lunedì 17 febbraio 2014

Bellezza misteriosa.



Nella notte fra il 17 e il 18 febbraio 1564 moriva a Roma Michelangelo. Come lo ricordava Paolo VI

Per la terza volta, durante il nostro Pontificato, Voi siete stati convocati, e quest’oggi per un avvenimento che riteniamo quanto mai ricco di significato. Il primo incontro nella Cappella Sistina volle esprimere la volontà di un dialogo, o meglio la ripresa di una conversazione per il cammino dell’amicizia e di una rinnovata comunione di sentimenti e di pensieri. Nel secondo incontro i protagonisti principali siete stati Voi, Artisti e Cultori dell’arte, con opere di pittura e di scultura destinate alla Collezione d’Arte religiosa contemporanea dei Musei Vaticani, testimonianza di sincera adesione alle nostre attese e alle nostre speranze. 
Oggi ci ritroviamo insieme nella atmosfera grave e solenne di una celebrazione liturgica che ha lo scopo di dare degna commemorazione al quinto Centenario della nascita di Michelangelo.
Il sacro rito si svolge sotto le volte gigantesche e maestose della Cupola michelangiolesca. Nessun luogo era più adatto, a noi pare, per cogliere il valore e il significato di questa celebrazione. Tutto parla di Michelangelo qui, dove la mole stessa dell’edificio poderoso ed elegante, maestoso e religioso, già mette i nostri spiriti in esaltante contatto, in umile confronto, in riconoscente venerazione con l’incomparabile artista. Qui l’anima percepisce più che mai lo stimolo a salire verso l’alto, per qualcosa che trascende l’uomo stesso e la sua storia, in intimo e beatificante colloquio con Dio, sospinta dal medesimo desiderio di Michelangelo, che anelava ad uscire dall’«orribil procella in dolce calma».
È pertanto con grande rispetto che in questa solenne circostanza noi ci avviciniamo a questa gigantesca figura del genio umano; col rispetto cioè che è dovuto a così eccelso rappresentante del mondo dell’arte, in ciò che questa ha di più elevato nella sua potenza espressiva, nella sua capacità di essere tramite di realtà invisibili, nella superiore grandezza della sua missione, come già in tanti altri messaggi della sua vocazione, divinatrice dell’arcana bellezza, ch’è nelle scoperte proporzioni delle cose e delle loro innate misure, e specialmente nelle forme dell’uomo, creato ad immagine stessa di Dio (cfr. Genesi, 1, 27). «La funzione di ogni arte — diceva il nostro Predecessore Pio XII di venerata memoria — sta nell’infrangere il recinto angusto e angoscioso del finito, in cui l’uomo è immerso, finché vive quaggiù, e nell’aprire come una finestra al suo spirito anelante verso l’infinito» (Discorso dell’8 aprile 1952).
In questo sta la nota inconfondibile del genio artistico di Michelangelo e l’attualità del suo messaggio. Maestro per ogni generazione di un’arte che, conquisa dei valori umanistici, fino a compiacersi delle forme di pagane espressioni, trae tuttavia la sua più alta e genuina ispirazione dai valori religiosi, Michelangelo non solo con essa intese liberare l’immagine dalla materia, la figura dalla pietra, l’idea dal disegno, ma si sforzò altresì, attraverso ammirabili forme sensibili, di rivelarci gli aspetti più veri della dignità dell’uomo, della sacralità della vita, della bellezza misteriosa e perfino terribile della concezione cristiana.
Volentieri ognuno si sofferma a considerare l’artista tutto assorto nelle sue creazioni, vivo dentro la cerchia delle fattezze umane dei suoi personaggi, emulo degli antichi nello sforzo titanico di ingigantire idealmente l’umana statura, e nel rapimento estatico di eguagliare la perfezione ellenica. Ma ciò che a noi piace maggiormente notare in questo momento è la coerenza e la forza grandiosa di realizzazione di tante opere, nelle quali il tema fondamentale, Dio e l’uomo, stanno continuamente di fronte. Meditando e contemplando il mistero del Dio vivente, creatore, redentore, giudice, Michelangelo definì il destino di ogni umana esistenza attorno all’adorabile figura di Cristo.
