lunedì 2 settembre 2013

L'Atlantide Rossa



Di seguito ampi stralci della prefazione di Lech Walesa e dell’introduzione dell’autore a “L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa” (Lindau, pagine 288, euro 19,00) di Luigi Geninazzi, giornalista che da inviato di “Avvenire” ha seguito da vicino lo sgretolamento dell’impero comunista negli anni ’80. Il volume, da oggi nelle librerie, rievoca tra l’altro gli incontri di Geninazzi con papa Wojtyla durante gli anni più bui della repressione di Jaruzelski in Polonia. Geninazzi ricorda che fin dal primo incontro, nel 1981, «con mio grande stupore il Papa si mostrò interessato a conoscere le mie impressioni». Senza per questo rinunciare a giudizi, anche secchi, sulla “sua” Europa orientale: «Di tutti i comunisti – confidò Wojtyla nel 1983 – quelli cecoslovacchi sono i peggiori».

C’era una volta l’Europa dell’Est, un mondo grigio di ristrettezze e re­strizioni che sopravviveva a fatica sotto il trionfalismo ingannevole delle ditta­ture rosse. Un mondo che nell’immaginario collettivo è scomparso in una notte con il crol­lo del Muro di Berlino il 9 novembre del 1989, in modo improvviso come la mitica Atlanti­de. L’opinione più diffusa è che la Cortina di ferro si sia afflosciata di colpo come fosse di cartapesta e che la caduta dei regimi totalita­ri nell’altra metà d’Europa sia giunta in mo­do del tutto imprevisto. Il comunismo sem­bra sia morto d’infarto e tutti, a cominciare dai parenti più stretti, hanno celebrato con esi­bito sollievo e qualche malcelata preoccupa­zione i suoi funerali.

Ma, a dire il vero, il Mu­ro non è crollato. L’espressione, anche se or­mai entrata nel lessico abituale, ha una forza evocativa che non corrisponde alla realtà. Il Muro non è crollato, è stato abbattuto. Non in una notte ma nel corso di lunghi anni. Non è caduto, l’ha buttato giù gente cocciuta e co­raggiosa che ha sfidato un potere illiberale e repressivo a mani nude [...]. L’Atlantide rossa, sparita e pressoché cancel­lata dalla nostra memoria, non era una lan­da desolata. Era un mondo segnato dalla pe­nuria materiale che sotto la cappa oppressi­va del potere nascondeva tesori di umanità autentica, maestri saggi dotati di grande fa­scino intellettuale e gente semplice istintiva­mente lontana dalle doppiezze del regime, credenti la cui fede cristiana alla fine è riusci­ta davvero a spostare le montagne e laici d’as­soluta integrità morale alla ricerca del bene e del vero. Per non parlare della capacità d’iro­nia di fronte alle avversità, anche quelle più dure e ingiuste provocate dai governanti [...].

Sono stati «dieci anni che hanno sconvolto il mondo», se mi è consentito parafrasare John Reed, l’inviato più famoso del XX secolo, cro­nista eccezionale della rivoluzione bolscevi­ca del 1917. Come allora sono ricomparsi pro­letari in azione e popoli in subbuglio. Ma a differenza dell’epopea descritta dal giorna­lista americano che fu amico di Lenin e Trot­sky, questa volta la classe operaia non è an­data all’assalto del Palazzo d’Inverno con le armi in pugno. Tutto all’opposto: non ha mosso un dito per attaccare, preferendo in­crociare le braccia in attesa che il sedicen­te “governo degli o­perai e dei contadini” scendesse a negozia­re con i diretti inte­ressati e riconosces­se i loro fondamenta­li diritti. Fu la prima breccia nel Muro che iniziò a sgretolarsi sul litorale baltico già nel 1980 con la nascita di Solidarnosc, il sinda­cato libero polacco.

Nella storia irrompe quel che potremmo chiamare “il fattore W”. Come Walesa, co­me Wojtyla, l’uno il fondatore, l’altro il di­fensore di un nuovo movimento operaio che ben presto sarebbe diventato un movimento di popolo la cui vo­glia di libertà finirà per contagiare le altre na­zioni dell’Europa sovietizzata. Stando li, sul terreno, si capiva subito che era in corso una rivoluzione, diversa però da tutte quelle che avevamo conosciuto. Chi manifestava con­tro il regime non si muoveva in forza di un’i­deologia, non il liberalismo e neppure il na­zionalismo, tanto meno il socialismo sia pu­re dal volto umano. Si trattava di un movi­mento di natura etica, per dirla con Jozef Ti­schner, considerato da tutti come il teorico di Solidarnosc [...].

