mercoledì 23 ottobre 2013

Memoria e identità nella visione cristiana della storia.



Non facciamoci divorare da Krònos

(Gerhard Ludwig Muller) Per il pensiero greco Krònos (il “Tempo”) è un mostro che divora i propri figli, perciò il tempo non è salvifico, e non ha altro significato che portare alla morte, all’eterno ritorno. Per la fede biblica, invece, il tempo (kairòs) è il luogo della rivelazione di Dio, della salvezza; Cristo è in effetti la pienezza del tempo. Per il cristiano la storia non è quindi accidentale ma, al contrario, possiamo dire che l’auto-comunicazione escatologica di Dio è interna allo sviluppo storico del corpo di Cristo. La storia per il cristiano è perciò una chance, quella di sviluppare i talenti ricevuti, di partecipare alle sofferenze di Cristo, mediante le persecuzioni, che sono non soltanto quelle della violenza subita dai cristiani, ma anche gli attacchi alla fede stessa. 
«Dio — ha detto recentemente Papa Francesco — si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo». Egli «è presente nei processi della storia». Questo rapporto di Dio con la storia non è determinato da un distanziarsi negativamente da essa; al contrario, egli vi interviene mediante la sua libertà, in quanto si cala direttamente nel mezzo della storia, in un soggetto della storia, nella storia della libertà dell’uomo Gesù di Nazaret. «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza — insegna il Vaticano II — rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Efesini, 1, 9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Efesini, 2, 18; 2 Pietro, 1, 4)». La venuta effettiva di Dio nella storia della libertà umana ha il suo apice lì, ove il Verbo stesso è divenuto carne, storia, libertà umana (cfr. Giovanni, 1, 14). 
La rivelazione non giace però come un masso erratico in seno alla storia. Essa è definitivamente afferrabile nella figura storica di Gesù, ma è anche presente nel rapporto vivo con lui quale Signore glorificato. La Chiesa rimane sempre in dialogo con il Cristo presente. Egli la guida lungo la via della continua trasposizione dell’auto-comunicazione di Dio nella soggettività della fede. 
Il Vaticano II riconosce il centro e il fondamento cristologico della rivelazione conclusa in Cristo e ormai aperta a una più profonda comprensione e assimilazione personale, quando insegna che «Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Giovanni, 3, 34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Giovanni, 5, 36; 17, 4). Perciò egli (...) col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua Risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina» (Dei verbum, 4).
Poiché l’azione di Dio nel mondo è sempre data attraverso la mediazione del decorso degli eventi creaturali, anche la vicinanza immediata alla parola di Dio nella fede è attingibile solo attraverso il mezzo della testimonianza e della confessione umana. Un incontro con Dio è possibile solo attraverso la mediazione di eventi storici e della loro rappresentazione nella parola umana. «La trasmissione della fede — ha scritto Papa Francesco nella sua prima enciclica — (...) passa anche attraverso l’asse del tempo, di generazione in generazione. Poiché la fede nasce da un incontro che accade nella storia e illumina il nostro cammino nel tempo, essa si deve trasmettere lungo i secoli. È attraverso una catena ininterrotta di testimonianze che arriva a noi il volto di Gesù» (n. 38).
La Chiesa post-apostolica è perciò collegata alla rivelazione attraverso la testimonianza e la confessione della Chiesa apostolica. Ciò è necessario perché la rivelazione non è l’annuncio di una verità sovrastorica, bensì la sua verità è stata manifestata nel tempo storico. Il Signore Gesù incontra i credenti nella Chiesa mediante la parola e l’agire della stessa Chiesa, e questa trasmissione della rivelazione salvifica costituisce la vera tradizione apostolica, che non può essere ridotta a singoli elementi della dottrina e della prassi. Questa paradossi apostolica rappresenta la stessa rivelazione nella sua manifestazione storica e nell’auto-mediazione da essa derivante nel tramite della vita ecclesiale. Dal principio della tradizione scaturisce quindi il compito di testimoniare il fatto e il contenuto della storia della rivelazione giunta a compimento in Gesù Cristo, di conservarne i contenuti essenziali, di interpretarla e di farla conoscere a nuovi contesti storici. 
Mediante la tradizione ogni uomo entra in comunicazione con gli uomini attualmente viventi e con gli uomini del passato, e sempre grazie alla tradizione pure gli uomini del futuro parteciperanno alle esperienze e alle cognizioni del presente e del passato. Gli strumenti della tradizione sono il linguaggio, la scrittura, altri documenti e oggettivazioni dello spirito umano e delle azioni libere umane. Solo grazie alla tradizione l’umanità si costituisce anche come soggetto unitario della storia e, quindi, come destinatario dell’auto-comunicazione di Dio nella storia. La tradizione non aggiunge qualcosa alle verità contenute nella Scrittura, ma costituisce la trasmissione ecclesiale-sacramentale della rivelazione, che nel modo della sua presenza storica ed ecclesiale è lei stessa il principio della sua attualizzazione ed esplicitazione nella coscienza della Chiesa. 
