domenica 26 gennaio 2014

Auschwitz e il valore del ricordo oggi.



Nel Giorno della Memoria: 27 gennaio.Vigile attenzione

(Cristiana Dobner) Le scelte con cui una persona deve confrontarsi nel corso della propria esistenza sono molteplici e di diverso peso, anche se tutte contribuiscono a creare la struttura della vita. Tutti però conosciamo, direttamente, il peso delle rimozioni, del voler vivere come struzzi con il capo sotto la sabbia quando intorno infuria la tempesta.
Per molti è stato così, nell’intento di salvare la propria vita, perdendo però quella altrui, durante il fosco periodo nazista. Carlo Maria Martini lo sintetizza in poche frasi. «La Shoah, concepita dai capi della Germania nazista come annientamento sistematico e totale degli ebrei, fu attuata in Europa tra il 1939 e il 1945: questo crimine orrendo fu perpetrato tra le Nazioni che si ritenevano le più civili dell’umanità, per storia, cultura, tradizioni religiose, progresso scientifico. Nonostante i tentativi ricorrenti di deprecabili revisionismi, oggi ci sembra ovvio indicare tra i luoghi del genocidio quello che pare riassumere tutti gli aspetti di male e di negatività: Auschwitz».
Si potrebbe obiettare che, per tutti i nati nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, si tratta di una realtà indubbiamente avvenuta ma da relegarsi nel libro di storia o in un qualche museo. Lo struzzo in questo caso sarebbe imbalsamato. La rimozione è sempre implacabile e si palesa con vesti non proprie, tale da rendere impossibile una diagnosi precisa: così avviene con l’antisemitismo, sia esso serpeggiante o dimostrato sfacciatamente. 
Riconsiderare il secolo buio, oscuro, può essere salutare quando non diventa solo una visita cimiteriale, per quanto pia e concentrata. L’autentica memoria non si nutre di rimembranze o almeno non solo di queste. È una molla che, poggiando sulla realtà storica che sconcerta e offende qualsiasi persona che abbia conservato dignità, sospinge simultaneamente in avanti, sia nel presente, sia nel futuro.
La distruzione di ogni sentire che fece posto a un’animalità scatenata, sorretta da un’ideologia perversa, se visitata non produce cambiamento di mentalità, non mette in atto pensieri e azioni diversi. Le macerie restano sempre macerie e per poter costruire o ricostruire bisogna ripulire, cercare materiale nuovo. Allora la memoria non rimane un dato scontato ma una tessera viva e vivente, che sempre più si avvicina alla memoria biblica, allo zikkaron della rivelazione dell’Altissimo a Israele e donata a tutti i popoli.
I monumenti nella loro staticità fissano nello spazio e nel tempo un evento che non si vuole lasciar cadere nell’oblio ma riportare sempre sotto lo sguardo. Con la loro forza espressiva dovrebbero magnetizzare, costringere a pensare.
È fuor di dubbio che Auschwitz è una sorta di monumento, una sorta di museo, nel senso che raccoglie e testimonia l’efferatezza nazista e il dolore patito da Israele e da chi con Israele condivise il destino di non essere nazista o di essersi opposto al regime dominante. Se fosse solo così, sarebbe ancora troppo poco. Le ceneri sarebbero inerti, come quelle di un fuoco spento e inutilizzato. Ceneri morte, inutili. Proprio questo è il lato di una memoria passiva, in sé sterile, puro ricordo di tempi passati.
Auschwitz è ben di più, è memoria attiva, zikkaron, fertile, è cenere calda che trasmette vita. Non nel paradosso poetico che da morte dona vita, ma nella concezione biblica che conosce per esperienza che il Creatore vigila come sentinella e non dimentica il suo popolo. La sua è una memoria sempre attuale.
L’obiezione che prende forma nell’interrogativo: «Dov’era questo Creatore quando Israele subiva lo sterminio nazista?», nella sua angoscia risulta monca. Perché carente di una seconda parte: «Dov’era la persona singola, l’umanità intera» quando Israele subiva lo sterminio nazista? Espresso ancora più direttamente: Io, dov’ero, quando Israele subiva lo sterminio nazista?
Io non c’ero è risposta fasulla, metallo che suona falso. Perché il mio legame con tutta la storia mi interpella e mi pone su di un terreno che richiede risposta. Io, oggi, dove sono? Da che parte sto?
