sabato 1 novembre 2014

XXXI Domenica del Tempo Ordinario. Anno A - Commemorazione dei Defunti Fedeli

Questa domenica, due novembre, giorno della commemorazione di tutti i fedeli defunti, la Liturgia presenta il Vangelo in cui Gesù afferma:
“Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.
Su questo brano evangelico la monizione di don Ezechiele Pasotti:
La commemorazione di tutti i fedeli defunti, il due di novembre, si è andata formando verso l’anno mille. Si ispira alla Festa di tutti i Santi, molto più antica, che attorno al sec. VIII viene posta al primo di Novembre. Il Catechismo ci aiuta a cogliere il senso della festa odierna. Essa ci fa volgere innanzitutto gli occhi al Cielo: “Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite attorno a Gesù e a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi e aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine” [Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 29] (CCC 1053). A questa perfezione di Dio e del Cielo possiamo giungere anche attraverso un’ultima purificazione: “Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio, ma imperfettamente purificati, benché sicuri della loro salvezza eterna, vengono sottoposti, dopo la morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia di Dio” (CCC 1054). “In virtù della ‘comunione dei santi’, la Chiesa raccomanda i defunti alla misericordia di Dio e per loro offre suffragi, in particolare il santo Sacrificio eucaristico” (CCC 1055). La preghiera per i defunti, la preghiera per noi quando saremo defunti, ci garantisce la consolazione della parola del Signore Gesù, mandato tra noi perché crediamo in Lui ed abbiamo la vita eterna, gustiamo la risurrezione.
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VANGELO DI OGGI, DOMENICA 2 NOVEMBRE 20124

In quel tempo, Gesù disse alla folla: “Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

(Dal Vangelo secondo Giovanni 6,37-40)

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L'amore è la "casa" dove ci ritroveremo, trasfigurati, in Cristo

Commento al Vangelo della XXXI Domenica del Tempo Ordinario. Anno A - Commemorazione dei Defunti Fedeli


