mercoledì 19 novembre 2014

Cristiani sotto uno stesso tetto.



 È il tempo di osare l’unità

(Fratel Alois) Nel nostro percorso ecumenico, uno degli interrogativi a cui dobbiamo urgentemente trovare una risposta è il seguente: come possiamo, noi cristiani, mostrare che l’unità è possibile nel rispetto del pluralismo? Se riuscissimo a farlo, non recheremmo solo un beneficio ai cristiani, ma renderemmo anche un grande servizio al mondo. Se riuscissimo a essere insieme in una vera unità, accettando al contempo il pluralismo, diverremmo un segno in un’umanità che cerca essa stessa la propria unità.
Oggi la globalizzazione del mondo è spesso percepita come una minaccia. Alcune paure sono legate all’unificazione degli spazi economici e politici, come la paura di perdere le proprie radici. Tensioni o addirittura violenti conflitti possono nascere per questioni di lingua, d’identità. Molti faticano a vedere la globalizzazione in modo positivo. 

Di conseguenza certi sono portati a mettere in evidenza le loro differenze. Ciò è vero anche tra i cristiani. Sebbene non vi siano mai stati tanti rapporti tra Chiese come ci sono oggi, non ci sono neppure mai state tante Chiese e comunità cristiane diverse. Ciò che le distingue è a volte presentato come un’opportunità per soddisfare i bisogni del maggior numero possibile di persone.
Senza alcun dubbio, le nuove comunità cristiane che nascono continuamente corrispondono alle aspirazioni di persone che amano sinceramente Cristo. Ma alcuni arrivano a chiedersi: una comunione visibile dei cristiani è davvero auspicabile?
Con la sua croce e la sua resurrezione, Cristo ci ha uniti in una nuova alleanza con Dio. Quanti amano Cristo sono invitati a formare nella sua sequela una grande comunità d’amicizia. È chiamata comunione. Hanno così un contributo da offrire per curare le ferite dell’umanità: senza volersi imporre, possono favorire una globalizzazione della solidarietà che non escluda nessun popolo, nessuna persona. Cristo è giunto a dare la propria vita per «per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (Giovanni, 11, 52). Ha superato le barriere; sulla croce, ha teso le braccia da un lato all’altro, tra quanti erano divisi. Da allora non c’è più nulla che possa veramente giustificare le nostre prese di distanza gli uni dagli altri.
Tuttavia, come cristiani, ci vergogniamo di compiere così poco la volontà di unità di Cristo. I giovani, in particolare, hanno sete di significati e di orientamenti chiari. Non possiamo offrire loro più a lungo la confusione delle nostre divisioni.
Siamo posti di fronte alla seguente esigenza: la comunione tra tutti coloro che amano Cristo si può stabilire solo se rispetta la loro diversità; ma essa può offrire un vero orientamento solo se è visibile. Nel suo testo sulla «gioia del Vangelo» Papa Francesco dice che «l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità» e parla di «diversità riconciliata» (Evangelii gaudium, 230).
Come prima proposta, vorrei indicare che abbiamo bisogno di un nuovo punto di partenza per avanzare verso una tale diversità riconciliata. Quando si parla di unità e di diversità, due domande si pongono, ed evocano due possibili scogli. La prima è: non è che incoraggiare la diversità condurrà all’atomizzazione? La seconda è opposta: non è che insistere sull’unità porterà all’uniformità? Sono due rischi reali. Per evitarli entrambi, dobbiamo seguire un cammino difficile.
Posso citare per la seconda volta un Papa? A dire il vero prima di essere Benedetto XVI, il cardinale Ratzinger aveva scritto, nel 1986: «La divisione è un male quando porta all’inimicizia e all’impoverimento della testimonianza cristiana. Ma quando la divisione viene pian piano privata del veleno dell’inimicizia e quando, grazie all’accoglienza reciproca, la diversità non produce più semplicemente un impoverimento ma una nuova ricchezza di ascolto e di comprensione, essa può diventare felix culpa, ancor prima di essere guarita». Poi Ratzinger cita il teologo protestante Oscar Cullman che parla di «unità attraverso la diversità» ed esprime «la speranza che alla fine la divisione smetterà di essere divisione per restare solo polarità senza contraddizione» (Zum Fortgang der Ökumene, in Theologische Quartalschrift 166 [1986], nn. 243-248). Come si può giungere a questa armonizzazione tra l’unità e la diversità? Troppo spesso il punto di partenza sono state la constatazione e l’analisi delle divisioni. Forse era necessario farlo in una fase preliminare. Ma oggi il punto di partenza dovrebbe essere Cristo e lui non è mai diviso.
