domenica 22 settembre 2013

La coscienza è un organo, non un oracolo: richiede formazione ed educazione


Riporto una riflessione sulla coscienza, che ho estratto dal saggio “L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore” (Cantagalli, 2009) di Benedetto XVI.

Una conversazione sulla coscienza erronea ed alcune prime conclusioni (pp. 7-15)
[…] la questione della coscienza ci porta veramente al cuore del problema morale, così come la stessa questione dell’esistenza umana. Vorrei cercare ora di esporre tale questione non nella forma di una riflessione rigorosamente concettuale e quindi inevitabilmente molto astratta, ma prendendo piuttosto una via – come si dice oggi – narrativa, raccontando anzitutto la storia del mio approccio personale a questo problema.
Fu all’inizio della mia attività accademica che, per la prima volta, divenni consapevole di tale questione in tutta la sua urgenza. Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza.
Quello che mi sbalordì in quest’affermazione non fu innanzi tutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio stesso, per poter salvare con questo stratagemma gli uomini, l’idea, per così dire, di un accecamento mandato da Dio stesso per la salvezza delle persone in questione. Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare e che sia adatto solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale, che la fede della Chiesa cattolica comporta.
La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non sarebbe la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo starebbe a casa propria più nelle tenebre che nella luce; la fede non sarebbe un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la fede ad altri? Non sarebbe invece meglio risparmiar loro questo peso o anche tenerli lontani da esso?
Negli ultimi decenni, concezioni di questo tipo hanno visibilmente paralizzato lo slancio dell’evangelizzazione: chi intende la fede come un carico pesante, come un’imposizione di esigenze morali, non può invitare gli altri a credere; egli preferisce piuttosto lasciarli nella presunta libertà della loro buona fede.
Colui che parlava in tal modo era un sincero credente, anzi direi un cattolico rigoroso, che adempiva al suo dovere con convinzione e scrupolosità. Tuttavia, egli esprimeva in tal modo una modalità di esperienza di fede che può solo inquietare e la cui diffusione potrebbe essere fatale per la fede. L’avversione addirittura traumatica di molti contro ciò che considerano un tipo di cattolicesimo “pre-conciliare”, deriva, secondo me, dall’incontro con una fede di tal genere, rimasta ormai quasi solo un peso. A questo punto sorgono davvero questioni di massima importanza: una fede simile può essere veramente un incontro con la verità? La verità sull’uomo e su Dio è davvero così triste e così pesante, o invece la verità non consiste proprio nel superamento di un tale legalismo? Essa non consiste anzi nella libertà? Ma dove conduce la libertà? Quale strada essa ci indica? Nella conclusione dovremo riprendere questi problemi fondamentali dell’esistenza cristiana; ma è necessario prima ritornare al nucleo centrale del nostro tema, all’argomento della coscienza. Come ho detto, ciò che mi spaventò nell’argomento sopra menzionato fu soprattutto la caricatura della fede, che mi pareva di potervi riscontrare. Tuttavia, seguendo un secondo filo di riflessioni, mi sembrò che fosse falso anche il concetto di coscienza che veniva presupposto.
La coscienza erronea protegge l’uomo dalle onerose esigenze della verità e così la salva: questa era l’argomentazione. Qui la coscienza non si presenta come la finestra che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della responsabilità. In questa concezione la coscienza non è l’apertura dell’uomo al fondamento del suo essere, la possibilità di percepire quanto è più elevato e più essenziale. Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nasconderlesi. A tal riguardo è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo. La coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla verità. Essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione; così come nella giustificazione del conformismo sociale, che come minimo comun denominatore tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze predominanti nella società e su quanto in essa è diventato abitudine. L’essere convinto delle proprie opinioni, così come l’adattarsi a quelle degli altri sono sufficienti. L’uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde, tanto meglio è per lui.
Quanto era stato per me solo marginalmente chiaro in questa discussione, divenne pienamente evidente un po’ dopo, in occasione di una disputa tra colleghi, a proposito del potere di giustificazione della coscienza erronea. Qualcuno obiettò a questa tesi che, se ciò dovesse avere un valore universale, allora persino i membri delle SS naziste sarebbero giustificati e dovremmo cercali in paradiso. Essi infatti portarono a compimento le loro atrocità con fanatica convinzione ed anche con un’assoluta certezza di coscienza. Al che un altro rispose con la massima naturalezza che le cose stavano proprio così: non c’è proprio nessun dubbio che Hitler ed i suoi complici, che erano profondamente convinti della loro causa, non avrebbero potuto agire diversamente e che quindi, per quanto siano state oggettivamente spaventose le loro azioni, essi, a livello soggettivo, si comportarono moralmente bene. Dal momento che essi seguirono la loro coscienza – per quanto deformata -, si dovrebbe riconoscere che il loro comportamento era per loro morale e non si potrebbe pertanto mettere in dubbio la loro salvezza eterna.