A questo punto il nostro pensiero vede sorgere dinanzi a sé le figure incantevoli delle più celebri sculture di Michelangelo, a cominciare da quella incredibile per un giovane non ancora venticinquenne, della Madonna che ora veglia, dolorosa e piissima, alle soglie di questa Basilica. «Con questa Pietà, commenta il Papini (Giovanni Papini, Vita di Michelangelo, p. 435), non è soltanto il genio giovane di Michelangelo che si afferma con vittorioso splendore agli occhi di tutti, ma nasce la grande scultura cristiana moderna, sintesi miracolosa della perfezione ellenica e della spiritualità medioevale». E poi gli altri colossali simulacri famosi, che definiscono questo massimo scultore, dal giovane atleta ch’è il Davide fiorentino, al Mosè gigante corrucciato di San Pietro in Vincoli, alla singhiozzante Pietà Rondanini, e via, via... E si arresta lo sguardo alla rivelazione, non nuova, ma qui insuperabile di Michelangelo pittore, alla Sistina, a quel sacrario dell’arte che col suo possente compendio della storia umana ricapitolata in Cristo, esprime nella maniera più sublime la grandezza religiosa dell’arte michelangiolesca. Ci piace immaginare l’artista aggirarsi negli spazi architettonici solenni, che lo videro per lunghi anni, in periodi diversi della sua vita e in momenti successivi dell’attività artistica, sui ponti di lavoro, in compagnia del suo vasto poema pittorico, a cui collaborarono, come per il poema di Dante, cielo e terra. Chi guarda quelle sequenze pittoriche, si chiede che rapporto possa avere con noi quella popolazione di figure vigorose: noi veniamo alcuni secoli dopo, e tanto la società come il mondo cristiano hanno problemi ben diversi da allora. Eppure la Sistina ci dà come il resoconto di una lotta e di una conquista, quasi un mondo in fieri, dove i figli della luce, per il carattere sacramentale che è il loro, coraggiosamente combattono, senza stancarsi, per il trionfo della verità.
Le forme, qui più che mai, sono in funzione diretta delle idee religiose. Possiamo sostare ammirati davanti alla folla della Sistina, evocata dal genio di Michelangelo; ma non si può tralasciare l’ascolto della parola, così bene individuabile nell’atteggiamento dei corpi e nell’espressione del volto: ci sono gli angeli, i profeti, gli Apostoli, i Pontefici, i martiri, i confessori della fede, il mondo delle Sibille. Domina sovrana la presenza di Dio, di un Dio giusto e misericordioso, che all’umanità decaduta offre il soccorso della redenzione per una vita nuova. Il collegamento dell’immenso scenario è la Bibbia, emergente nei suoi valori sacri attraverso le immagini che col loro linguaggio figurativo aggiungono un contributo di poesia e di profezia all’esegesi del testo sacro.
Michelangelo è l’artefice, è il demiurgo, di questa grande predicazione religiosa che a noi, non meno che agli uomini del suo tempo, appare prodigiosa per l’arditezza della sua impostazione iconografica e per la sua potenza espressiva. Non c’è parola umana che possa suscitare tanta emozione, che faccia tanto riflettere e meditare, quanto la rappresentazione che di quelle verità ha dato il Buonarroti. La Cappella Sistina con il suo Giudizio universale diventa così quasi un libro aperto ai dotti e agli incolti, ai fedeli e ai non credenti, come pure un efficace richiamo al popolo di Dio per continuare a vivere le certezze del Vangelo, per non cadere come «fanciulli sbattuti da ogni vento di dottrine per gli inganni degli uomini» (Efesini, 4, 14-15). La nostra celebrazione liturgica vuol essere una doverosa testimonianza di gratitudine la quale, dopo che a Dio, si rivolge a Michelangelo per l’aiuto che egli stesso ha donato alla nostra preghiera, incoraggiandoci con la sua visione di arte ad elevarci verso il divino, come si eleva al cielo la maestosa Cupola ideata dal suo genio, sotto la quale insieme a tante anime cantiamo il Credo e gli inni della nostra fede.