La celebrazione di oggi è un invito ad avere lo sguardo immerso in Gesù, per pregustare il Cielo, la vita vera oltre la morte. In Lui sono vivi i defunti che ci hanno preceduto. E’ un po’ come quando ti innamori e non smetteresti mai di guardare chi ti ha rapito il cuore. E il suo ricordo, le immagini dei momenti passati insieme non ti lasciano un istante; tieni la sua foto nel portafoglio, e la guardi e la riguardi, e un desiderio intenso di stare insieme, per sempre.
Ecco, così dev'essere il Cielo, e molto di più, e non ce lo possiamo immaginare se non attraverso quello che abbiamo sperimentato e stiamo vivendo. Perché la speranza sorge dalla memoria struggente di ciò che si è vissuto. Altrimenti sarebbe alienazione.
Molto più di un semplice ricordo, la memoria è un’intimità che supera tempo e spazio, è il «memoriale» che nella Scrittura giunge a diventare «il presente del passato» (S. Agostino). Quando Israele racconta e celebra gli eventi della sua storia, non resta spettatore sulla loro soglia. Li accoglie compiuti di nuovo nel suo presente, mentre è chiamato a farsi contemporaneo di chi li ha vissuti in presa diretta.
Come in un appuntamento d’amore, Israele ha incontrato Dio nella memoria del suo agire fedele e misericordioso, imparando ad affidarsi a Lui come un figlio a suo padre. Gesù, il Figlio prediletto, ha dato compimento a questa esperienza. «Disceso dal cielo» sulla terra, ha vissuto unito al Padre nella memoria della sua volontà, facendone il suo presente dove offrirsi in riscatto per l’umanità.
Durante l’ultima cena, Gesù ha consegnato alla sua Chiesa il suo Mistero Pasquale, proprio come un memoriale: «Fate questo in memoria di me». Nel cuore della nostra vita il Signore ha deposto la sua memoria, per «vederlo» vivo come lo hanno contemplato i discepoli la sera di Pasqua, riconoscendolo dalle stesse piaghe, i segni del suo amore.
Già, ma come? Dove? Nel perdono dei peccati, il miracolo più grande. Non esiste sulla terra, nessuna carne ne è capace; è un souvenir del Cielo, la “prova regina” della sua esistenza. Solo chi ha conosciuto il perdono di Dio ha «visto» il Signore. Infatti, si può credere solo in si conosce, perché la fede non è un salto nel buio.
E noi, abbiamo sperimentato che “la volontà del Padre” è la vita eterna? Siamo tra i “chiunque” che hanno “visto il Figlio e hanno creduto in Lui”? Perché se davvero fosse così oggi avremmo in noi “la vita eterna”, e la certezza che Gesù ci “risusciterà nell’ultimo giorno”. La vita sarebbe tutt’altra cosa, piena di "speranza" e pace, pur tra mille prove.
Oppure il nostro sguardo è come quello degli “stolti”, per il quale “i giusti sembrano morire”? Forse pensiamo che la sofferenza e la morte siano dei “castighi”, “sciagure” immeritate...
Se, infatti, non c’è un “primo” giorno in cui “vedere e credere”, e poi un “secondo”, un “terzo”, un “milionesimo” giorno in cui sei stato liberato dai peccati, non puoi credere che nell’”ultimo” Gesù ti “risusciterà”.
Non a caso il verbo usato da Giovanni e tradotto con “vedere”, nell’originale greco è “theoreo”, che definisce uno sguardo attento, che osserva. Esso è impiegato per chi vede i segni compiuti da Gesù.
E’ il “vedere” del catecumeno, che, con il pensiero e lo sguardo fisico, cominciava a percepire i segni e la presenza di Gesù nella propria vita: “è già uno sguardo di fede, anche se non una fede piena, bensì quella di un cuore che è potenzialmente aperto al Mistero” (I. De la Potterie).
Ma deve compiersi in una contemplazione di fede piena. Attraverso il catecumenato le persone giungevano a “vedere” Gesù nei segni che operava nella propria vita, e così a “credere” in Lui. Facevano esperienza che “tutto” di loro era salvo, perché ormai in Cristo; e che “nulla” sarebbe andato perduto.
Per questo potevano professare la propria fede ed entrare nelle acque della vita. Erano ormai pronti a “darla” quella vita “irriducibile” ricevuta gratuitamente, come il Signore. E non è un modo di dire: appena fuori dal battistero li attendeva il martirio…
Vedendo Cristo risorto vedevano diversamente anche la morte, come San Francesco, che la chiamò “sorella”, chiamando “beati quelli ke essa trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male.”.
Ma forse noi siamo ancora angosciati, stretti nella disperata nostalgia di chi non abbiamo più vicino. Abbiamo paura di averli “perduti” per sempre? Non importa, coraggio! Perché giunge oggi la Chiesa e ci invita a guardare a Cristo, che non ci “respinge” mai. E’ vero, Dio ti ama così come sei, non ti rigetta nel dolore e nella morte del tuo intimo, ma ti perdona, perché sei la sua creatura più bella. Sei suo figlio, e il Padre il Figlio non lo ha lasciato nella tomba!