Fissiamo un altro punto di partenza. Cristo risorto riunisce in una sola comunità uomini e donne di ogni orizzonte, lingua e cultura, persino di nazioni nemiche. È questo punto di partenza a obbligare i cristiani, con le proprie differenze, a ricercare la loro comunione visibile. Suggerire di fissare questo nuovo punto di partenza mi porta a una seconda proposta che deriva dalla prima: oggi le Chiese cristiane non dovrebbero osare mettersi sotto uno stesso tetto ancor prima che venga trovato un accordo su tutte le questioni teologiche?
Ci saranno sempre delle differenze tra cristiani; e queste saranno sempre una sfida e un invito a dialogare in modo franco; e così possono anche essere un arricchimento. Ma non è forse giunta l’ora di dare la priorità alla nostra identità battesimale, comune a tutti? Come dicevano i teologi del gruppo di Dombes, in tutte le Chiese a essere messa al primo posto è l’identità confessionale. Ci si definisce in primo luogo come cattolici, protestanti od ortodossi. In realtà ad avere la priorità dovrebbe essere l’identità battesimale. Anche se in modo diverso, l’indimenticabile teologo ortodosso Olivier Clément scrive qualcosa di simile: «C’è una sola Chiesa, basamento segreto di tutte, e dunque l’unità non va costruita ma scoperta: riemergere della Chiesa indivisa che, malgrado le tante tensioni identitarie, è indubbiamente il fenomeno decisivo del nostro tempo».
L’unità non può essere considerata come una realtà statica e monolitica, ma come un equilibrio tra poli diversi che si riaggiusta costantemente. Per esempio, la forte comprensione cattolica dei sacramenti può essere equilibrata dall’insistenza della Riforma sulla libertà di Dio che sfugge a qualsiasi influenza. Non è sufficiente dire queste cose, dette già tante volte. Ma il compiere passi avanti ci obbliga ad andare gli uni verso gli altri, a pregare insieme, ad accogliere in noi i doni che Dio ha depositato tra gli altri cristiani. Tra tutti i battezzati c’è una comunione già esistente. Pur se imperfetta, va valorizzata. La recente visita di Papa Francesco a una chiesa pentecostale e l’accoglienza che vi ha ricevuto sono più di un gesto cortese, hanno un valore ecclesiologico.
Una famiglia abita una casa comune. Se tutti i cristiani formano una stessa famiglia, la cosa più normale non è forse che abitino sotto lo stesso tetto, anche senza attendere che tutte le difficoltà siano pienamente armonizzate?
Il nuovo testamento e i padri della Chiesa parlano spesso dei cristiani come di una famiglia o di una casa. Se posso fare questa proposta — di metterci sotto lo stesso tetto — è perché faccio riferimento alla nostra propria esperienza. La storia di Taizé si può leggere come un tentativo di mettersi sotto lo stesso tetto. Provenienti da una trentina di Paesi, lingue, culture e origini ecclesiali diverse, viviamo sotto il tetto di una stessa casa. E quando, tre volte al giorno, ci riuniamo per la preghiera comune, ci mettiamo sotto l’unico tetto della chiesa della Riconciliazione.
Questa preghiera comune non riunisce solo i fratelli, ma anche giovani di tutto il mondo, cattolici, protestanti e ortodossi. Essi condividono pure la loro vita quotidiana, i pasti, i servizi, la loro ricerca di Dio. Ci sorprende constatare che si sentono profondamente uniti senza tuttavia ridurre la loro fede al minimo comune denominatore o procedere a un livellamento dei loro valori. Al contrario approfondiscono la propria fede.
Se dei giovani possono vivere ciò nel quadro degli incontri di Taizé, perché non dovrebbe essere possibile altrove? Cristo dà l’unità quando e come vuole, essa è un dono. Ma bisogna ricevere questo dono. Se noi non ci riuniamo sotto un solo tetto, come può egli farci il dono dell’unità? È quando sono riuniti, anche con Maria, che gli apostoli ricevono il dono dello Spirito Santo. E lo Spirito Santo ci unisce sempre con tutte le nostre differenze.
Vorrei ora trarre alcune conseguenze e fare suggerimenti più concreti. Cominciando dal livello più vicino a ognuno, in una comunità locale, possiamo metterci “sotto uno stesso tetto”, un po’ come “comunità di base” tra vicini e famiglie, per pregare insieme, condividere e aiutarci a vicenda, cooperare, conoscerci meglio gli uni per gli altri e dimostrare così che apparteniamo gli uni agli altri.
Tra comunità locali di confessioni diverse, in molti luoghi esiste già una collaborazione nello studio della Bibbia, in qualche opera sociale e pastorale, nella catechesi. Tale collaborazione potrebbe essere intensificata. Nella Charta oecumenica firmata nel 2001 a Strasburgo, le Chiese d’Europa si sono impegnate a «operare insieme, a tutti i livelli della vita ecclesiale, laddove ne esistano i presupposti». Mettiamo in pratica questo impegno. Ogni comunità potrebbe fare con i cristiani di altre confessioni tutto ciò che si può fare insieme, e non fare più nulla senza tener conto degli altri.
