giovedì 3 ottobre 2013

La "longa manus" di Papa Francesco



A colloquio con l’arcivescovo Konrad Krajewski. L’elemosiniere di Papa Francesco

(Mario Ponzi) È stato esplicito, Papa Francesco, quando gli ha affidato il suo nuovo incarico: «Non sarai un vescovo da scrivania, né ti voglio vedere dietro di me durante le celebrazioni. Ti voglio sapere sempre tra la gente. Tu dovrai essere il prolungamento della mia mano per portare una carezza ai poveri, ai diseredati, agli ultimi. A Buenos Aires uscivo spesso la sera per andare a trovare i miei poveri. Ora non posso più: mi è difficile uscire dal Vaticano. Tu allora lo farai per me, sarai il prolungamento del mio cuore che li raggiunge e porta loro il sorriso e la misericordia del Padre celeste». E da quel giorno, da quando il Pontefice gli ha comunicato la decisione di nominarlo suo elemosiniere — decisione poi resa pubblica il 3 agosto scorso — padre Konrad Krajewski (“padre” è l’unico titolo con il quale gradisce essere chiamato) gira in lungo e in largo città e dintorni per portare la solidarietà del vescovo di Roma nei sobborghi più bui e disperati. Già ha incominciato a visitare gli ospiti di alcune case di riposo.
Sacerdote polacco, cinquant’anni il prossimo 25 novembre, ha preso talmente sul serio le parole di Papa Francesco che dietro quella scrivania negli uffici dell’Elemosineria Pontificia non riesce a stare neppure quando accetta di parlare di «quanto di più bello mi potesse capitare: aiutare Papa Francesco a raggiungere le periferie dell’umanità». E mentre lo dice i suoi occhi sono come attraversati da una luce. «Mi riempie di gioia — ci dice — sapere che quando ora abbraccio uno di questi nostri fratelli più sfortunati gli trasmetto tutto il calore, tutto l’amore e tutta la solidarietà del Papa. E lui, Papa Francesco, spesso me ne domanda conto. Vuole sapere».
Quel «quando ora abbraccio uno...» la dice lunga sui motivi della scelta di Papa Francesco: la confidenza di padre Konrad con gli ultimi è datata di qualche anno. «Da quattordici anni — racconta — vivo stabilmente a Roma, da quando cioè ho iniziato il mio servizio di cerimoniere nell’Ufficio delle Cerimonie Pontificie. Ero già stato qui per completare gli studi, prima al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo e successivamente all’Angelicum. Ma poi sono rientrato a Łódź, nella mia città natale, dove ho diretto il seminario. Giovanni Paolo II mi ha voluto qui a Roma. Era il 1998». E proprio lo stare vicino a Papa Wojtyła ha aperto ancora di più i suoi orizzonti spirituali. «Gli ho fatto spesso da cerimoniere — racconta — e posso dire che la sua santità si intuiva in ogni gesto verso il prossimo. Accanto a lui ho imparato a vedere realmente il Cristo avvicinarsi e toccare la gente. E chi intuiva questa presenza scoppiava in lacrime. È stato allora che ho capito l’importanza di portare Cristo in mezzo alla gente, se possibile in mezzo a chi soffre. Così ho iniziato a frequentare la Chiesa di Santo Spirito in Sassia dove confesso ogni giorno alle 15, cioè nell’ora di misericordia. Confessavo i malati e quanti cercavano un momento di riposo tra i banchi della chiesa. Lo faccio ancora. Ho fatto la conoscenza di quel sottobosco che gravita attorno ai sacri palazzi, la notte soprattutto. Un sottobosco popolato da gente disperata, senza fissa dimora, spesso bisognosa più che di cibo — Roma in questo senso è molto generosa — di calore umano, di qualcuno disposto ad ascoltarla, a farle sentire il calore di un abbraccio, di una carezza».