Siamo “dati” a Gesù, “consegnati” dal Padre a Lui, come Lui si è “consegnato” al Padre e a ciascuno di noi. Dio ci ha “rivolti verso” Gesù, come recita l’originale greco, allo stesso modo che Gesù, dall’eternità, è “rivolto verso” il Padre. E’ la nostra elezione, il Dna spirituale inscritto nelle nostre cellule e nella nostra anima, da sempre. Un grido che ci preme dal cuore, come quando un gatto graffia sulla porta perché vuole uscire.
Come Eva, immagine della Chiesa, Sposa di Cristo tratta dal suo fianco squarciato, anche ciascuno di noi è condotto a Lui. E’ come un magnete, c’è un’attrazione irresistibile, che si può frustrare solo con il peccato contro lo Spirito Santo. Tra noi e Gesù accade come nel “ricongiungimento” di una coppia di immigrati: prima entra nel Cielo lo Sposo, vi si stabilisce, ne prende la cittadinanza e così “prepara un posto” per la sua Sposa; allora torna da lei e la chiama, perché si ricongiunga a Lui.
Come è successo la sera del giorno di Pasqua quando Gesù è apparso ai suoi discepoli chiusi nella paura della morte. Come accade ovunque la Chiesa annunci il kerygma, la Buona Notizia di Cristo risorto.
Quando lo Sposo ti chiama, le pratiche per ottenere il visto del Paradiso sono facilissime. La Sposa non deve perdere tempo e forze per iniziarle da zero. Basta dimostrare di essere sua moglie.
E come lo dimostra? Con il certificato di matrimonio, che è il battesimo, dove “siamo stati uniti a Lui con una morte simile alla sua”, per esserlo “anche nella sua risurrezione”. Per questo Gesù dice che chi è chiamato “verrà a me”, letteralmente “si avvicinerà rivolgendosi verso di me”. E’ il compimento della volontà nella quale Dio ci ha creato: l’accordo della nostra alla sua. Lui ci ha rivolto verso Gesù, ma occorre che ciascuno di noi lo accetti e si avvicini e si volga verso di Lui.
Tradotto nella nostra vita, questo significa concretamente: per “volgersi”, convertirsi e "andare" a Cristo, tu ed io faremo l’iniziazione cristiana, che è l’iniziazione alla vita eterna, il cammino che ci conduce ad unirsi a Lui.
Lui viene a noi attraverso la Chiesa che ci annuncia il suo amore, noi “andiamo a Lui” accogliendolo nel cammino di conversione. Non si tratta di sforzi e impegni, ma di obbedire a Dio che ci ha scelti per “darci” a suo Figlio.
E' lasciare che l’onda magnetica del suo amore ci attragga, e seguirla. Lasciarci “seppellire con Cristo” attraverso i sacramenti che “crocifiggono l’uomo vecchio con Cristo” per risuscitarci e camminare in “una vita nuova”.
Per farlo abbiamo bisogno della Chiesa che ci insegna a “guardare” con attenzione e riconoscere nei segni l’opera del Signore risorto. Nella comunità impariamo a “vedere” la Parola ascoltata insieme ai fratelli compiersi nella nostra vita.
Perché “vedere Gesù” è ascoltarlo raccontarci la nostra vita alla luce del suo amore; e così innesca in noi il desiderio del Cielo, vincendo la paura della morte con cui il demonio ci tiene schiavi: se Dio è stato fedele durante tutta la vita, ci deluderà proprio alla fine?
Impossibile, perché l’esperienza ci dice che “la morte non ha più potere su Cristo”. Lo testimonia la nostra storia, nella quale “nulla è andato perduto”: il matrimonio, le relazioni difficili, noi stessi.
Per questo abbiamo la certezza che "nessuno andrà perduto": l’amore per noi ha trapassato le sue mani inchiodandoci eternamente a Cristo. Quelle piaghe sono ora gloriose, e riempiono della stessa Gloria ogni frammento della nostra vita che, in Lui, è custodito per l’eternità.
Non andrà perduto tuo padre, né tua madre, tuo marito, tuo figlio, perché l’amore più forte della morte è la garanzia che ci sarà il ricongiungimento sperato. L’amore è la “casa” dove ci ritroveremo, trasfigurati, in Cristo.
Per questo oggi “commemoriamo” i nostri fratelli defunti: facciamo memoria “con loro” dello stesso amore che ci ha raggiunti e uniti nella grande famiglia di Dio. Non sono belle parole, non è una consolazione a buon mercato. Non è nulla di simile alle risposte che ogni religione dà alla morte.
E’ l’esperienza dell’amore che l’ha vinta, qui ed ora, nella Chiesa; è il “rinnovo” quotidiano del nostro passaporto per il Cielo, timbrato a fuoco nel “crogiuolo” delle sofferenze che ci “provano”, ci fanno “degni di Lui” e “graditi come un olocausto”.
Così hanno vissuto molti nostri cari che ci hanno preceduto, “purificati come oro” nella croce e nelle malattie, mentre la loro “speranza piena di immortalità” si fortificava. E se qualcuno avesse bisogno di purificazione, oggi preghiamo per lui, attingendo ai meriti della Vergine Maria, di San Giuseppe e dei santi. Aggrappandoci confidenti alla misericordia di Dio, celebriamo per loro il «memoriale della nostra salvezza», la Pasqua del Signore che attira ogni vita nel presente eterno del suo amore.