Abito Auschwitz e mi proietto sulla storia oppure lo lascio al suo passato e così dono fertilizzante ai pregiudizi che hanno lastricato la strada che conduce ad Auschwitz? Ecco allora la necessità della memoria viva, palpitante. Uno zikkaron che attivi richiami e generi sempre rapporti chiari, liberi, di autentico apprezzamento. Non solo tristezze per sciagure passate che, fortunatamente, non mi toccano. Non solo deprecazioni per le viltà, per gli abomini. Tutti questi moti dell’animo rimandano ancora solo al passato, senza cucire e intessere nel presente.
Israele, e tutta la sua tradizione, non può essere considerato una commemorazione ma una promessa di redenzione e, come tale Israele non solo è stato vivo ma è vivente, perciò si deve rimanere in ascolto di Israele: ‘am Israel haj, il popolo di Israele è vivo.
Solo allora Auschwitz, come simbolo di un’immane sofferenza che trapassa gli anni e gli animi, non è relegato alla stregua di un’antica battaglia o al prodotto di uno dei tanti regimi infestanti la nostra civiltà. Non si smetterà mai di far conoscere, di far percepire l’abisso di nefandezza che può produrre una nazione dominata da un’ideologia e le cicatrici che, una volta inferte, difficilmente sono guaribili, se non subentra una positività, uno sguardo nuovo.
Da Auschwitz, sul filo di una memoria nutrita di zikkaron, è possibile raccogliere l’invito di Carlo Maria Martini: «Bisogna amare la cultura ebraica di oggi, la loro musica, la loro letteratura, la loro storia, il loro modo di pregare, il loro modo di fare festa. Solo un amore così permette il superamento dei timori e delle difficoltà e dà al dialogo quella gioia e quella umanità che si addice all’incontro tra amici».
L’unico modo per non consegnare Auschwitz alla voluta dimenticanza ma per renderlo tensione di autentica memoria, viene sottolineato da Papa Francesco: «Mantenere sempre vigile la nostra attenzione affinché non riprendano vita, sotto nessun pretesto, forme di intolleranza e di antisemitismo».
L'Osservatore Romano

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Nel Giorno della Memoria, 27 gennaio. Le testimonianze di chi è tornato dai campi di sterminio nazisti

Foa risponde a Loewenthal. Ha ancora senso la giornata della memoria? «Dietro il titolo volutamente dissacrante dell’ultimo libro di Elena Loewenthal (Contro il giorno della memoria), troviamo un testo appassionato e fitto di domande, polemico e diretto», scrive Anna Foa su «Avvenire» del 24 gennaio e sul numero di febbraio di «Pagine Ebraiche». «Un vero e proprio atto d’accusa contro il modo in cui la memoria della Shoah viene celebrata nel Giorno della Memoria». Pur condividendo alcune posizioni di Loewenthal, la storica ebrea si chiede se «non varrebbe la pena, invece di tirarcene fuori in nome di quello che dovrebbe essere, di riconoscere ciò che è: che il peso simbolico della Shoah è ormai ricaduto sugli ebrei che già ne sono state vittime, imponendo loro, come a tutti i simboli, un compito. Che è anche quello di aiutare i non ebrei a fare propria l’opera della memoria, di indirizzarli verso un buon uso di questa memoria, di lavorare affinché essa diventi un imperativo etico aperto al mondo e non chiuso al solo passato degli ebrei. Insomma, ci dice forse questo libro, possiamo benissimo essere contrari alla giornata della memoria, ma non alla memoria. E questo vale tanto per gli ebrei che per i non ebrei. Perché — conclude Anna Foa — i loro due mondi non sono, io credo, poi tanto distinti».
Aggrappati alla fantasia (Gaetano Vallini)
Testimonianze, biografie, saggi: è come sempre vasta la pubblicistica in occasione della giornata della memoria delle vittime della Shoah. Una produzione che alimenta il ricordo della tragedia di un intero popolo ma anche del baratro di orrore in cui venne precipitata l’Europa dalla barbarie del nazifascismo. E niente è più efficace dei ricordi di chi allora era bambino per raccontare ciò che per gli adulti era indicibile, e che è rimasto tale per decenni, tanto appariva inverosimile all’ascoltatore.
Helga ha la stessa età di Anna. Entrambe sono ebree e vivono nell’Europa occupata dalle truppe del del Terzo Reich: l’una vive a Praga, l’altra in Olanda. Così un parallelo tra Il diario di Anna Frank — richiamato da Mirjam Pressler in Io voglio vivere. La vera storia di Anne Frank (Casale Monferrato, Sonda, 2013, pagine 148, euro 14) — e Il diario di Helga (Torino, Einaudi, 2014, pagine 211, euro 19) appare inevitabile. Anna non sopravvisse, Helga sì. Si salvò dall’internamento nel ghetto di Terezin e poi dall’orrore di Auschwitz, tenacemente aggrappata alla propria fantasia, al potere salvifico che talora può celarsi nella parola e nelle immagini. Da adulta è diventata pittrice. Non ha mai dimenticato. E come avrebbe potuto?
