulla. Ha dovuto credere fino in fondo, e mai il Signore è uscito dal suo silenzio, ma gli ha chiesto la fede fino all'ultimo giorno e solo chiudendo gli occhi alla luce di quaggiù egli li ha aperti alla rivelazione di quel mistero che si era compiuto anche attraverso di lui, perché, attraverso di lui il Cristo, il Figlio di Dio, era entrato nel mondo.
Miei cari fratelli, la grandezza di Giuseppe! Di questa fede assoluta in un Dio che, sì, operava attraverso di lui e ha compiuto attraverso di lui l'opera sua ma in un modo così sconcertante per gli uomini, in un modo che andava al di là di ogni previsione umana. E tuttavia Giuseppe rimaneva tranquillo, sereno, non si lasciava turbare. Proseguiva il suo cammino lavorando ogni giorno senza veder nulla. Forse non ha visto nemmeno il primo miracolo di Gesù, forse era già morto quando Gesù iniziava la vita pubblica. È vissuto sotto il medesimo tetto con il Figlio di Dio senza che gli apparisse mai nemmeno uno spiraglio, umanamente parlando, di quell'avvenimento che proprio sotto il suo tetto giorno per giorno si realizzava.
Vivere così! Del resto anche noi viviamo così, più o meno, perché anche in noi il Signore è presente, anche attraverso di noi il Signore vuole operare. Fede, fede umile in Dio, ecco che cosa ci dice la festa di oggi.
Prima meditazione
Una vita nascosta
San Giuseppe, il suo compito così modesto, eppure di tanto sacrificio! Il suo lavoro in tutto simile agli altri, eppure quale missione! Anche noi, chiamati a compiere un lavoro molto spesso ingrato o per il quale non abbiamo nemmeno una grande gratitudine, anche per noi questo lavoro rimane sempre la condizione della nostra santificazione prima di tutto, l'espressione del nostro amore alla Comunità e finalmente anche lo strumento per vivere la nostra vocazione religiosa. Certe situazioni in cui Dio ci pone sono provvidenziali perché misurano la purezza della nostra dedizione al Signore, perché fanno conoscere di più quanto sia verace la nostra dedizione a lui e il nostro amore alla Comunità. Pretendere di misurare dalla risposta degli altri la sincerità del nostro amore sarebbe falso, perché chi lo vede? È Dio soltanto che misura gli uomini, è Dio soltanto che pesa la purezza dell'amore e la capacità di sacrificio che ciascuno ha vissuto in ordine a una comunità religiosa e in ordine anche alla vita della Chiesa intera. Smettiamo dunque di pensare a volere una cosa o l'altra, per aderire perfettamente alla sua volontà santa e adorabile, perché è soltanto in questa adesione che si può contribuire efficacemente non solo alla nostra santificazione personale ma al bene della comunità intera. Non è mai vero che la Comunità possa vivere soltanto delle doti, delle capacità di ciascuno; vive in massima parte per la purezza d'intenzione con la quale si lavora e per l'amore col quale si lavora. Per tal motivo nel nome del Signore vi chiedo questo, e ve lo chiedo proprio oggi che è la festa di san Giuseppe, la festa di colui che ha lavorato così: ha lavorato nell'umiltà, nel nascondimento per tutta la vita senza che il suo lavoro potesse agli occhi degli uomini apparire necessario mentre di fatto per il suo lavoro viveva il Figlio di Dio, per il suo lavoro il Figlio di Dio era difeso, protetto. Senza Giuseppe, come senza Maria, non ci sarebbe la redenzione. Di fatto, la redenzione del mondo, la salvezza degli uomini si deve senza alcun dubbio a Cristo, ma il Cristo stesso deve in qualche modo la sua vita al lavoro di Giuseppe e di Maria perché se no non si mangiava. E voi vedete quale sproporzione vi è fra la umiltà di questo lavoro di un artigiano e l'opera di cui questo lavoro è stato frutto: l'opera è l'Incarnazione del Verbo, l'opera è la vita di Gesù, l'opera è la difesa del Cristo; poteva essere ucciso dai sicari di Erode. L'umiltà di quest'uomo! La devozione semplice, umile e continua di quest'uomo, che è vissuto soltanto nell'oscurità, è stata la condizione perché il Cristo un giorno potesse presentarsi al popolo come Salvatore di tutti. Se non ci fosse stato lui, come se non ci fosse stata Maria, Gesù non era.
Agire nell'umiltà
È una cosa che fa impressione. Non dipende da avvenimenti grandiosi, non dipende da un'opera gigantesca il fatto che Gesù sia vissuto e abbia potuto parlarci. È dipeso dal lavoro umile di quest'uomo. Così anche noi non disprezziamo il nostro lavoro. Tante volte una persona può sentirsi umiliata perché sta in cucina. Ma che volete che faccia anch'io se poi non ho da mangiare?
Non bisogna considerare dall'importanza che gli danno gli uomini l'importanza di un lavoro; la conosce soltanto Dio. Sia per quanto riguarda la Comunità sia per quanto riguarda la Chiesa, sia per quanto riguarda il mondo. Per questo non abbiamo il diritto di chiedere una grande missione, perché le grandi missioni sono tante volte puramente rappresentative, se ne può fare a meno, mentre le funzioni più umili sono più sostanziali. Se invece di averci Vittorio Emanuele III c'era anche un carciofo più grande di lui, perché anche lui era un carciofo, in fondo, le cose andavano lo stesso, perché sono uomini rappresentativi, basta che vadano al Parlamento, leggano un discorso che gli hanno fatto gli altri, poi si mettono tranquillamente a sedere, non fanno mica altro: e firmano. Ma siccome pensano gli altri a dirgli cosa devono firmare, loro non hanno altro che la preoccupazione d'imparare a far la loro firma, non importa che facciano di più. Molto spesso è così, le condizioni più grandi tante volte son quelle che più facilmente si possono sostituire, quelle rappresentative, dico. Sapete, vi sto facendo un discorso che fece una volta un personaggio molto importante a un Vescovo. E sapete chi è il personaggio importante? Giovanni XXIII. Il Vescovo di Brescia, che prima era professore di morale al seminario di Bergamo, fu fatto vescovo di Frosinone da Giovanni XXIII. Quest'uomo era tutto preoccupato e sgomento, e va dal Papa. «Che hai? - gli disse papa Giovanni - ma lascia fare! Non te ne rendi conto? Facevi il professore, no? È una cosa molto più facile esser vescovi che fare il professore e il canonico della cattedrale. Se poi ti fanno Papa è più facile ancora, perché tanto fanno tutto gli altri». E infatti è anche vero.