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I Santi e i nostri morti

Lectio Divina per la 31ª Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) - Commemorazione dei Defunti


Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la 31ª Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) - Commemorazione dei Defunti.
Come di consueto, il presule offre anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
Rito Romano e Rito Ambrosiano – Commemorazione dei Defunti - Anno A – 2 novembre 2014  
1) Affidati all’Amore.
Oggi la Liturgia della Chiesa ci fa ricordare tutti i fedeli defunti in una grande preghiera che li racchiude tutti nei nostri pensieri e nei nostri ricordi. Oggi la nostra preghiera deve rivolgersi al Signore perché accolga nel suo Regno di eterna gioia e pace quelli che hanno lasciato questo mondo e sono passati all'eternità. I nostri morti: parenti, amici, conoscenti, e i defunti di tutti i tempi che per noi non hanno nome ma che Dio conosce bene.
La preghiera per le anime sante del purgatorio, specialmente quelle più abbandonate e di cui non sappiamo neppure il nome e l'esistenza. I morti di tutte le guerre e di tutte le violenze, i morti del passato, come dell’oggi: i morti sulle strade, in mare, negli ospedali, nelle case, nelle piccole e grandi città, i morti naufraghi e a cause di epidemie, e, naturalmente quelli che negli ultimi giorni hanno lasciato profondamente addolorato il nostro cuore. Commemoriamo tutti i morti, senza esclusione di nessuno ed eleviamo per tutti loro la preghiera, perché il Signore doni loro il riposo eterno, la pace perfetta.
E se è naturale che il nostro ricordo vada oggi in particolare ai nostri cari defunti, che nel momento del distacco, noi abbiamo affidato i nostri morti all’amore e all'eternità del Signore, è pure “naturale” che riceviamo da loro l’insegnamento, che l’amore eterno di Dio conserva nel suo cuore chi ama, dopo averli accolti con il suo perdono. I nostri cari defunti ci ricordano che non è proprio il caso di sprecare tempo e fatica per ambizioni e cose effimere, perché tutto passa e solamente l’amore rimane.
Non dobbiamo dimenticare che il 2 novembre non è solo un giorno, in cui si impone alla nostra attenzione il carattere di fugacità e di brevità della vita che segna in maniera dolorosa la nostra vicenda umana. Si tratta di un giorno destinato alla celebrazione della nostra più grande speranza se davvero crediamo nella fede pasquale del Risorto. La giornata dedicata a tutti i defunti dunque non è una celebrazione luttuosa. Se consideriamo l'onnipotenza del Dio Amore, che non lascia nelle tombe i morti, perché Lui stesso ha fatto morire la morte uscendo risorto e glorioso dal suo sepolcro. Il morire cristiano non è un semplice trapassare dell'anima da uno stato all'altro, ma realizza un incontro individuale con Dio amore che salva, apportando la fiducia e la speranza nella vita senza fine. Come dice il prefazio I della Messa dei Defunti: “La vita non ci è tolta, ma trasformata”, dal perdono, come è accaduto a Marmeladov, ubriacone descritto da Dostoevskij in “Delitto e Castigo”. Marmeladov è un poco di buono, un ubriacone che non ama lavorare. Il suo comportamento ha rovinato la sua famiglia e sua figlia, Sonia, è stata obbligata a prostituirsi. Quest’uomo vive dentro di sé un senso acuto di sconfitta e di colpa. E’ un perdente. Un giorno, nell’osteria, ubriaco fradicio, azzarda discorsi sconnessi e in una sorta di visione parla del Giudizio finale che sintetizzo così: “Dio chiama per primi, accanto a sé, coloro che hanno avuto vite irreprensibili, sante. Sono persone che meritano, almeno secondo un criterio umano, di vivere accanto a Dio. Poi convoca coloro che di bene ne hanno fatto poco, gli ubriaconi come lui e i drogati, coloro che noi, i benpensanti, osiamo definire “i cattivi”. “Allora convocherà noi. ‘Pure voi, fatevi avanti’, dirà, ‘fatevi avanti, ubriaconi, fatevi avanti voi deboli, fatevi avanti figli della vergogna!’. E noi tutti ci faremo avanti vergognosamente e ci terremo in piedi davanti a Lui. Ed Egli ci dirà: ‘Siete dei porci, fatti a immagine della Bestia e con il suo marchio; ma venite voi pure!’ E i saggi e le persone di buon senso diranno: ‘Signore, perché Tu accogli questi uomini?’ E Lui dirà: ‘ La ragione per la quale li accolgo, uomini benpensanti, è che nessuno di loro ha creduto di essere degno di questo’.”