Come Boris Cyrulnik che, tuttavia, in un campo di concentramento non c’è mai stato. Ma porta ugualmente nel cuore i segni della dolorosa esperienza che ha segnato l’intera sua esistenza. Da bambino, rimasto senza genitori perché arrestati, è scampato in modo miracoloso e rocambolesco alla deportazione. Affermato psichiatra, oggi racconta ne La vita dopo Auschwitz. Come sono sopravvissuto alla scomparsa dei miei genitori dopo la Shoah (Milano, Mondadori, 2014, pagine 205, euro 18) la sua infanzia da orfano in fuga, in una Francia dilaniata dalla terribile divisione tra collaborazionisti e resistenti.
E sono ancora i ricordi di un ragazzino al centro del libro di Leon Leyson, Il bambino di Schindler (Milano, Mondadori, 2014, pagine 189, euro 14). Scomparso lo scorso febbraio, l’autore era il più piccolo tra i salvati grazie alla famosa lista. A soli tredici anni, Leon riuscì infatti a farsi assumere nella fabbrica di Oskar Schindler e scampare così, con coraggio e un po’ di fortuna, ai treni della morte.
Anche Michael Emge — bambino prodigio costretto ad abbandonare il suo violino nel campo di concentramento nel quale era stato deportato con la famiglia — si salvò perché era in quella lista. La sua storia, riemersa oggi per merito di Judith, una ragazzina tedesca di undici anni, è raccontata da Angela Krumpen ne Il violinista di Schindler (Milano, Paoline, 2013, pagine 190, euro 9,90). Judith, grazie alla sua passione per il violino e all’amicizia con Emge, comincia a esplorare questo capitolo oscuro della storia tedesca. Insieme all’ex musicista, si reca ad Auschwitz. Qui l’anziano viene sopraffatto dai ricordi.
Le memorie di Alina Margolis-Edelman, raccolte in Una giovinezza nel ghetto di Varsavia (Firenze, Giuntina, 2014, pagine 224, euro 14), ci portano da Łódź, sua città natale, a Varsavia dentro e fuori le mura del ghetto, parlandoci del tragico eroismo quotidiano di uomini e donne destinati alla più crudele delle morti e che lei, con il suo racconto, contribuisce a salvare dall’oblio.
In Rumkowski e gli orfani di Lodz (Venezia, Marsilio, 2014, pagine 128, euro 14) Lucille Eichengreen ripercorre le vicende dell’ex direttore dell’orfanotrofio cittadino, nominato poi “ebreo anziano” del ghetto dai nazisti. Per alcuni fu un eroe capace di guidare con determinazione la sua comunità nel momento più buio. Ma questo libro mostra come nella cruda realtà quotidiana Chaim Rumkowki sia stato tutt’altro che un eroe. Eichengreen racconta infatti i crimini commessi da un ebreo verso altri ebrei, la propria umiliazione e gli orrori dei quali fu vittima, svelando come Rumkowski tradì il proprio ruolo di “anziano” di Łódź collaborando con il nemico, con la corruzione e con l’abuso dei bambini.
In Ballando ad Auschwitz (Milano, Bompiani, 2014, pagine 320, euro 18) Paul Glaser racconta invece la cronaca di una indagine e di una scoperta che cambiano la sua vita, ma traccia anche il ritratto di una donna straordinaria. Cresciuto in una famiglia cattolica nei Paesi Bassi, Paul Glaser, già adulto, scopre di avere in realtà origini ebraiche. Profondamente turbato, cerca di comprendere cosa è successo alla sua famiglia durante la seconda guerra mondiale, il perché di un silenzio così lungo sulla sua identità. S’imbatte così nella figura della zia Rosie, sorella del padre. Ebrea non praticante, Rosie è una donna esuberante, astuta, innamorata del ballo, che non si intimorisce neppure quando i nazisti prendono il potere; anzi apre una scuola di danza, ovviamente illegale. Tradita, finisce ad Auschwitz, ma è determinata a sopravvivere utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione, anche la sua passione per il ballo, e una capacità seduttiva pur messa a dura prova dagli stenti. Ci riuscirà: sarà una delle otto persone, delle milleduecento arrivate con lei ad Auschwitz, a sopravvivere.