Su tutto, l'amore
La cosa che conta, dunque, non è tanto la funzione in sé quanto, nel cristianesimo, è l'amore; la vera misura dell'uomo rimane sempre questa. Rendiamoci dunque conto di quello che il Signore ci chiede e dedichiamo giorno per giorno la nostra attenzione a Lui con semplicità, con amore, con purezza d'intenzione. Soprattutto - è la cosa più importante di tutte - vogliamoci bene, ma sul serio; cerchiamo di aprirci l'un l'altro, di essere fiduciosi l'uno verso l'altro senza chiuderci mai nei confronti di alcuno. La difficoltà di questa fiducia nasce dalla diversità del temperamento e anche dalla maggiore o minore perfezione che uno può conseguire. Ma è proprio questo: se gli altri sono più cattivi di noi dobbiamo esser più buoni noi, è semplice. E se gli altri sono caratteri più difficili cerchiamo di avere un carattere più facile noi: cerchiamo cioè di non scontrarci troppo per poter vivere insieme, perché la cosa importante rimane sempre questa e cioè che nulla vale quanto la carità. Dobbiamo compiere qualunque sacrificio perché questa carità non venga mai meno, né venga offesa. E che la carità non sia offesa si manifesta nel fatto che ci sia una comunione reale fra noi, che non diffidiamo l'uno dell'altro; abbiamo fiducia. Se anche gli altri non l'hanno meritata, diamo loro fiducia. Quella fiducia che noi dimostreremo, pian piano conquisterà anche gli altri, anche se sono dei caratteri impossibili. La carità vince tutto. L'amore ha la forza di vincere tutte le opposizioni, quando è amore vero, quando è amore paziente, quando è amore che non si lascia mai superare o dalla cattiveria o dalla incomprensione o dalla ingratitudine degli altri. Ma dove non è amore metti amore e riceverai amore! È san Giovanni della Croce che lo disse proprio gli ultimi mesi della sua vita quando fu buttato fuori dalla consulta e dalla sua provincia, e dovette andare a finire, per morirci, in un convento dove il suo priore non faceva altro che fargli delle grandissime prediche.
Seconda meditazione
La grandezza di Maria
Stamani si è detto come san Giuseppe può insegnarci a lavorare umilmente e a comprendere come il lavoro più umile può essere tanto efficace che tutto dipende da questo lavoro. Ma noi dobbiamo dire qualcosa di più. La figura di quest'uomo che è vissuto sempre nel nascondimento e nel silenzio, che nessuno mai ha conosciuto, ha una importanza eccezionale per la vita della Chiesa e per la vita delle anime.
Così anche Maria. Chi avrebbe mai pensato che quell'umile donna doveva essere, dopo il Signore, la creatura alla quale tutto l'universo deve la sua salvezza, la sua gioia: la Vergine Maria!
Si può ripetere quello che diceva Pascal: è difficile renderci conto ora della legge con la quale Dio ha voluto governare l'universo perché vediamo la Madonna attorniata dagli angeli, la vediamo circonfusa di luce. Ma quando Ella viveva chi la conobbe così? Coloro che vivevano con lei, essi stessi non si rendevano conto minimamente della sua grandezza. Non dico degli uomini che stavano a Nazareth, ma gli stessi apostoli. Quando Gesù ha voluto iniziare la vita pubblica, la Madonna ritornò nella sua famiglia e nella famiglia di Giuseppe, e come vedova non ebbe nessun ruolo; fu ai margini non solo del mondo, ma della famiglia stessa nella quale ella visse. Questo sul piano umano è vero per tutti noi: fintanto che una è sposa e ha il marito, fintanto che è madre e ha i figli ha un certo valore sul piano umano; ma lei praticamente non aveva più né sposo né Figlio, perché anche il Figlio si era allontanato da lei per iniziare la sua missione. E quando i fratelli di Gesù attraverso la Madre cercarono di nuovo di riprendere Gesù, Gesù sembrò perfino sconfessare sua Madre: «Chi sono i miei fratelli? Chi è mia madre? Coloro che ascoltano la parola di Dio». Agli occhi degli uomini le parole del Signore furono estremamente dure. Lei, che aveva ascoltato sempre la parola di Dio, le comprese; ma per tutti i discepoli di Gesù queste parole sembrarono quasi una sconfessione della Madre. Ella, dunque, viene dimenticata da tutti, e sembrò anche sconfessata dal suo medesimo Figlio nel silenzio più puro: eppure chi più grande di Maria? La grandezza si paga con questa fede umile, totale, in un Dio che ti porta per le vie le più impensate, le più sconcertanti.
Dio si affida a Giuseppe
E dopo Maria, chi più grande di Giuseppe? Eppure, come tutta la Chiesa e tutta l'umanità deve riconoscere in Maria la sua Madre, così tutta la Chiesa, tutta l'umanità, deve riconoscere in Giuseppe l'uomo a cui Dio affida tutta la sua ricchezza, tutta la sua gloria, tutto il suo amore. Perché Dio ha affidato a Giuseppe, alle sue cure, alla sua protezione, al suo lavoro, la ricchezza più grande che Egli possiede. Il Padre celeste non ha nulla di più grande del Figlio Suo, possiede tutto nel Figlio. Ma anche indipendentemente da Gesù, che cosa possiede Dio di più grande della Vergine? Che cosa ama di più della Madonna? E Maria Santissima e Gesù furono affidati a lui. E furono affidati a lui quasi che Dio non avesse altro modo di salvare Gesù e Maria, di poter difendere Gesù e Maria che le braccia e il lavoro di quest'uomo. Perché Dio non fece miracoli; li ha fatti quando è entrato nel mondo con la concezione verginale della Madre. Ma poi, se Gesù ha voluto mangiare è stato Giuseppe che gli ha dato da mangiare; se Gesù ha potuto essere salvato dall'ira d'Erode è per l'attenzione di quest'uomo, per il sacrificio di questo uomo che salvava una donna e un Figlio che non gli apparteneva, che aveva ricevuto da Dio. Dio dipendeva da lui, da quest'uomo. La grandezza di Giuseppe!
Ora se tutta l'umanità deve tutto a Maria dopo che a Gesù, deve tutto anche a Giuseppe, dopo Gesù. Noi ci rendiamo conto della venerazione, dell'amore, della devozione dei santi per san Giuseppe. Sono passati circa 1400 anni, senza che i padri della Chiesa dicessero nulla su san Giuseppe; ci volevano proprio delle anime mistiche che, vivendo il mistero del Cristo, potessero comprendere l'importanza che ha avuto Giuseppe nel piano divino e che ha sempre, perché quello che Dio dà una volta lo dà per sempre.