Il dialogo teologico deve continuare. Si potrebbe immaginare di condurlo maggiormente in un quadro di preghiera comune e nella consapevolezza di essere già insieme sotto uno stesso tetto? Ne riceverebbe uno slancio nuovo, non sarebbe più confinato in una terra di nessuno ecclesiale e le giovani generazioni si sentirebbero più interpellate. Vivendo e pregando insieme, si affrontano in modo diverso le questioni propriamente teologiche. Forse si potrebbe dire lo stesso della riflessione etica.
C’è poi la questione dei ministeri nella Chiesa. Nella famiglia cristiana che è la Chiesa, tutti i credenti sono chiamati ad assumersi responsabilità, a essere «buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio», come dice l’apostolo Pietro, tutti hanno ricevuto una parte di dono pastorale. C’è chi ha ricevuto un ministero più specifico di comunione e c’è chi è incaricato di vegliare sull’unità. Nella casa di Dio, vanno dagli uni agli altri, ascoltano, incoraggiano ed esortano al fine di confermare la comunione fraterna. Questi ministeri di comunione sono necessari a tutti i livelli, da quello locale fino a quello universale. Nella nostra epoca di globalizzazione, un ministero di comunione universale sembra più che mai pertinente. Tale ministero è tradizionalmente associato al vescovo di Roma. Egli deve confermare la comunione fraterna, deve vegliare affinché le porte della casa di Dio restino aperte a tutti e nessun popolo venga escluso dalla famiglia di Dio.
Un ministero di comunione universale non è in concorrenza con altri ministeri. Gregorio Magno ha chiamato il vescovo di Roma «servo dei servi di Dio». Il vescovo di Roma può sostenere quanti, in circostanze talvolta difficili, lavorano con tutte le loro forze per fare della Chiesa «la casa comune di tutti». Non potrebbe allora essere riconosciuto come il servo della vita comune, che veglia sulla concordia dei suoi fratelli e sorelle?
Quanto all’Eucaristia, non siamo un po’ troppo abituati a essere separati alla mensa del Signore? Se l’espressione famiglia cristiana vuol dire qualcosa, come giustificare la separazione di fronte all’Eucaristia? In una casa comune, la tavola è comune. L’Eucaristia non può tuttavia unire magicamente cristiani che per giunta si oppongono o addirittura si disprezzano. Le Chiese che fanno dell’unanimità della fede una condizione per ricevere la comunione insieme, lo sottolineano a giusto titolo. Ma, laddove dei cristiani si amano gli uni gli altri, fino a dare la propria vita per l’altro, l’essere separati alla fonte dell’Eucaristia non ha senso. L’apostolo Paolo nega che i cristiani di Corinto abbiano realmente parte alla comunione eucaristica se non sono capaci di condivisione e di comunione. Per quanto celebrino l’Eucaristia, le loro divisioni fanno dire all’apostolo: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore» e li accusa di «gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio» (1 Corinzi, 11, 20 e 22). Ciò ci pone un interrogativo serio: cosa celebriamo se dalla mensa del Signore sono esclusi altri battezzati che hanno il desiderio ardente di una comunione visibile?
Ci sono indubbiamente ragioni per legare la comunione eucaristica a una stessa comprensione della Chiesa. Ma invece di evidenziare solamente il bisogno di un accordo sulle strutture ecclesiali, non occorrerebbe dare altrettanto peso all’accordo dell’amore fraterno? Secondo Hans Urs von Balthasar, l’apostolo Pietro rappresenta la Chiesa come organismo strutturato, mentre Giovanni rappresenta l’esperienza dell’amore fraterno. Il principe petrino ha bisogno del principe giovanneo. La comunione nell’amore è indispensabile all’unità istituzionale. Le Chiese che insistono sull’importanza del ministero, non potrebbero allora concedere più ampiamente ospitalità eucaristica a quanti credono nella presenza reale di Cristo e manifestano con la loro vita il desiderio di unità? Sarebbe fondamentale oggi tenere maggiormente conto del fatto che l’Eucaristia è non solo il culmine dell’unità ma anche il cammino verso l’unità.
Quando i cristiani di un luogo, di una città, di un Paese, o addirittura del mondo intero, cercano di amarsi come si ama in una famiglia, in una casa comune, rendono testimonian-za alla pace di Cristo, preparano la pace tra gli uomini, e ciò persino in contesti di gravi tensioni e lacerazioni. Molti cristiani, e la maggior parte delle Chiese e comunità cristiane, vorrebbero essere insieme questi testimoni di pace. I dialoghi ecumenici hanno preparato dei cammini. Osiamo ora trarne le conseguenze. Accettiamo di camminare su una via che non conosciamo in anticipo e di basarci su queste parole di Isaia: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce» (Isaia, 42, 16).
L'Osservatore Romano