Dopo una tale conversazione fui assolutamente sicuro che c’era qualcosa che non quadrava in questa teoria sul potere giustificativo della coscienza soggettiva, in altre parole: fui sicuro che doveva esser falsa una concezione di coscienza, che portava a simili conclusioni. Una ferma convinzione soggettiva e la conseguente mancanza di dubbi e scrupoli non giustificano affatto l’uomo. Circa trent’anni dopo trovai sintetizzate nelle lucide parole dello psicologo Albert Gorres le intuizioni che da lungo tempo anch’io cercavo di articolare a livello concettuale. La loro elaborazione intende costituire il nucleo di questo contributo.
Gorres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa, appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro la mia esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera da teatro”, come dice Gorres. “Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler o Himmler o Stalin. Forse non ne hanno nessuno i padrini della mafia, ma forse le loro spoglie sono solo ben nascoste in cantina. Anche i sensi di colpa abortiti […] Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.
Del resto anche solo uno sguardo alla Sacra Scrittura avrebbe potuto preservare da simili diagnosi e da una simile teoria della giustificazione mediante la coscienza erronea. Nel Salmo 19,13 è contenuta quest’affermazione, sempre meritevole di ponderazione: “Chi si accorge dei propri errori? Liberami dalle colpe che non vedo!”. Qui non si tratta di oggettivismo veterotestamentario, ma della più profonda saggezza umana: il non vedere più le colpe, l’ammutolirsi della voce della coscienza in così numerosi ambiti della vita è una malattia spirituale molto più pericolosa della colpa, che uno è ancora in grado di riconoscere come tale. Chi non è più in grado di riconoscere che uccidere è peccato, è caduto più profondamente di chi può ancora riconoscere la malizia del proprio comportamento, poiché si è allontanato maggiormente dalla verità e dalla conversione.
Non per niente, nell’incontro con Gesù, chi si autogiustifica appare come colui che è veramente perduto. Se il pubblicano, con tutti i suoi innegabili peccati, sta davanti a Dio più giustificato del fariseo con tutte le sue opere veramente buone (Lc 18,9-14), ciò avviene non perché in qualche modo i peccati del pubblicano non siano veramente peccati e le buone opere del fariseo non siano buone opere. Ciò non significa affatto che il bene che l’uomo compie non sia bene davanti a Dio e che il male non sia male davanti a Lui, e neppure che ciò non sia poi in fondo così importante. La ragione vera di questo giudizio paradossale di Dio si mostra proprio a partire dalla nostra questione: il fariseo non sa più che anch’egli ha delle colpe. È completamente in pace con la sua coscienza. Ma questo silenzio della coscienza lo rende impenetrabile per Dio e per gli uomini. Invece il grido della coscienza, che non dà tregua al pubblicano, lo fa capace di verità e di amore. Per questo Gesù può operare con successo nei peccatori, perché essi non sono diventati, dietro il paravento di una coscienza erronea, impermeabili a quel cambiamento che Dio attende da essi, così come da ciascuno di noi. Egli non può invece avere successo con i “giusti”, precisamente perché ad essi sembra di non aver bisogno di perdono e di conversione; infatti la loro coscienza non li accusa, ma piuttosto li giustifica.
Qualcosa di analogo possiamo trovare anche in San Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2,1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità – di una verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Dio a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato. Essa non viene vista solo quando e perché non si vuole vederla. Tale rifiuto della volontà, che impedisce la conoscenza, è colpevole. Perciò se la spia luminosa non si accende, ciò è dovuto ad un deliberato sottrarsi a quanto non desideriamo vedere.
A questo punto della nostra riflessione è possibile tirare le prime conseguenze per rispondere alla questione sulla natura della coscienza. Possiamo dire ora: non si può identificare la coscienza dell’uomo con l’auto-coscienza dell’io, con la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale. Questa consapevolezza, da una parte, può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e delle opinioni ivi diffuse. Dall’altra parte può derivare da una carenza di autocritica, da una incapacità di ascoltare le profondità del proprio spirito. Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa occidentale, conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni economici che sono accaduti. Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era – secondo lui – oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e ad un pericolo mortale.
Detto in altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti ed abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno. Chi fa coincidere la coscienza con convinzioni superficiali, la identifica con una sicurezza pseudo-razionale, intessuta di autogiustificazione, conformismo e pigrizia. La coscienza si degrada a meccanismo di decolpevolizzazione, mentre essa rappresenta proprio la trasparenza del soggetto per il divino e quindi anche la dignità e la grandezza specifiche dell’uomo. La riduzione della coscienza alla certezza soggettiva significa nello stesso tempo la rinuncia alla verità.
Quando il Salmo, anticipando la visione di Gesù sul peccato e la giustizia, prega per la liberazione da colpe non consapevoli, esso attira l’attenzione su tale connessione. Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora prende la sua rivincita, è la vera colpa, una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.