Protettore della Chiesa
Quello che diceva san Bernardo a proposito di Maria Santissima, è vero anche a proposito di san Giuseppe. Come ella fu Madre di Gesù e così fu Madre di tutta la Chiesa, così san Giuseppe che fu il padre putativo di Gesù, in qualche modo diviene il protettore e il difensore di tutta la Chiesa. Noi dobbiamo renderci conto di questa protezione. Noi sappiamo che la Chiesa sarà salva indefettibilmente per la presenza dello Spirito Santo in lei. Ma come lo Spirito Santo salva la Chiesa? Come lo Spirito Santo difenderà la Chiesa? Attraverso la protezione di quest'uomo. Ho detto che sono stati i santi che hanno messo in luce la figura e il mistero di questa presenza di Giuseppe nelle Chiesa: san Bernardino da Siena, santa Teresa di Gesù e ultimamente i santi dell'800 hanno tutti una grandissima venerazione per san Giuseppe. Mi sembra che fosse Daniele Comboni che metteva le chiavi di casa ai piedi della statua di san Giuseppe: era il padrone. Altri santi, quando non c'era nulla in cassa, mettevano la cassa lì; devi riempirla tu, sei il padre di casa! Quando mancava da mangiare doveva pensarci lui; aveva pensato lui al suo Bambino, a Gesù, e la Chiesa non è il prolungamento dell'Incarnazione del Verbo di Dio? Allora deve pensare anche a noi. Noi non siamo ricchi, la Comunità non è ricca, è una cosa bella. Noi non gli chiediamo milioni, ci basta di vivere; quello che ci importa è che egli ci difenda e ci protegga, che sia presente, come un padre, che ci guida con una presenza viva di amore. La paternità di Dio deve giungere a noi anche attraverso l'intercessione e la preghiera di Giuseppe, che deve essere sempre sollecito per noi come fu sollecito per Maria e per il Signore.
Amore sincero per san Giuseppe
Si è parlato troppe volte di san Giuseppe. Una volta si fece un ritiro forse più bello anche di questo che facciamo oggi. Ma anche se si è fatto un ritiro e fu bello, noi dobbiamo essere più concreti, dobbiamo scendere più al pratico. Che cosa facciamo per coltivare la nostra devozione per questo grande santo? Per sentire la sua presenza nella nostra vita? Per vivere come i figli sempre in questa attenzione a lui? La presenza del padre in una famiglia è più discreta di quella della madre e, sotto certi aspetti, anche più necessaria. Così è vero che sentiamo più la Madonna, ma è vero anche che la presenza di san Giuseppe, anche se meno sensibile, non è meno efficace. Dobbiamo cercare di realizzare nella nostra fede questa presenza e di vivere veramente in un rapporto costante di filiale venerazione ed amore per lui sia per quanto riguarda la nostra vita individuale che per quanto riguarda la nostra famiglia religiosa. Noi dobbiamo chiedere a san Giuseppe proprio questo: la difesa e la protezione della Chiesa ma anche difesa, protezione e aiuto per la Comunità. Prima di tutto la sua intercessione. È così difficile vivere la sua santità! È una santità più difficile di quella della Madonna, perché richiede una fede più pura e un sacrificio più grande; la Madonna amava il suo Dio, ma era anche il suo Figlio. San Giuseppe, invece, doveva vivere totalmente per Gesù ed era Figlio, ma non era del suo sangue. Era un sacrificio più puro. Per questo che è più difficile imitare san Giuseppe che la Madonna. Per questo non osiamo dire di volerlo imitare, eppure dobbiamo anche far questo. Comunque non osiamo nemmeno dirlo, ma prima ancora di imitarlo sentiamo di poter contare sulla sua protezione, sentiamo di poter contare sulla sua difesa, sentiamo di poterci affidare alle sue cure; sentiamo che possiamo sperare in quel lavoro che si deve compiere perché la nostra famiglia cresca, viva nell'unione, nella concordia, in un impegno semplice ma sincero di risposta al Signore.
Mai separare Dio dai santi
È una cosa grande pensare a quanti santi sono con noi, quanti santi non ci abbandonano mai. La presenza di Dio spesso sfuma in un sentimento vago; la presenza di Dio per noi, si fa invece concreta nella presenza del Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, nella presenza dei santi che sono come il prisma attraverso il quale la luce divina giunge a noi in diversi colori, con diverse sfumature di affetto, di protezione, di luce. La protezione divina, la paternità divina giunge a noi attraverso il prisma di questa presenza, la presenza di Giuseppe. Non possiamo separare Dio dai suoi santi. Se si separa Dio dai suoi santi non solo non ci sono più i santi, ma non c'è più nemmeno Dio, perché Dio si comunica a noi nel mistero della Chiesa vivente. E il mistero della Chiesa vivente è la Santa Famiglia, dicevano i nostri vecchi, la Sacra Famiglia che è Maria, Giuseppe e tutti gli altri, ma prima di tutto Maria e Giuseppe. Sentire tutto questo.
Non mi rimproverate perché qui non c'è nessuna immagine di san Giuseppe; noi dobbiamo avere di lui una immagine più viva nel nostro cuore, dobbiamo sentirlo più vivamente presente nella nostra vita che attraverso soltanto una immagine. E dobbiamo vivere con lui.
Come diviene più umano e più familiare il rapporto con Dio se passa attraverso questa comunione dei santi, se specialmente questi santi, come Maria e Giuseppe, non trattengono nulla per sé, sono come pura trasparenza attraverso la quale non ci giunge che Dio! Oh! Il nascondimento, l'umiltà, il silenzio di lui sono davvero un cristallo. La sua fede così pura, così assoluta, fa sì davvero che non vi è schermo fra noi e Dio nella presenza di lui. Per questo Dio si fa a noi presente, sì, nella presenza di un uomo, ma la presenza di un uomo non toglie nulla al mistero di Dio, non toglie nulla alla purezza dell'amore divino, non toglie nulla a quello che san Francesco dice: «Tu es humilitas». L'umiltà del Signore.
Vivere nella presenza di Giuseppe! Realizzare questa presenza, affidare a lui la nostra vita e soprattutto la Comunità. In questo giorno di festa, dopo l'Adunanza del Consiglio di ieri, mentre le Assistenti di Famiglia che sono state elette riprendono il loro lavoro, mi sembra che sia anche bello poter affidare a lui, al padre di Gesù la nostra famiglia perché egli la difenda e la protegga. I gesti che facevano i santi di deporre le chiavi, di portare la cassaforte davanti a Giuseppe forse oggi sarebbero soltanto ingenui, atti nei quali non crediamo perché non riusciamo più ad avere questa semplicità di fede. Ma se non facciamo questo, dobbiamo sentire ugualmente nella nostra fede che è lui che deve provvedere a noi. Quando vi trovate in una difficoltà, chi deve sciogliere la difficoltà se non il padre di famiglia? Quando vi trovate in qualche preoccupazione per la famiglia, a chi parlare di queste preoccupazioni se non a lui? Come è importante averlo presente per dirgli: «Pensaci tu!».