Quella del 1989 è una rivoluzione pa­cifica dove, è stato detto, «non si è rot­to neanche un vetro», a eccezione della sanguinosa rivolta in Romania (che fu in realtà un colpo di Stato travestito da sommossa popolare). C’e chi, come lo stori­co François Furet, vi ha visto il compimento della Rivoluzione francese di due secoli pri­ma e chi, come lo storico e militante di Soli­darnosc Bronislaw Geremek, l’ha definita «l’e­satto contrario del 1789, una rivoluzione con­tro l’idea giacobina e i suoi metodi violenti sfociati nel Terrore». Lo studioso e giornalista inglese Timothy Garton Ash, profondo cono­scitore dell’Est Europa cui ha dedicato vari saggi, ha inventato il termine “refolution”, a in­dicare una miscela di rivoluzione e riformi­smo che ha caratterizzato i movimenti dell’89. Mentre lo storico Krzysztof Pomian nega decisamente che si possa parlare di ri­voluzione perché tutto è successo nel quadro di «una transizione negoziata» [...]. Ma pro­babilmente la definizione più azzeccata è quella del dissidente divenuto presidente del­la Cecoslovacchia Václav Havel che, da laico, non ha esitato a parlare di «miracolo» [...].

Ripensare al 1989 è tutt’altro che un esercizio rievocativo nella situazione attuale dove ogni giorno, a livello planetario, siamo confronta­ti a movimenti di protesta dal basso, espres­sione di una società civile che non si ricono­sce più nei partiti e nelle istituzioni tradizio­nali. Il riferimento è venuto spontaneo da­vanti alle “Primavere arabe” del 2011, un at­to liberatorio collettivo che ha spezzato le ca­tene della «mente prigioniera» (per dirla con le parole del grande scrittore polacco e pre­mio Nobel per la lettera­tura Czeslaw Milosz) provocando la caduta dei regimi autoritari in Tunisia e in Egitto. Pur­troppo, come ho potuto constatare di persona, i giovani di piazza Tahrir non hanno saputo pren­dere esempio da quan­to successo nell’Est Eu­ropa illudendosi che la rivoluzione, generata nello spazio virtuale del web, avesse trovato i suoi leader nei blogger e potesse sopravvivere grazie ai social network. Internet è un formidabi­le strumento di comunicazione ma non è suf­ficiente per creare un soggetto politico. «Ab­biamo innaffiato il deserto ma non siamo sta­ti capaci di far crescere la pianta», è la scon­solata ammissione che ho raccolto qualche mese più tardi da coloro che avevano contri­buito alla caduta di Mubarak senza però riu­scire a ottenere un governo liberal-democra­tico.


Eppure la leggenda postmoderna se­condo cui internet e sinonimo di de­mocrazia sembra resistere, anche in ca­sa nostra. Chi oggi vive di antipolitica fareb­be bene a leggere quel che ha scritto a questo proposito Václav Havel nel suo Il potere dei senza potere, uno dei testi che ha ispirato la Rivoluzione di velluto in Cecoslovacchia: «Il cambiamento delle strutture deve partire dal­l’uomo, dal suo rapporto con se stesso e con gli altri». Per l’intellettuale boemo l’unica grande risorsa contro il potere è un io che ha scelto di vivere nella verità. Non basta indi­gnarsi per quel che sta fuori, occorre guarda­re dentro di noi per scoprire «l’impensato del­la politica», come spiegava nel 2005 l’allora cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, par­lando di Solidarnosc, «un movimento che ha saputo far emergere la realtà dell’esperienza umana nella sua dimensione integrale, sem­pre ignorata dall’ideologia marxista». E con­tinuava: «Quel che mi lascia un gusto amaro in bocca è il fatto che, nell’era della globaliz­zazione, esiste lo stesso pericolo di miscono­scere il reale della condizione umana e della sua dignità a beneficio delle nuove ideologie dominanti».

La riscoperta della propria dignità è la condi­zione fondamentale per una rivoluzione non violenta. Non solo nelle azioni ma anche nel­le parole. L’estremismo verbale, l’insulto, l’at­tacco volgare, alla lunga generano odio e spi­rito di vendetta. «Noi non abbiamo bisogno di nemici per sentirci più grandi e più forti: il nostro movimento parla con tutti e non è con­tro nessuno», scriveva padre Tischner nella sua Etica della solidarietà, un vademecum in­dispensabile per chiunque voglia mettere in atto una rivoluzione non violenta. L’io co­sciente della propria forza morale non teme il dialogo. Chi ha a cuore la dignità e la verità è​ disposto a negoziare su tutto il resto, anche con il peggior nemico. Così nel 1989 si è mes­so fine al comunismo. Un metodo che può valere anche per le nostre imperfette demo­crazie.