[…] Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già San Paolo aveva detto (cfr. Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ma non di meno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di esse, che avverte la memoria del suo essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, anche i criminali che agiscono con convinzione rimangono colpevoli. (pp. 29,30)

Che cosa è la coscienza e come parla? (pp. 154-160)
Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste, quando abbiamo detto che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma, di rimando, sorge immediatamente l’obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività? Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti, non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune oggettivo di più alto livello? […] In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della soggettività come tale.
Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di Dio dentro di noi. Con questo concetto viene stabilito il carattere assolutamente inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi legge umana. L’esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l’uomo dà all’uomo una dignità assoluta. Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria? Contraddice forse se stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un’azione, anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro, o addirittura esige da lui, di compiere questa stessa azione? Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi di coscienza individuali con la voce di Dio. La coscienza non è un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann.
Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come “super-io”, come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che ci hanno formati e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal punto che essa non ci parla più dall’esterno, ma dal più intimo di noi stessi. In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sorgente reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un altro, una guida estranea in noi stessi. La coscienza non sarebbe allora un organo di libertà, ma una schiavitù interiorizzata dalla quale l’uomo dovrebbe logicamente liberarsi per scoprire l’ampiezza della sua reale libertà.
Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni di coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente. Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto un’educazione formale, reagiscono spontaneamente contro l’ingiustizia. Essi dicono un sì spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli a crescere. D’altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà e una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è stato appreso, o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è diventata un senso interiore di ciò che è buono, una sorta di comando a distanza volto a guidare l’uomo attraverso ciò che gli è stato insegnato.
Qual è allora la posizione reale della coscienza?
Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull’argomento: “la coscienza è un organo, non un oracolo”. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma, essendo un organo, ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola. Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall’esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, ovvero che possiamo esprimerci con il linguaggio.
L’uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo diventa soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l’uomo è “un essere che ha bisogno dell’aiuto di altri per diventare ciò che è in se stesso”.
Vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L’uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell’aiuto degli altri. La coscienza richiede formazione ed educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per un’intera civiltà.
Incontriamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l’uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza. Non riuscire ad avere una coscienza della colpa è una malattia. […] Non si può quindi accettare il principio secondo cui ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece, è proprio per colpa sua se la sua coscienza è oscurata al punto da non fargli più vedere ciò che, in quanto uomo, dovrebbe vedere.
In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di avere cura di essa, di formarla e di educarla. […] Il diritto della coscienza è l’obbligo di formarla. Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di dominare l’utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa infine conseguire la propria validità.
Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza. Sarebbe quindi semplicistico porre un’affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo. Che cosa c’è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazione? O è un’alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole? È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere esercitata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un’apertura in maniera consona alla gravità della questione.
Se io credo che la Chiesa abbia le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina della Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell’autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una risonanza interiore della sua parola all’interno della coscienza, e ciò significa qualcosa di più di una semplice dichiarazione occasionale di massimo livello…
L. Perfori