Tutti noi abbiamo un motivo per avere un rapporto particolare con lui, ma soprattutto quelli che hanno un compito, nella Comunità, di difesa, di protezione, di lavoro. E dobbiamo sapere che non solo Egli intercederà per noi e ci sarà vicino, ma ci dovrà aiutare; aiutare a capire, aiutare a risolvere problemi difficili, a mandare avanti la nostra missione. Impariamo a vivere il mistero cristiano con l'umiltà di chi, nella sua fede semplice di bambina, sa tradurre il mistero di Dio nel linguaggio umano di una vita di famiglia: Maria, Giuseppe, Gesù. Alla Trinità divina, al mistero imperscrutabile di Dio risponde questa trinità così umana, come è umana la vita di ogni famiglia. E noi dobbiamo imparare a vivere nella nostra vita la grandezza del mistero di Dio, avendo cura di quello che Dio ci ha affidato; con quel medesimo amore vigile, attento, pieno di delicatezza che ebbe Giuseppe nei confronti di Maria e di Gesù.
Patroni dei moribondi
Intercessione, dunque, di Giuseppe e imitazione; ma dobbiamo aver anche presente san Giuseppe per un altro motivo, quale patrono dei moribondi. Tutti ci incamminiamo per questo stesso cammino: che egli ci sia vicino! Vicino a lui che moriva, c'erano Gesù e la Madonna e proprio per questo egli ha vissuto la morte più bella. Maria Santissima nel giorno della sua morte non ebbe presente Gesù come lo ebbe presente san Giuseppe. Se Gesù fu presente a Maria, fu presente però d'una presenza invisibile, d'una presenza che non era sensibile. Anche se le fosse apparso il Signore, non era più il Gesù passibile, il Gesù che era il suo Figlio, che aveva tenuto nelle sue braccia. L'immensa grandezza del Kyrios dopo la resurrezione, sembra che abbia dovuto impedire a Maria, fintanto che ella stessa non fu assunta nella gloria, quel rapporto di intimità, quel rapporto di semplicità che doveva avere invece Maria prima che Gesù fosse morto. Ma invece quando moriva Giuseppe, Gesù era al suo fianco ed era il suo Figlio, uno che aveva lavorato con lui, che era stato con lui tutta la vita: era lì la sua sposa, la Vergine. Nessuna morte fu più dolce, nessuna morte sarà mai più dolce di quella di Giuseppe. Come luminosa fu quella morte! Non fu che il trionfo dell'amore. Come desidererei morire con una certa imitazione di quella morte! Come vorrei che mi fosse ugualmente così vicino il Signore, la Vergine, san Giuseppe, perché il mio passaggio da questa vita al cielo, non avesse le angosce, il timore, non conoscesse il turbamento, non avesse poi soprattutto quelle terribili tentazioni contro la fede che assalgono l'anima in quel momento! Ma se egli è il nostro padre putativo, potete credere che egli faccia morire un suo piccolo bambino, come siamo noi, senza portarlo nelle braccia? Ecco noi dobbiamo morire nelle braccia di lui. Allora ci si potrà addormentare tranquilli, senza timore. Dobbiamo chiedere a Giuseppe anche questo; di esserci presente durante tutta la vita per insegnarci come si vive, ma che ci sia presente anche durante la nostra morte per insegnarci come si muore.
Terza meditazione
Chi era san Giuseppe?
Che cosa dice di san Giuseppe il Vangelo? Se non ci fossero stati i Vangeli dell'infanzia nulla avremmo saputo di lui; e anche i Vangeli dell'infanzia soltanto occasionalmente parlano di lui. La Madonna, almeno nei Vangeli dell'infanzia è il personaggio principale, soprattutto in san Luca. Ma san Giuseppe no; di lui si parla soltanto perché si vuole assicurare Maria, il suo concepimento verginale non deve prestarsi a interpretazioni malevole e per questo si dice che ella è fidanzata.
In san Matteo la presenza di san Giuseppe è più accentuata e la minima cosa sembra abbia l'iniziativa sua: quando deve salvare il Bambino e la Madre è a Giuseppe che appare l'angelo. Ma tranne questo, le altre apparizioni di Giuseppe sono assolutamente fugaci, sono piuttosto supposte che narrate. Così nel ritrovamento al Tempio: è la Madre che prende l'iniziativa di parlare. In generale il padre ha più autorità della madre, ma qui sta zitto, non si ricorda nemmeno una parola di lui. La Madonna ha detto qualche parola, ma Giuseppe nessuna. Vive, si direbbe, in una adorazione senza fine; la grandezza del mistero sembra sopraffarlo, non esce dal suo silenzio.
Il Vangelo ci dice un'altra cosa di Giuseppe, quello che faceva, che era un po' di tutto, intendiamoci: il fabbro, il carpentiere. Era un artigiano, un uomo tutto fare, un uomo che sapeva fare un po' di tutto.
E un'altra cosa più grande: nel Vangelo di Luca, si dice che Gesù era conosciuto come il figlio di Giuseppe. Quando infatti parla nella sinagoga, gli uomini dicono di Gesù: «Non è il figlio di Giuseppe?». Giuseppe che vive nell'ombra e Gesù che vive nell'ombra di lui, nell'ombra della sua ombra. Null'altro ci dice il Vangelo.
Crediamo ai sogni?
