mercoledì 12 marzo 2014

La “tentazione della verità”

Duri e puri?

DI ANDREAS HOFER

...è una tentazione che mi tocca da vicino, molto vicino. Sempre viva, questa che chiamerei la “tentazione della verità”, alla quale spesso e volentieri ho ceduto e cedo ancora. Quindi via ogni riferimento a terzi o velleità da “primo della classe dei virtuosi”. Ciò che scrivo si riferisce prima di tutto a me stesso, anche se ritengo che altri possano riconoscersi in questo mio percorso di vita e forse trarne qualche spunto utile a non ripercorrere i miei stessi errori.
È un discorso molto delicato, sempre a rischio di banalizzazione e perciò fonte di malintesi, polemiche velenose e così via. Cerco di articolare meglio che posso quanto intendo dire, senza pretesa di esaustività. Se posso permettermi un consiglio, è straordinaria la maniera in cui ne scrive Fabrice Hadjadj nel suo bellissimo Anti-manuale di evangelizzazione (tutto quel che scrive Hadjadj non è semplice “teoria” o “dottrina”, sono “ruminazioni” che toccano corde profonde, favoriscono un incontro personale che coinvolge tutta la persona).
Occorre prima di tutto guardarsi dal confondere la fede cattolica con la militanza in una sorta di “partito religioso” così come dall’intellettualismo esasperato che riduce la fede (che è “fare credito a Dio”, una comunione spirituale con Cristo, un rapporto vivo e personale) a ideologia. L’unione dello zelo e dell’impazienza rischiano di portare il cattolico fervoroso a mutarsi in un “cattolicista” che “milita” nel cattolicesimo come “militerebbe” in un partito politico. Crede di dover trasmettere una semplice dottrina, una “conoscenza”, un possesso intellettuale, un pensiero collettivo. Da qui il dualismo sociologico tra una élite di puri e duri “illuminati” e la massa dannata di “non illuminati”, meritevole unicamente di disprezzo.
L’errore del “cattolicista” è di valutare troppo poco l’uomo. L’uomo non è un animale, così le verità della fede non sono stimoli nel senso pavloviano del termine. Non basta “enunciare” la verità e aspettarsi che l’uomo alzi la zampa in segno di assenso. Se così fosse l’obbedienza della fede sarebbe la risposta a una serie di slogan, a una serie di parole d’ordine, e l’uomo sarebbe niente altro che un homo zoologicus. L’uomo invece è libero perché in lui c’è anche lo spirito. In questo senso la “risposta negativa” va messa in conto per tanti motivi. In primo luogo per l’inadeguatezza dell’annunciatore, che spesso annuncia solo una verità troppo umana o perfino deformata. In secondo luogo perché il Vangelo pretende di conoscere il cuore di ogni uomo meglio di quanto egli stesso lo conosca. E questa pretesa è tanto provocante e intensa da poter suscitare, di primo acchito, una feroce reazione negativa.
Quindi il rigetto può avvenire tanto perché si è capito male il Vangelo, per l’inadeguatezza dell’annunciatore umano, quanto perché lo si è inteso benissimo ma si rifiuta di risconoscersi insufficienti rigettando la grazia in nome di una “morale della padronanza di sé”.
Il problema, non di poco conto, è che per una creatura è impossibile giudicare cosa sia davvero avvenuto nel cuore di un’altra creatura, in primo luogo se si trovi o meno in stato di ignoranza invincibile. Creatura che ad ogni modo reca sempre in sé il calco di Dio almeno come presenza di creazione (forse anche di grazia, ma non lo sappiamo). Questo non ha nulla a che vedere col buonismo del “volemose ben”, che annacqua l’annuncio onde evitare ogni scontro, cioè la manifestazione esteriore della reazione negativa interiore.
Perciò non bisogna confondere la “santa ira”, o la “ira moderata” di cui parla san Tommaso d’Aquino, con l’indignazione farisaica. La prima è quella forte passione con cui il cristiano “incarna” la resistenza al male, è una sorta di “supporto emotivo” con cui diamo forza ed efficacia alle nostre azioni buone che, altrimenti, resterebbero allo stato potenziale, ineffettive. Un magistrato che nell’esercizio delle sue funzioni non fosse spinto da una forte passione per la giustizia è a rischio. Rischia di diventare un mero funzionario capace di servire indifferentemente anche un ordine giuridico di stampo nichilista. Gli esempi attuali si sprecano.
La santa ira è espressione di misericordia. La misericordia non è, come spesso alcuni sembrano credere, la semplice “tenerezza”. Misericordioso è chi prova afflizione per il male (fisico e morale) che ha ghermito un’altra creatura come se avesse colpito se stesso. E per questo vorrebbe levarle quel peso, liberarla dal male che l’aggredisce.
Questo è il fondamento dell’ira di Dio, è il motivo per cui le Scritture Gli attribuiscono la gelosia: vedere la propria creatura che si autodistrugge e reagire con forza per rammentarle che il suo posto non è insieme ai porci nel pantano a mangiar ghiande, ma sono le nozze eterne con lo Sposo, il Dio-Creatore. Non bisogna dare letture troppo “umane” dei passi evangelici e interpretare le “parole dure” di Gesù come un salvacondotto che legittimi le nostre personali rudezze. Bisogna sempre chiedersi se la nostra durezza è ispirata da questo amore infinito e misericordioso oppure da moventi assai più terreni. Altrimenti diventiamo delle maschere teatrali, degli imitatori scadenti e superficiali, rischiando di infliggere ferite molto profonde al nostro prossimo.
L’indignazione è tutt’altra cosa: è quello stato d’animo sentenzioso, giudicante e risentito di chi si sente interiormente “giusto”, perennemente in cerca di “colpevoli” da additare. “Indignati” sono tutti gli “incorruttibili” della storia, l’eterno “partito dei puri” che comprende coloro che sono soliti presentarsi, alla stregua dei farisei, come i “più giusti dei giusti” . Questa falsa purezza si presenta sempre sotto forma di ipersensibilità allo scandalo. Stracciarsi le vesti con troppa frequenza, come Caifa “scandalizzato” di fronte a Gesù per le sue “bestemmie”, è il sintomo di un’anima che non sente più bisogno di conversione. Cieca di fronte al proprio male, vede solo quello altrui. Non vedere in sé alcuna traccia di male equivale ad esserne pervasi al punto da essere divenuti ciechi. Per questo qualcuno ha detto che l’attitudine all’indignazione permanente è indice di una grande povertà di spirito.
Il “puro” ha una necessità assoluta, quasi fisiologica, dello “scandalo”, è il suo rifugio psicologico. E’ la cosiddetta “memoria negativa”. Il “puro” ha bisogno di sentirsi moralmente superiore. Perciò ricorda e nota solo ciò che conferma la sua convinzione di vivere in un mondo orribile.
È una tentazione cui tutti siamo soggetti (di chi scrive per primo, ripeto a scanso di equivoci): usare le cose sante della fede come valvola di sfogo del nostro malessere, ripetere ossessivamente che tutto va male, denunciare le cospirazioni dei malvagi per sentirci migliori. È umano cadere ed è sbagliato anche essere troppo duri con se stessi. Ma la tentazione va riconosciuta come tale per poter essere contrastata. In caso contrario rischiamo di cadere inavvertitamente nella tentazione del «Signore degli Anelli»: combattere il male con gli strumenti forgiati dal Signore oscuro. Col rischio, poco alla volta, di finire per assumere le sue sembianze.