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Lech Walesa: «Oggi serve
una nuova Solidarnosc»​
Ogni volta che mi viene rivolta la domanda su chi abbia fatto cadere il comunismo nell’Europa dell’Est sono solito rispondere che il merito va per oltre il 50% a Giovanni Paolo II, per il 30% a Solidarnosc e per il resto a Reagan, Kohl, Gorbaciov. Ma devo dire che il merito va anche a molti giornalisti, al loro grande lavoro d’informazione senza il quale noi non saremmo riusciti a vincere il monopolio della menzogna cui eravamo sottoposti.

La filosofia dei regimi comunisti era quella d’impedire di organizzarci, negando la nostra esistenza, continuando a umiliarci e a mentire. I giornalisti stranieri hanno fatto il contrario, presentando le cose come stavano, raccontando la verità dei fatti, mettendoci sotto una lente d’ingrandimento che esaltava la nostra forza e le nostre capacità. Fra costoro non posso dimenticare Luigi Geninazzi, reporter italiano che ha seguito il nostro movimento fin dall’inizio con grande attenzione e passione. La propaganda del regime è stata sconfitta dalla testimonianza diretta di chi si trovava sul posto e riferiva quel che vedeva coi propri occhi. In fondo era una cosa molto semplice, mentre il potere cercava di confondere le cose. Solidarnosc è nata da un’intuizione: se non puoi sollevare un peso da solo cerca qualcuno che ti aiuti. A quel tempo il comunismo era un peso troppo grande che nessuno riusciva a scrollarsi di dosso.

Negli anni ’50 qualcuno ci ha provato con le armi ma ha perso la vita per manifesta inferiorità. Negli anni ’60 e ’70 in Polonia abbiamo cercato di uscire nelle strade per far sentire la nostra protesta ma ci hanno zittiti con la forza. Abbiamo cercato varie soluzioni, abbiamo chiesto consiglio ai politici e agli intellettuali d’Occidente. Ma nessuno di loro credeva che sarebbe stato possibile il crollo dell’Impero sovietico. Poi è arrivato il nostro Papa, il Papa polacco, e abbiamo scoperto che c’è qualcosa di più forte dei carri armati e dei missili atomici. Giovanni Paolo II ha fatto appello alle risorse spirituali e alla fede del nostro popolo e ci ha invitato a non avere paura. Nel 1979 è tornato in Polonia e per la prima volta ci siamo ritrovati uniti, ci siamo accorti di quanto eravamo numerosi. Mi sono chiesto spesso come mai ogni volta che organizzavo uno sciopero nei cantieri navali di Danzica mi ritrovavo attorno non più di dieci persone e poi, all’improvviso, nel 1980 furono 10 milioni di persone. Io facevo sempre le stesse cose, gli stessi discorsi. Ma la gente era cambiata, era diventata più cosciente, più matura, più determinata. E i primi a meravigliarsi di questo cambiamento sono stati i comunisti: non sapevano più come reagire, a un certo punto si sono rassegnati a dialogare con noi e alla fine hanno dovuto cedere il potere.

La nostra lotta pacifica e dignitosa ha abbattuto dittature che sembravano invincibili, ha distrutto muri e barriere nel segno della libertà e della fratellanza fra i popoli. La rivoluzione di Solidarnosc in Polonia, seguita da quella dei movimenti d’opposizione negli altri Paesi dell’Est, ha chiuso un’epoca segnata dalla violenza, dall’odio e dalle divisioni. La mia generazione ha realizzato quel che a mio padre e ai miei antenati era del tutto inimmaginabile: un’Europa senza frontiere in un mondo sempre più globalizzato. Sulle rovine del comunismo è nato un capitalismo di tipo nuovo, totalizzante e aggressivo. C i sono domande che non hanno ancora trovato risposte: e possibile un’economia di libero mercato che non sia sinonimo di egoismo e ingiustizia sociale? Che senso dare alla parola democrazia in un mondo dove i singoli Stati perdono progressivamente competenze e sovranità? E soprattutto: su quali fondamenti costruire una nuova economia e una nuova democrazia? Chi, come me, è stato un attivista negli anni passati non ha soluzioni immediate da dare per il futuro. Ma ritengo che il principio della solidarietà che ci ha permesso di distruggere il vecchio mondo oppressivo e ingiusto del comunismo sia decisivo anche per costruire un nuovo mondo più libero e più giusto.

L’apertura sempre più grande e l’assenza delle frontiere esigono una “Solidarnosc globale” [...]. I problemi che abbiamo davanti non potranno venir affidati alla solita commissione di esperti ma dovranno coinvolgere l’opinione pubblica di tanti Paesi e avranno bisogno di idee forti e di principi morali. Solidarnosc ce lo ha insegnato.

Lech Walesa

Fonte: Avvenire