A me questo mistero insegna un poco una legge del governo divino: Dio che ama, di quale amore doveva amare Giuseppe! Eppure, non solo non permette che il suo silenzio venga violato, che egli esca dal suo nascondimento, ma sembra volerlo, sembra difendere questo nascondimento, perché egli non fa nulla. Ha solo una iniziativa, quella di salvare il suo Figlio. «Va', prendi il Figlio e la Madre e fuggi in Egitto». Ma è una iniziativa in cui l'azione umana rimane totalmente in dipendenza di Dio, in una obbedienza pura a una parola di Dio ricevuta in sogno. Ed ecco la prima cosa più importante: tutto si rivela nel sogno. Dio lo conduce ma attraverso avvenimenti comuni e una vita religiosa che non ha nulla di straordinario. Dobbiamo credere ai sogni? Credo che la risposta sia molto semplice: per un'anima così pura come quella di Giuseppe, è evidente che tutta la sua psicologia rimane in una pura dipendenza dall'azione della grazia, sia che egli sia desto sia che egli dorma. Nel sogno, dice Freud, si può capire di più quali siano le nostre più profonde inclinazioni, il subcosciente emerge. Ma in san Giuseppe non c'è un subcosciente indipendente da Dio. È talmente trasparente la sua anima, talmente pura, che tutto quello che avviene, sia che egli dorma o sia desto, tutto in lui è in dipendenza dall'azione divina. Avverrebbe così anche di noi, se in noi tutto fosse trasparente, perché l'uomo è creatura, e perciò dipende sempre dagli spiriti. È certo che questa dipendenza implica o una purificazione totale dell'essere umano in una dipendenza esclusiva da Dio o invece la dipendenza dallo spirito della gelosia, dallo spirito della lussuria, dallo spirito dell'ambizione, dagli spiriti che, secondo Evagrio, sono anche i demoni, che possono essere le nostre passioni, in quanto, come diceva Clemente Alessandrino, portiamo le stigmate della nostra servitù al peccato. Fintanto che in noi non c'è questa perfetta purezza, non possiamo pretendere che le ispirazioni che abbiamo, sia da svegli, sia dormendo, siano di Dio. Quando l'anima invece è totalmente pura, nulla vi è in lei che non implichi il segno di un'azione divina. Quando siamo desti, è più facile subire l'influenza di Dio che non quando dormiamo, probabilmente. Non lo so; probabilmente, dico, è così. Perché da svegli possiamo volontariamente sottrarci alle inclinazioni della nostra natura, vulnerata dal peccato, possiamo liberarci da quello che c'è in noi di meno puro, di meno limpido, di meno santo e perciò metterci nelle condizioni migliori per potere essere attenti all'azione divina. Mentre quando non siamo perfettamente coscienti, quando non siamo perfettamente liberi, è normale che la nostra natura insorga: ecco il subcosciente. Voi sapete che la purificazione, per essere purificazione del peccato, deve soltanto purificare le intenzioni, la volontà cioè; non raggiungerà mai un livello più profondo. Sicché anche i santi, fintanto che non sono grandi santi, nel subcosciente ancora subiscono le impressioni della natura sensibile, che conosce tutte le inclinazioni del male. Perciò si dice che non dobbiamo credere ai sogni, non dobbiamo crederci proprio per questo, perché anche se abbiamo raggiunto una certa santità di vita, però nel sogno, quando non siamo noi a dominare la nostra natura ancora schiava del male nelle sue radici profonde, il subcosciente insorge e può manifestarsi in forme meno pure, perché non c'è volontà, non c'è coscienza. Quando siamo desti, se insorge in noi un sentimento, possiamo dominarlo; ma di notte non ci dominiamo, la nostra natura si manifesta qual è nelle sue radici, nel subcosciente. La purificazione delle radici più profonde dell'essere viene raggiunta soltanto dai grandi santi negli ultimi anni della vita. Allora anche il sogno può essere un segno di Dio ed espressione di una vita divina. Per noi può esserlo qualche volta ma più spesso non lo è perché siamo peccatori.
Cosa è il peccato?
È anche vero però che non tutto quello che facciamo è peccato. Perché il peccato esista, bisogna che vi sia una mia presa di coscienza e una mia libera volontà di disobbedienza alla legge divina, il mio sottrarmi al Signore. Nell'intimo però, nelle radici più profonde, ci sfugge il nostro essere stesso, non ci dominiamo mai perfettamente. Tanto non ci dominiamo che, appunto, dobbiamo distinguere quello che è temperamento da quelli che sono invece i nostri peccati, quello che è carattere da quello che sono i nostri peccati. Quello che dipende dal temperamento molto spesso sfugge a un libero controllo. Se fossimo dei santi nulla ci sfuggirebbe e infatti è questo il processo della santità. Non è un processo che ci libera solo dal peccato ma anche dalle imperfezioni, perché tende a riplasmare tutto l'uomo, in tal modo che non c'è più un atto in cui sia soltanto il subconscio che si manifesta. Nel santo, è sempre la limpida coscienza che l'uomo vive, come dicevano gli antichi padri del deserto e questa coscienza di sé non si perde mai. Ma quanti atti ci sfuggono! Di quanti atti, che anche se non ci sfuggono, non siamo pienamente responsabili perché non pienamente deliberati, non pienamente voluti! Portati dalla passione si può giungere al punto che anche atti intrinsecamente gravi non siano peccato, o almeno, non siano un peccato grave, perché per il peccato grave ci vuole la piena avvertenza e la deliberata volontà. Allora vedete come sia difficile la santità; implica una purificazione fino alle intime radici dell'essere, che non si raggiunge mai. Diceva Lallemant che il cuore dell'uomo è come un pozzo profondo: quanta più melma porti via, tanta più ti sembra ne resti. Avanti di arrivare alla sorgente pura, ti ci vuole una fatica enorme e un lavoro estremamente lungo. Ed è così anche per la nostra vita interiore prima che sia giunta a questa purezza.
Per il santo, tutto è segno di Dio
Ma san Giuseppe no, san Giuseppe vive in questa purezza, così che ogni cosa che nel sogno egli sente, comprende che è Dio che gli parla. Perché? Fintanto che il vetro della finestra è sudicio, la luce non penetra; ma se è perfettamente limpido, la luce di Dio entra. Così, tanto più Dio opera in noi quanto più è grande la purezza del nostro spirito. San Giuseppe ci dice precisamente questo, ci dice che l'uomo vive in una dipendenza continua da Dio, può vivere in un tale accordo con un Dio che lo ama che non vi è istante in cui Dio non intervenga nella sua vita, non possa manifestargli la sua volontà: da desto, nel sogno, attraverso le creature, attraverso gli stessi nostri sentimenti. Noi viviamo in tale impurità di coscienza che abbiamo bisogno che Dio intervenga dal di fuori: con le prediche, con le esortazioni. Invece per un'anima pura, anche i propri sentimenti sono un segno di Dio.
La "psiche" è il segno o della tua servitù al peccato - se tu non sei santo - o il segno d'una presenza di Dio che ti illumina tutto ed è la santità. L'uomo è sempre dipendente, perché creatura; dovrebbe dipendere totalmente da Dio, e la sua vita sarebbe tutta luce, tutta grazia, e tutta amore. Invece abitualmente dipende, per il peccato, dal peccato stesso. È il Maligno? Secondo i padri della Chiesa sì, cioè la schiavitù al male che vive in noi implica una dipendenza da questa potenza personale del Maligno. Tante volte si è detto questo: non vi è atto in cui l'uomo non sia schiavo del demonio o servo di Dio.