E così, con l’aiuto delle suore della Guardia Svizzera e quelle del magazzino privato, e insieme a un gruppo di giovani volontari tra le stesse guardie, padre Konrad organizza una sorta di mensa volante. «Raccoglievamo — racconta — ciò che restava dopo il pranzo e la cena delle guardie. Lo impacchettavamo in tante razioni singole e poi, dopo le 20.30, uscivamo dal Vaticano per portare il cibo ai poveri che popolano la notte in piazza San Pietro». Una quarantina di senza fissa dimora sistemati alla meglio sotto i porticati di via della Conciliazione. «Era un modo come un altro per avvicinarli, per stare un po’ con loro». Una pratica, assicura, che ancora oggi è rimasta in vita e che anzi allarga sempre più il suo raggio di azione.
Proprio da quei diseredati — dice con fierezza — «ho ricevuto il regalo più bello nel giorno della mia ordinazione episcopale. Ne ho invitati una ventina e loro mi hanno donato due giorni interi senza bere neppure mezzo bicchiere di vino. È stato molto difficile resistere alla tentazione dell’alcool. Lo hanno fatto con il cuore, ci sono riusciti. Sapevano che questo per me sarebbe stato il dono più bello. Hanno persino lavato i loro vestiti nelle fontane di Roma e il giorno successivo, nell’Aula Paolo VI, sono tornati e mi hanno portato un fascio di fiori: sinceramente non so dove li abbiano presi, ma è stato un modo per esprimere il loro affetto. E sono felice perché ora, quando vado a trovarli, porto con me il cuore del Papa proprio per loro».
Prima di arrivare in Italia monsignor Krajewski era stato per un anno anche cappellano in un istituto psichiatrico di Łódź. Gli è sembrato dunque naturale proseguire questa esperienza a Roma, presso il Policlinico Umberto I. Nel tempo libero si recava in diverse case di cura, soprattutto laddove erano ricoverati anziani, «molti dei quali — dice — abbandonati dai familiari». Continua a farlo anche ora, ma stavolta a nome di Papa Francesco. Il quale doveva essere a conoscenza di questa sua consuetudine se lo ha scelto per interpretare in modo nuovo, secondo quello che è il suo stile pastorale, la missione dell’elemosiniere di Sua Santità. E forse non a caso, durante il volo di ritorno da Rio de Janeiro, nel luglio scorso, rispondendo alla domanda di un giornalista il Pontefice ha raccontato che in Vaticano ci sono tanti cardinali, vescovi, monsignori e sacerdoti e anche laici, che di nascosto escono e vanno a portare da mangiare ai poveri o a trovare i malati. Sta di fatto che pochi giorni dopo è stata resa nota la nomina di padre Konrad a elemosiniere.
«Me lo ha ripetuto pubblicamente — dice padre Krajewski — durante l’udienza che ha concesso a me e ai miei familiari il giorno dopo l’ordinazione episcopale: fare l’elemosiniere significa soprattutto esercitare una carità che va oltre le mura. Mi ha chiesto espressamente di non restare dietro la scrivania a firmare pergamene, ma di andare incontro ai poveri, ai bisognosi, nel corpo e nello spirito».
Dunque non è più sufficiente il sussidio elargito a coloro che ne hanno bisogno. «Certo che no. Il Papa vuole che prenda direttamente contatto con loro, che li incontri nelle loro realtà esistenziali, nelle mense, nelle case di accoglienza, nelle case di riposo o negli ospedali. Le faccio un esempio. Se qualcuno chiede aiuto per pagare una bolletta, è bene che io vada, se possibile, a casa sua a portare materialmente l’aiuto, per fargli capire che il Papa, attraverso l’elemosiniere, gli è vicino; se qualcuno chiede aiuto perché è solo e abbandonato, devo correre da lui e abbracciarlo per fargli sentire il calore del Papa, dunque della Chiesa di Cristo. Vorrebbe farlo personalmente, come faceva a Buenos Aires ma non può. Per questo vuole che io lo faccia per lui».