Ed ora, amici Artisti e Cultori dell’arte qui presenti, in un momento così solenne e suggestivo il nostro pensiero si rivolge particolarmente a voi. L’esempio che ci viene da Michelangelo è una lezione che deve avere anche ai nostri giorni una sua continuità, per la dignità della vostra missione, come pure per la gioia di una nuova primavera dell’arte cristiana, che, sotto l’impulso del Concilio Vaticano II, si annunzia ricca di promesse in seno alla Chiesa. E tanto più urgente ed opportuno ci appare questo richiamo, in quanto falsi principii ispirati ad una concezione della vita senza speranza superiore minacciano di far decadere l’arte dai suoi sublimi compiti. Se l’arte, secondo la scultorea definizione dantesca, è a Dio quasi nipote, essa ha bisogno di avvicinarsi a Dio, di conoscerlo e di amarlo in uno sforzo costante di purificazione e di donazione.
Chi conosce la biografia di Michelangelo ben sa che al vespro della sua lunga vita (egli morì a 89 anni nel 1564), lo spirito inquieto e veggente dell’Artista ebbe un tormentato pensiero, il quale non paralizzò la sua mano sempre armata di scalpello, ma sconvolse il suo giudizio di valore niente meno che su l’arte, la sua arte, quasi fosse vana fatica, ostacolo alla sua salvezza. Ultimo pensiero triste e agitato del Grande, ma pensiero sapiente: egli vide che l’arte, per quanto regale e sublime, non è, nel quadro dell’umana esistenza, fine a se stessa; è e dev’essere una scala che sale; essa conta per quanto è rivolta al supremo vertice della nostra vita, a Dio. Ricordate le sue gravi parole, rese più espressive dalla poesia (forse del 1555)? «Né pinger, né scolpir fia più che quieti / l’anima volta all’amor divino / c’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia» (Giovanni Papini, Vita di Michelangelo, p. 999).
Cioè l’arte, specialmente l’arte, come ogni attività umana, deve essere tesa in uno sforzo di sublimazione, come la musica, come la poesia, come il lavoro, come il pensiero, come la preghiera, deve rivolgersi in alto. Michelangelo perciò vi ricorda di quanto aiuto sia la fede per l’artista, trovando questi in essa il continuo stimolo a superarsi, a meglio esprimersi, a fondere le sue esperienze in quelle magnifiche sintesi, di cui la storia dell’arte, nei suoi momenti più alti, ci ha dato incomparabili modelli. Solo così, come esige l’altissima vostra missione, saprete mettervi a servizio nobile e cosciente dell’uomo, che ha continuamente bisogno di essere aiutato ed istruito a ben pensare, a ben sentire e a ben vivere. Porgendogli la mano fraterna che lo elevi ad amare «tutto ciò che vi è di vero, di puro, di giusto, di santo, di amabile» (Filippesi, 4, 8), voi avrete contribuito all’opera della pace, e il «Dio della pace sarà con voi».

L'Osservatore Romano

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Mentre fuori impazzava il carnevale. L’ultimo duello

(Antonio Paolucci) Il vecchio Michelangelo abitava nella casa studio di Macel de’ Corvi, un quartiere di Roma che stava fra Piazza Venezia e la Colonna Traiana e che oggi non esiste più, demolito alla fine dell’Ottocento per fare spazio al Vittoriano poi Altare della Patria. Abbiamo un testimone dei giorni ultimi dell’artista. È Daniele Ricciarelli, meglio noto come Daniele da Volterra dalla città di origine, l’allievo devoto e affettuoso al quale toccherà in sorte l’imbarazzante compito di coprire con panneggi le nudità più appariscenti del Giudizio.
Come è noto l’affresco con la Resurrezione dei corpi e la Parusia aveva suscitato imbarazzi e polemiche. Tutti quei nudi e natiche e seni e sessi squadernati in gloriosa evidenza, sembravano fatti apposta per mettere in crisi gli animi più timorati. Ci voleva un bizzarro spirito fiorentino come Antonio Francesco Doni per dire quello che noi oggi pensiamo: «In quel dì che Cristo verrà in Divinità, meriterà che egli imponga che tutti facciano quelle attitudini, dimostrino quella bellezza, e l’inferno tenga quelle tenebre che voi avete dipinte, per non si poter migliorare».
Che è come dire: quando verrà il Giudizio Finale, quello vero, Nostro Signore dovrà attenersi a quello che Michelangelo ha già dipinto perché neanche Lui saprebbe o potrebbe immaginarne uno migliore! Così scriveva il Doni in una nota lettera a Michelangelo poco dopo la scopertura del grande murale e questo iperbolico paradosso, al limite della irriverenza, è l’apprezzamento più geniale che mai sia stato fatto al Giudizio.