Non viviamo mai una nostra vita, ma viviamo sempre o una obbedienza pura in una adesione perfetta al Signore che ci ama, o viviamo invece sempre più una opacità, un chiuderci in noi stessi, un rifiutarci al Signore e un abbandono alle forze del male che ci dissacrano, che ci sconvolgono, che ci deturpano. Perciò nella nostra dipendenza dal maligno è la nostra dissociazione. Dissociazione, notatelo bene: i mali del mondo moderno, le nevrosi, questi atti patologici dipendono dal male. Rimane vero quello che hanno insegnato certe comunità protestanti: che un cristiano vero non deve aver bisogno dei medici; la vita religiosa è la medicina più perfetta. Immediatamente per quanto riguarda la "psiche": i sentimenti, le malattie mentali: poi, pian piano, anche sul piano fisico. Naturalmente il piano fisico è più lontano da questo centro e perciò l'influenza della grazia su questo è più indiretta.
Salute e salvezza
Ma io mi allontano troppo da san Giuseppe. Volevo dirvi questo: come la santità di Giuseppe implichi di per sé la dipendenza continua, totale, dà Dio. L'uomo vive in una perfetta comunione con Dio e Dio in una perfetta comunione con l'uomo a tal punto che Dio non si salva senza di lui; se Gesù vuol essere salvato è san Giuseppe che deve salvarlo: né Dio opera senza l'uomo, né l'uomo opera più senza Dio. Questo, in fondo, è il mistero della santità divina, questa trasparenza totale. Il Paradiso è anche questo, perché il Paradiso, dicevano i padri del deserto, è la santità dell'uomo. Che cosa cerchi? La salvezza; e la salvezza è la salute. Infatti in latino c'è lo stesso termine: salus, la salute. La salute dell'uomo è la sua unità. Noi non siamo più uno, siamo dissociati. La nostra volontà viene da Dio e sentiamo invece che dentro di noi tutto o almeno molta parte di noi resiste: nel nostro orgoglio, nella nostra sensualità, nel nostro egoismo, non siamo ancora trasparenti. Ma lasciate che Dio vi investa sempre di più. La luce divina prima di tutto rafforzerà la vostra volontà; poi la volontà ridonerà luce alla vostra intelligenza; poi saranno tutte le potenze intime che sempre più saranno penetrate dalla grazia, trasformate dal Signore; poi tutto l'uomo. Non è soltanto tutto l'uomo come organismo, è tutta la sua vita: quando è desto e quando dorme, quando mangia e quando riposa, sempre. E non vi è più atto allora che non sia divino, perché in ogni atto tu vivi questa dipendenza assoluta da Dio, in tal modo che non c'è più differenza tra un atto sacro e un altro atto. Mangi? Preghi? È la stessa cosa, perché nel mangiare, nel pregare, tu vivi la tua unità col Signore. Gesù certamente era Figlio di Dio quando mangiava e quando dormiva. La natura umana che egli aveva assunto, perfettamente pura, non viveva più che come strumento non solo di una divina potenza, ma di una divina santità. In Gesù questo è evidente, ma anche in Maria e in Giuseppe, in quanto la nostra natura è chiamata per vocazione divina a vivere questa unità col Signore, ad essere pura trasparenza a un'azione di Dio.
Essere una cosa sola con Dio
Da tutto questo se ne deduce, dato che Dio è sempre all'opera, che se noi ora non viviamo un atto divino è perché ancora vi sono delle impurità in noi, perché ancora la luce divina filtra faticosamente nei meandri della nostra anima. Sia pure che non abbiamo peccato, però il fatto che non abbiamo dei peccati, non implica davvero che noi siamo divenuti totalmente docili a Dio. Altra cosa è l'assenza del peccato, altra cosa è questa purezza che ci trasforma in qualche modo in Dio stesso, ci fa organo dello Spirito divino. Il primo passo per arrivare a questo è liberarci dai peccati e questo ci dice in fondo il Vangelo, riguardo a san Giuseppe: «egli era uomo giusto». Ma basta questa giustizia? No, anche se il "giusto" del Vangelo vuol dire la giustizia perfetta. Quello che di Giuseppe ci dice il Vangelo è molto di più: in lui vi è una fede, una umiltà, una trasparenza assoluta; lui è come se non fosse. Ma questa passività non è forse la distruzione dell'uomo? No: è invece la distruzione di una indipendenza dell'uomo da Dio che è il suo peccato, che è la distruzione dell'uomo, se l'uomo è creatura. Nella misura invece che tu realizzi te stesso, come creatura, non puoi farlo che in questa dipendenza assoluta dall'essere divino che ti porta ad essere come sacramento di Dio, come icona della divinità. Ora, di tutte le icone della divinità nessuna, dopo Maria, può paragonarsi a Giuseppe. Proprio per questo nessuno può vivere la missione che ha vissuto Giuseppe di essere padre di Gesù, sia pure putativo.
Papà di Gesù
Che vuol dire essere padre putativo? È stato per il Figlio di Dio l'immagine stessa del Padre. Il Figlio di Dio, quando vedeva Giuseppe, vedeva il suo Padre, perché lo chiamava suo padre. Gesù nella sua preghiera chiamava Dio "Abbà, Padre". Lo dice tutto il Vangelo, lo dice anche san Paolo; è una delle cose più sicure. Ora è evidente che prima di chiamar papà il Padre dei Cieli, Gesù ha detto questa parola all'uomo che viveva con lui, che lavorava per lui, che era sotto il suo tetto. Lo stesso nome che Gesù dice al Padre dei Cieli, lo dice al padre che è quaggiù sulla terra. Ma sono due padri per lui? Giuseppe è la pura trasparenza, la pura icona del Padre per nostro Signore. È questa la grandezza dell'uomo: divenire una immagine di Dio. «Chi vede me vede il Padre», dirà Gesù. Ma Giuseppe poteva dire: «Tu mi vedi e vedi il Padre tuo». E questa è una cosa ancora più grande, perché vedere il Padre in Gesù non è tanto difficile perché è il Figlio di Dio; ma Gesù vede il Padre suo nell'uomo che è sotto il suo tetto! Ecco la vocazione ultima dell'uomo: questa trasparenza pura, questo puro silenzio dell'essere che lascia posto totalmente a Dio nella sua vita. Sia che tu dorma sia che tu sia desto quello che si opera in te è Dio solo che l'opera, tu non fai che consentire all'azione divina, tu non fai che aprirti all'azione divina, tu non fai che lasciarti modellare, plasmare da Dio.