Berlinese di nascita, anch’essa deportata ad Auschwitz, poi ebrea errante tra Palestina, Stati Uniti e Italia, Carola Cohn, con l’autobiografia Le mie nove vite (Roma, Castelvecchi, 2014, pagine 336, euro 18,50), ci offre il racconto affascinante e drammatico di un’esperienza individuale e culturale che attraversa l’Europa e l’America dagli anni Trenta del Novecento a oggi. Il mondo ebraico e le diverse forme di antisemitismo diventano occasioni per fare i conti con il passato familiare e sottolineare, allo stesso tempo, il pericoloso permanere di atteggiamenti, comportamenti e linguaggi che furono i prodromi della catastrofe.
Agli anni che precedettero tale catastrofe, e a una singolare circostanza, è invece dedicato il libro di Edgar Feuchtwanger Hitler, il mio vicino. Ricordi di un’infanzia ebrea (Milano, Rizzoli, 2014, pagine 259, euro 17). Nel 1929, Edgar è un bambino che vive in Grillparzer Strasse, a Monaco: la madre è pianista, il padre editore, e la sua casa è abitualmente frequentata da Thomas Mann, Carl Schmitt, Richard Strauss. Dall’altro lato della strada vive un uomo il cui volto comincia a fare la sua comparsa sui giornali. Senza troppa attenzione, il bambino lo osserva salire e scendere da una grande auto nera. Fino al 1933, quando quel vicino, nominato cancelliere del Reich, trasformerà in un incubo la vita degli ebrei tedeschi, come i Feuchtwanger, che però fortunatamente nel 1939 riuscirono a fuggire a Londra.
Il popolo che disse no di Bo Lidegaard (Milano, Garzanti, 2014, pagine 341, euro 28) è invece dedicato alla Danimarca, che durante l’occupazione nazista riuscì a fare ciò che altri Paesi occidentali neppure abbozzarono. Venuti a conoscenza dei piani di un imminente rastrellamento dell’intera comunità ebraica, i danesi si opposero eroicamente e per quattordici giorni — dal 26 settembre al 9 ottobre 1943 — assistettero e nascosero i loro compatrioti ebrei aiutandoli a fuggire in Svezia con ogni tipo di imbarcazione. Così, seimilacinquecento ebrei su settemila riuscirono a salvarsi dai campi di concentramento e quindi dalla morte. Il libro ricostruisce la storia di queste due settimane e di un esodo straordinario.
Valentina Pisanty nel volume L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo (Milano, Bompiani, 1998) affronta un tema che purtroppo periodicamente si ripresenta alle cronache. Sembra un fatto ormai inconfutabile, eppure, nonostante testimonianze e prove, qualcuno ha sostenuto e ancora sostiene che gli ebrei uccisi nei lager nazisti non furono sei milioni ma molti meno. Altri ancora ritengono che le camere a gas siano solo un dettaglio della storia e che quindi non bisognerebbe occuparsene più di tanto. C’è addirittura chi afferma che la Shoah sia un’invenzione della propaganda alleata, sostenuta dall’internazionale ebraica, e che «ad Auschwitz sono state gassate solo le pulci». Di fronte ai negazionisti si può scegliere di relegarli, senza analizzarli, nella categoria delle aberrazioni della psiche umana; oppure, come fa l’autrice, ci si può soffermare sulle strategie argomentative da essi adottate a sostegno delle loro tesi, per smascherarle.
Da segnalare, infine, il provocatorio saggio di Elena Loewenthal Contro il giorno della memoria (Torino, Add, 2014, pagine 93, euro 10) nel quale l’autrice s’interroga su cosa stia diventando il 27 gennaio. Loewenthal parla di cerimonia stanca, contenitore vuoto, momento di finta riflessione che parte da premesse sbagliate per approdare a uno sterile rituale in cui le vittime della Shoah finiscono per essere esibite con un intento apparentemente di commiserazione, in una sorta di risarcimento che però si mostra del tutto inadeguato. Per contro, l’autrice sostiene che la memoria brandita in questa data non appartiene solo agli ebrei, ma all’Europa intera, e da questa dovrebbe venire elaborata e fatta propria, oltre la retorica e l’errore di chi per un giorno soltanto prova ad alleviare il peso che grava sulla coscienza civile, per alleggerirne l’insopportabile senso di colpa.
L'Osservatore Romano

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“il Fatto quotidiano” - Rassegna "Fine settimana" 
(Intervista a Primo Levi a cura di Enzo Biagi - in onda su RaiUno l'8 giugno 1982) Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali? Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo. (...)