Anche la compressione e l’intelligenza della rivelazione si accresce nella storia. La memoria è imprescindibile per creare l’identità della persona, e altrettanto della società umana. Senza memoria, non può esserci una permanenza dell’identità. Il popolo dell’alleanza dell’Antico e del Nuovo Testamento trova la propria identità nella risposta della fede all’unica parola pronunciata da Dio nella storia. Questa parola non è altra che il Verbo incarnato. E questa identità del popolo è condizione di possibilità dell’identità del cristiano. «L’appartenenza a un popolo — ha dichiarato Papa Francesco — ha un forte valore teologico: Dio nella storia della salvezza ha salvato un popolo. Non c’è identità piena senza appartenenza a un popolo. Nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae considerando la complessa trama di relazioni interpersonali che si realizzano nella comunità umana».
La memoria è anche necessaria per conservare e far crescere l’identità della comunità cristiana. Nella Chiesa c’è questa permanenza perché c’è una memoria viva. Senza memoria, la Chiesa perderebbe il fondamento della propria identità, che è un corpo vivo che attualizza e porta al mondo la salvezza del Cristo. «La Chiesa, come ogni famiglia, — leggiamo nell’enciclica Lumen fidei — trasmette ai suoi figli il contenuto della sua memoria» (n. 40).
«La fede — continua il Papa — ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, e che questo sia corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica». Per trasmettere la pienezza «la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, (...) esiste un mezzo speciale, che mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo sono i sacramenti, celebrati nella liturgia della Chiesa. In essi si comunica una memoria incarnata, legata ai luoghi e ai tempi della vita, associata a tutti i sensi; in essi la persona è coinvolta, in quanto membro di un soggetto vivo, in un tessuto di relazioni comunitarie. Per questo, se è vero che i sacramenti sono i sacramenti della fede, si deve anche dire che la fede ha una struttura sacramentale» (ibidem).
Per il cristiano la memoria della fede è pertanto anzitutto l’anamnesi della salvezza compiuta in Cristo, e realizzata nei sacramenti, eminentemente nell’eucaristia, che è ziccaron (“memoriale”) della sua morte e risurrezione. Questi sono fatti storici, che possiamo situare in un luogo e in un tempo, ma che sono presenti ed efficaci oggi, perché la storia è il luogo dell’incarnazione. La presenza di Cristo salvatore nella storia è una presenza permanente, perciò, nell’eucaristia c’è la presenza reale di Cristo oggi in mezzo a noi, alla nostra storia. 
Lo scopo del presente convegno è quello di riflettere sulla memoria della fede della Chiesa, trasmessa attraverso i documenti e i monumenti del passato, conservati negli archivi ecclesiastici, i quali devono diventare opportunità e ispirazione per una nuova evangelizzazione. In effetti, la fruizione degli archivi ecclesiastici permette di attingere alla molteplicità e alla ricchezza delle esperienze del passato, quali fonti ispiratrici per un nuovo slancio nell’annuncio evangelico. Il convegno prende anche occasione dal quindicesimo anniversario dell’apertura alla consultazione degli studiosi degli archivi storici della Congregazione per la dottrina della fede, avvenuta nel gennaio 1998, per iniziativa e sotto l’impulso del mio predecessore come prefetto del dicastero, il Pontefice emerito Benedetto XVI. 
In questi quindici anni, non soltanto si è riusciti a rendere fruibile un rilevante patrimonio culturale e storico, ma si è anche istaurata una collaborazione con altre realtà archivistiche, di carattere prevalentemente ecclesiastico, a Roma, in Italia e in altri Paesi, stimolando la condivisione di problemi, soluzioni, risorse. Il convegno si prefigge pertanto il compito di essere un momento di riflessione sulla funzione pastorale degli archivi ecclesiastici e allo stesso tempo servire da sprone per una apertura e condivisione con la comunità cristiana e con il mondo di un così importante patrimonio di cultura e di testimonianza della fede. Il cardinale Ratzinger, nel chiudere i lavori della giornata di studio che quindici anni fa sancì l’apertura ufficiale degli archivi storici della Congregazione per la dottrina della fede, sottolineava «la fiducia che essa ripone nei confronti di ogni indagine critica e seria, che metta in luce la verità sull’uomo e sulla storia». Da parte mia, facendomi eco delle parole di un presule mio connazionale e amico, il cardinale di Monaco Reinhard Marx, il quale ha recentemente dichiarato che «niente di ciò che gli archivi ecclesiastici possono portare alla luce può danneggiare la Chiesa più di quanto non la danneggi il sospetto che si vuole tacere o nascondere qualcosa», voglio manifestare la convinzione che la conoscenza delle tracce lasciate dalla fede nella storia della Chiesa, di cui gli archivi ecclesiastici sono eloquente testimonianza, aiuterà essa ad «avvicinarsi agli uomini e alle donne del suo tempo e offrire l’acqua viva del messaggio cristiano».
L'Osservatore Romano