Che il Signore ci doni di vivere, anche sia pur lontanamente, questa medesima grazia, perché davvero questa è la grazia delle grazie: essere quello che Dio ci ha voluto fin dall'inizio, pura immagine sua.



* * *


ESORTAZIONE APOSTOLICA
REDEMPTORIS CUSTOS
DEL SANTO PADRE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA FIGURA E LA MISSIONE
DI SAN GIUSEPPE
NELLA VITA DI CRISTO
E DELLA CHIESA


Ai Vescovi
ai sacerdoti e ai diaconi
ai religiosi e alle religiose
a tutti i fedeli

INTRODUZIONE

1. Chiamato ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24).
Ispirandosi al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all'educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Irenaei, «Adversus haereses», IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello.
Nel centenario della pubblicazione dell'epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182) e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham», die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale, perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e l'amore al Redentore, che egli esemplarmente servì.
In tal modo l'intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare» all'economia della salvezza (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all'identità del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d'Egitto per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr. v. g., S. Bernardi, «Super "Missus est" Hom.», II, 16: «S. Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «l. c.» 179).
Ritengo, infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l'umanità, di ritrovare continuamente la propria identità nell'ambito di tale disegno redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell'Incarnazione.
Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun'altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l'eterno Padre «ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).

I
IL QUADRO EVANGELICO
Il matrimonio con Maria
2. «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).
In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa.
L'evangelista Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l'origine della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l'Annunciazione della nascita di Gesù: «L'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le parole dell'angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32).
L'Evangelista aveva poco prima affermato che, al momento dell'Annunciazione, Maria era «promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste «nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata» con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei sin dall'Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo.
A questo punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il contenuto dell'Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che deve partorire e porta in sé il mistero della maternità.
3. In queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all'inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati"» (Mt 1,20-21).
Esiste una stretta analogia tra l'«Annunciazione» del testo di Matteo e quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che - secondo la promessa divina - adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù - Yehossua', che significa: Dio salva.
Il messaggero si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret, a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria.
«Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva per mezzo del suo messaggero.
II
IL DEPOSITARIO DEL MISTERO DI DIO
4. Quando Maria, poco dopo l'Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che si ricollegavano al saluto dell'angelo nell'Annunciazione, Elisabetta disse: «E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45). Queste parole sono state il pensiero-guida dell'enciclica «Redemptoris Mater», con la quale ho inteso approfondire l'insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma: «La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium», 58), «andando innanzi» (cfr. «Lumen Gentium», 63) a tutti coloro che mediante la fede seguono Cristo.
Ora, all'inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all'«annuncio» dell'angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).
Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell'Annunciazione. Il Concilio insegna: «A Dio che rivela è dovuta "l'obbedienza della fede", per la quale l'uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il "pieno ossequio dell'intelletto e della volontà" e assentendo volontariamente alla rivelazione da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca l'essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret.
5. Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio» (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo che dall'Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l'adozione a figli» (cfr. Gal 4,4-5). «Piacque a Dio - insegna il Concilio - nella sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2).
Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria - ed anche in relazione a Maria - egli partecipa a questa fase culminante dell'autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria - soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste - andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium», 63).
6. La via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima, cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella - ritornato Cristo al Padre - si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità. Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il primo depositario. L'Incarnazione e la Redenzione costituiscono un'unità organica ed indissolubile, in cui l'«economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe, stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione, fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei Sommi Pontefici e dei martiri (cfr. S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus, die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]).
Il servizio della paternità
7. Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. E' per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe - una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione (cfr. Rm 8,28s) - passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia.
Gli evangelisti, pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità (cfr. Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (cfr. Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5).
Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe. «Perché - si chiede santo Agostino - non lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (...) La Scrittura afferma, per mezzo dell'autorità angelica, che egli era il marito. Non temere, dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino, benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l'origine della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l'autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine, anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall'unione coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51», 10, 16: PL 38, 342).
Il Figlio di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL 34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà, il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la fedeltà, perché non c'è nessun adulterio; il sacramento, perché non c'è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia», I, 11, 13: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL 44, 810).
Analizzando la natura del matrimonio, sia sant'Agostino che san Tommaso la collocano costantemente nell'«indivisibile unione degli animi», nell'«unione dei cuori», nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8: PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34, 1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l'umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà» il «dono sponsale di sé» nell'accogliere ed esprimere un tale amore (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431). «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch'esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all'inizio dell'Antico, c'è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l'opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell'amore e questa culla della vita» (Pauli VI, «Allocutio ad Motum "Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta», XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 313-317).
Quanti insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l'essenza ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall'amore» e «la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l'amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell'amore di Dio per l'umanità e dell'amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio», 17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica» («Familiaris Consortio», 49; cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l'esempio di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85).
8. San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l'esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente «ministro della salvezza» (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa concretamente «nell'aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell'incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell'aver usato dell'autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell'aver convertito la sua umana vocazione all'amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell'amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110).
La liturgia, ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum», Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell'opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell'onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178).
Poiché non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell'amore naturale, tutta quell'affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere» (Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958] 174).
Con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l'amore corrispondente, quell'amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15).
Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l'umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella «condiscendenza» inerente all'economia dell'Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito. La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero...» e il riferimento dell'avvenimento descritto a un testo dell'antico testamento tendono a sottolineare l'unità e la continuità del progetto, che raggiunge in Cristo il suo compimento.
Con l'Incarnazione le «promesse» e le «figure» dell'antico testamento divengono «realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l'umile serva del Signore, preparata dall'eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere «l'ordinatore della nascita del Signore» (Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l'incarico di provvedere all'inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta «privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla sua custodia.
Il censimento
9. Recandosi a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità, Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (cfr. Gv 1,45) nell'anagrafe dell'impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese l'appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo fatto storico, tutt'altro che marginale: «Poiché il primo censimento di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato, tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui, fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l'impero nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87, 194 et 196).
La nascita a Betlemme
10. Quale depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo», Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,6-7).
Giuseppe fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti, primo annuncio di quella «spoliazione» (cfr. Fil 2,5-8), a cui Cristo liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu testimone dell'adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù dopo che l'angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (cfr. Lc 2,15-16); più tardi fu anche testimone dell'omaggio dei magi, venuti dall'Oriente (cfr. Mt 2,11).
La circoncisione
11. Essendo la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo rito (cfr. Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù.
Il principio secondo il quale i riti dell'antico testamento sono l'ombra della realtà (cfr. Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti, anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento». L'alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (cfr. Gen 17,13), raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (cfr. 2Cor 1,20).