E questo pur senza trascurare la normale attività caritativa, che si traduce in tanti piccoli gesti quotidiani consumati nel silenzio e nella più assoluta discrezione negli uffici dell’Elemosineria in Vaticano. «Piccoli gesti — dice — che però riguardano oltre 6.500 persone all’anno. Indice di una povertà tante volte vissuta nel riserbo e nell’anonimato, che purtroppo in questi ultimi tempi ha cominciato ad affliggere anche zone e categorie di persone che fino a ieri godevano di un certo benessere». Le lettere di richiesta di aiuto che giungono da tutta Roma, ma anche da altre parti d’Italia, «rappresentano un quadro doloroso di crescenti miserie — dice — che riguardano la persona nella sua totalità e non solo sotto il profilo strettamente economico. Anzi direi che quello economico è un semplice aspetto di questo quadro. Situazioni precarie si trasformano in un batter d’occhio in situazioni disperate. Come disperate sono le condizioni degli immigrati e dei rifugiati che si rivolgono all’Elemosineria. Per non parlare poi dei malati gravi che non trovano accesso alle cure mediche né ai farmaci. Per loro abbiamo predisposto un servizio assicurato dai nostri medici volontari e cerchiamo di venire incontro a tutti».
Ma come fare fronte a tante richieste, per di più in continuo aumento? «Il Papa ci aiuta. Alcuni enti e associazioni caritative mettono a disposizione somme di denaro oltre che le loro stesse strutture di accoglienza. Lo scorso anno siamo riusciti a distribuire a nome del Papa oltre 900.000 euro».
Una fonte molto importante per il sostegno di questa attività caritativa resta la distribuzione delle pergamene con la benedizione apostolica. «È una facoltà — ci spiega l’arcivescovo — che è stata delegata all’Elemosineria da Papa Leone XIII. Vengono distribuite direttamente dall’ufficio, oltreché da una settantina di enti privati che hanno sottoscritto una convenzione per la concessione del rescritto di benedizione. Per avere un’idea pensi che in questi primi otto mesi dell’anno sono state già distribuite direttamente dal nostro ufficio 125.000 pergamene, cioè lo stesso numero di tutto il 2012. Mentre i rescritti presentati alla firma dell’Elemosiniere da enti esterni sono stati 100.000». Dove finiscono questi soldi? «Sino all’ultimo centesimo vanno ad alimentare il fondo per la carità gestito direttamente dall’Elemosineria. Senza questi soldi sarebbe difficile soddisfare tanti bisogni». Ai quali si aggiungono anche le urgenze manifestate al dispensario pediatrico affidato alle cure delle Figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli dove, senza l’aiuto dell’Elemosineria, sarebbero vani gli sforzi dei cinquanta volontari, tra medici e altri operatori, che offrono la loro assistenza a chi non gode di alcuna protezione sanitaria.
Un campo di lavoro immenso, dunque, quello che si è aperto davanti. «Non è il mio campo di lavoro— dice prontamente padre Krajewski — ma è il campo di lavoro del Papa. Io lo aiuto soltanto. E quando vado a trovare i malati negli ospedali, li abbraccio e li bacio, ma dico loro che è l’abbraccio e il bacio del Papa. Resto con loro anche tutto il giorno e quando li lascio metto nelle loro mani una coroncina del rosario benedetta da lui. A ognuno chiedo di pregare almeno una volta al giorno per Papa Francesco. Le loro preghiere sono la sua forza».
Preghiere che chiederà anche venerdì prossimo, quando si troverà tra i poveri di Assisi, la città del santo poverello . «E sarà una giornata importante. A Rio, durante la veglia, il Pontefice parlò della ricostruzione della Chiesa, cioè di noi stessi. Ad Assisi, dove san Francesco ha iniziato il suo itinerario di conversione, deve partire anche il nostro. Ripartiamo allora da Gesù, il quale ha detto che “chi tocca un povero, tocca me”, cioè dai poveri, per avviare la Chiesa sulla strada del rinnovamento. E l’elemosiniere deve mettersi in cammino con lui».
L'Osservatore Romano