Ma nel febbraio del 1564 Michelangelo non pensava agli affreschi sistini e ai suoi stolidi detrattori e neppure alla cupola già impostata e interamente realizzata fino al tamburo. I suoi pensieri andavano all’Assoluto e all’Altrove. Si dissolvevano in quei giorni gli ideali di bellezza e di gloria che pure avevano acceso il suo ingegno e guidato la sua mano. Ce lo fa capire in quel celebre sonetto degli anni tardi che è una specie di ritrattazione e quasi di confiteor: «onde l’affettuosa fantasia che l’arte mi fece idolo e monarca conosco or ben com’era d’error carca».
Adesso, nel momento liminare della vita terrena, Michelangelo ha testa e mani solo per la Pietà. Ce lo dice il testimone oculare Daniele da Volterra scrivendo a Giorgio Vasari il 17 Marzo 1564, a un mese esatto dalla morte del Maestro, e poi al nipote Leonardo Buonarroti l’11 giugno successivo: «Egli lavorò tutto il Sabato che fu inanti al lunedì che si ammalò (...) lavorò tutto il Sabato della Domenica di Carnevale e lavorò in piedi studiando sopra quel corpo della Pietà».
Pensiamo a quel sabato, vigilia dell’ultima domenica di Carnevale, quando la festa impazza per le strade di Roma e il grande vecchio affronta in solitudine il suo ultimo duello con l’arte. Lo fa «in piedi» e «studiando» perché l’arte richiede un affronto virile e un impegno intellettuale duro, vigile, determinato, senza pause e senza riserve. Poi, al termine di quella notte — dice Daniele da Volterra — Michelangelo si ammala, si mette a letto e nel giro di breve tempo muore.
Commuove l’idea che gli ultimi pensieri di Michelangelo — lui senza figli e senza famiglia — siano per il rapporto tra Madre e Figlio. È un tema che attraversa tutta intera la vita dell’artista dalla giovanile Pietà di San Pietro che apparve come un miracolo agli occhi di Giorgio Vasari («È un miracolo che un sasso da principio senza forma alcuna si sia mai ridotto a quella perfezione che a fatica la natura suol formare nella carne») alla Pietà fiorentina oggi nel Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, scultura drammatica, tormentata, da ultimo rinnegata, che l’artista avrebbe voluto collocare sopra la sua tomba, alla Pietà Rondanini, quasi un testamento spirituale, la dolente meditazione degli anni ultimi. In tutte le tre Pietà, attraverso un arco cronologico lungo poco meno di settanta anni (dal 1499 al 1564) è dominante il tema della Madre che contempla il corpo del Figlio morto fino a riappropriarsene, fino a riportarlo nel grembo che l’ha generato.
All’indomani della morte di Michelangelo entrò subito in azione il partito fiorentino che voleva riportare in patria le spoglie mortali del grande figlio. I romani avrebbero voluto che Michelangelo avesse sepoltura in San Pietro ma si riuscì a trasferirne furtivamente la salma a Firenze. Le esequie si tennero in San Lorenzo, chiesa palatina della famiglia Medici, accanto alle sculture della Sagrestia Nuova e furono onoranze solennissime nella chiesa arredata a lutto e ornata dei dipinti che celebravano la vita e le opere di quel grande.
Oggi, come tutti sanno, la tomba del Buonarroti sta in Santa Croce collocata all’interno di un modesto apparato tardo manierista. Giorgio Vasari avrebbe voluto che venisse riscattata la Pietà oggi nel Museo di Santa Maria del Fiore. Occorreva comprarla, al prezzo di qualche centinaio di ducati, dai Bandini che a Roma ne erano proprietari. Se il progetto vasariano fosse andato a buon fine oggi Michelangelo riposerebbe in Santa Croce sotto una lastra terragna avendo sopra di lui la Pietà che porta, nel personaggio di San Giuseppe d’Arimatea, il suo autoritratto. Quale mirabile monumento memoriale avrebbe avuto Michelangelo civis florentinus nel cuore della sua città!
Ma i soldi per il riscatto della Pietà Bandini non si trovarono.
L'Osservatore Romano