L'imposizione del nome
12. In occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù. Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (cfr. At 4,12); ed a Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»: «E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui missione di salvatore.
La presentazione di Gesù al tempio
13. Questo rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio.
Il riscatto dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe. Nel primogenito era rappresentato il popolo dell'alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero «prezzo» del riscatto (cfr. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie» il rito dell'antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli un soggetto da riscattare, ma l'autore stesso del riscatto.
L'Evangelista rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone, indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione» (cfr. Lc 2,30-34).
La fuga in Egitto
14. Dopo la presentazione al tempio l'evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).
Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo"» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall'Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l'avvertimento, «prese con sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Dall'Egitto ho chiamato mio figlio"» (Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).
In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l'Egitto. Come Israele aveva preso la via dell'esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l'antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza.
La permanenza di Gesù al tempio
15. Dal momento dell'Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo senso nell'intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l'ambito della sua dimora fu la santa Famiglia di Nazaret - una delle tante famiglie di questa cittadina della Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta», durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni.
Gesù partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe. Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero» (Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49-50).
Udì questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre». Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,... non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio».
Il sostentamento e l'educazione di Gesù a Nazaret
16. La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc 2,52) avvenne nell'ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l'alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre.
Nel sacrifico eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282).
Da parte sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe.
III
L'UOMO GIUSTO - LO SPOSO
17. Nel corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria, rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell'Annunciazione, mentre Giuseppe - come è già stato detto - al momento della sua «annunciazione» non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne l'inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19).
Bisogna saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle più importanti testimonianze circa l'uomo e la sua vocazione. Nel corso delle generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
18. L'uomo «giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L'Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo... chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l'immagine dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell'intimo il desiderio di far dono totale di sè esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell'Annunciazione Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat».
Il fatto di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il Figlio dell'Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell'uomo».
Rivolgendosi a Giuseppe con le parole dell'angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò che era avvenuto prima - le sue nozze con Maria - era avvenuto per volontà di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (cfr. Lc 1,27).
19. Nelle parole dell'«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l'ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione. Quest'uomo «giusto» che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore.
«Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»: da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l'amore di Dio, che è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5), forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche - ed in modo del tutto singolare - l'amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell'esclusivo abbandono, dell'alleanza delle persone e dell'autentica comunione sull'esempio del mistero trinitario.
«Giuseppe... prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un'altra vicinanza sponsale. La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell'unione e del contatto tra le persone - dell'uomo e della donna - provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbidiente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la fonte dell'amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore più grande di quello che «l'uomo giusto» poteva attendersi a misura del proprio cuore umano.
20. Nella liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta, infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l'unico mistero dell'alleanza di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è comunione di amore tra Dio e gli uomini.
Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l'esclusiva appartenenza a Dio.
D'altra parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù. «E' certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c'è dubbio che a quell'altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell'onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all'eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta» IX [190] 177s).
21. Un tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima nella povertà di Betlemme, poi nell'esilio in Egitto e, successivamente, nella dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell'Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme - così come nella Incarnazione - a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio - vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l'autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E' contenuta in ciò una conseguenza dell'unione ipostatica: umanità assunta nell'unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l'assunzione dell'umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe.
In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io... ti cercavamo». Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell'Incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall'inizio accettò mediante «l'obbedienza della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all'uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità.
IV
IL LAVORO ESPRESSIONE DELL'AMORE
22. Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l'intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l'Evangelista dopo l'episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l'obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell'ordine della salvezza e della santità è l'esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all'umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell'Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione.
23. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell'uomo» che «trasforma la natura» e rende l'uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9).
L'importanza del lavoro nella vita dell'uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell'uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l'amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt; cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane» die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11 mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS 47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960: AAS 52 [1960] 398).
24. Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono "grandi cose", ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).
V
IL PRIMATO DELLA VITA INTERIORE
25. Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E' un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale.
26. Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).
Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l'esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2).
27. La comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero dell'Incarnazione proprio sotto l'aspetto dell'umanità di Cristo, strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1).
Tra queste azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non omettono di sottolineare l'importanza del contatto fisico con Gesù in ordine alle guarigioni (cfr., ex. gr., Mc 1,41) e l'influsso da lui esercitato su Giovanni il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno (cfr. Lc 1,41-44).
La testimonianza apostolica non ha trascurato - come si è visto - la narrazione della nascita di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (cfr. Pii XII, «Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s).
Poiché l'amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull'amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l'amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull'amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell'amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore.
Inoltre, l'apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo la nota distinzione tra l'amore della verità («caritas veritatis») e l'esigenza dell'amore («necessitas caritatis») (cfr. S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato sia l'amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall'umanità di Cristo, sia l'esigenza dell'amore, cioè l'amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità.
VI
PATRONO DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO
28. In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell'eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s).
Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall'essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù... Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia... E' dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).
29. Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove - come ho scritto nell'esortazione apostolica "Christifideles Laici" - la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall'alto» (cfr. Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall'intercessione e dall'esempio dei suoi santi.
30. Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell'insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all'intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.
Come è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l'attegiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell'assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all'inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il modello dell'obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio.
Paolo VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell'azione divina con l'azione umana nella grande economia della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Gv 15,5), non è mai dispensata da un'umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).
31. La Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all'opera di salvezza, di donarle la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo incarnato e di camminare sull'esempio e per l'intercessione del santo, davanti a Dio nelle vie della santità e della giustizia (cfr. «Missale Romanum», Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B. M. V.»; Post communio «in Missa votiva S. Ioseph»).
Già cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L'epistola enciclica «Quamquam Pluries» si richiamava a quell'«amore paterno» che Giuseppe «portava al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia», raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue». Da allora la Chiesa - come ho ricordato all'inizio - implora la protezione di san Giuseppe - «per quel sacro vincolo di carità che lo strinse all'Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.
Ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi, o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi..., assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre...; e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» (cfr. «Oratio ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam Pluries"» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890] 183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni uomo.
32. Auspico vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di innalzare a lui. E' certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo millennio cristiano.
Il Concilio Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio», a quell'«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro. Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta», pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l'«economia della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all'apostolato.
L'uomo giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell'antica alleanza, è stato anche introdotto nell'«inizio» della nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi la «pienezza del tempo» ch'è propria del mistero ineffabile della Incarnazione del Verbo.
Che san Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Dato a Roma, presso san Pietro, il 15 agosto - solennità dell'Assunzione della beata Vergine Maria - dell'anno 1989, undecimo di pontificato.
GIOVANNI PAOLO II