È possibile tutto ciò, oppure è soltanto un parlare a vanvera tipico degli ubriachi? Non solo è possibile, e accade veramente come è accaduto all’adultera e alla Maddalena, a Zaccheo come a Pietro: tutti hanno consegnato a Cristo il loro dolore, ritenendosi indegni, e tutti sono stati perdonati. Come recita il salmo 36, il Signore “è la mia luce e la mia salvezza... è difesa della mia vita... A lui grido: abbi pietà di me. Il tuo volto, Signore io cerco.... Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Perché Gesù ha vissuto un’agonia estrema, come molti malati che abbiamo visto, apparentemente senza alcuna speranza, sul letto di morte. Perché Egli è morto come l’uomo, a causa dell’uomo, per l’uomo, con l’uomo e davanti all’uomo. Questa fede si unisce alla speranza, che -come scrive Paolo ai cristiani di Roma - “non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
2) I Defunti e i Santi, persone che vivono nella verità dell’Amore.
La vicinanza di date fra la festa dei Santi (1° novembre) e la Commemorazione dei defunti (2 novembre) ci ricorda la verità misteriosa della vita eterna e il legame di fraternità tra noi e con i nostri cari, che sono passati all’altra riva.
Non è per nostalgia verso il passato che ci si reca al cimitero, ma perché speriamo con speranza in un futuro di gloria e di gioia. Quindi, mentre preghiamo in suffragio dei nostri defunti, loro ci tendono dal cielo le loro mani e ci assicurano una vicinanza intensa e quotidiana, perché anche noi camminiamo con costanza verso la vita che non ha fine.
E’ con speranza che il cristiano percepisce e accoglie la fine terrena, la morte. La sua fede in Gesù risorto gli dà la sicurezza che morire non è una sconfitta irreparabile, ma il drammatico passaggio alla condizione gloriosa con il suo Signore. “Chi viene a me, non lo respingerò”. Non siamo degli estranei per Dio, ma figli, eredi, destinati a condividere la risurrezione di Gesù.
Un inno delle Lodi fa cantare: “E noi che di notte vegliammo, attenti alla fede del mondo, protesi al ritorno di Cristo or verso la luce guardiamo”. Nella notte della morte in cui tutti affondano, ci è data una luce che illumina l’intangibile profondità del nostro cuore e nella fede possiamo fare un’esperienza religiosa nella quale si riverberi la risurrezione finale. Cristo abbraccia ogni istante della nostra vita e ci fa capire e vivere che in ogni momento c’è una ridondanza di eternità, ogni istante legato a Lui implica l’eterno.
A questo abbraccio si consegnano le Vergine consacrate nel mondo, a cui  “è affidato il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo” (S. Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Post sinodale Vita Consecrata, n. 16).
La scelta della vita verginale è un richiamo alla transitorietà delle realtà terrestri e anticipazione dei beni futuri. Essa ricorda a tutti i fedeli l’esigenza di camminare tra le vicende del mondo sempre orientati verso la città futura e contribuisce in modo esemplare a mettere in luce la genuina natura della vera Chiesa, che ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, ardente nell'azione e dedita nella contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina6.
Al significato spirituale ed escatologico della condizione verginale si riferisce in maniera suggestiva e profonda l’antichissima preghiera romana di consacrazione del Pontificale Romano attribuita a san Leone Magno: “Tu…hai riservato ad alcune tue fedeli un dono particolare scaturito dalla fonte della tua misericordia. Alla luce dell’eterna sapienza hai fatto loro comprendere, che mentre rimaneva intatto il valore e l’onore delle nozze, santificate all’inizio dalla tua benedizione, secondo il tuo provvidenziale disegno, devono sorgere donne vergini che, pur rinunziando al matrimonio, aspirassero a possederne nell’intimo la realtà del mistero. Così le chiami a realizzare, al di là dell’unione coniugale, il vincolo sponsale con Cristo di cui le nozze sono immagine e segno. (n.38).
Dalla consacrazione verginale scaturisce la grazia ecclesiale specifica che rende operante il simbolismo originario di questo rito. Così il dono della verginità profetica ed escatologica acquista il valore di un ministero al servizio del popolo di Dio e inserisce le persone consacrate nel cuore della Chiesa e del mondo (Conc. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa, Lumen Gentium, n. 42) Questo atto pubblico e riconosciuto dell'alleanza fra il Cristo e la vergine consacrata, proclama di fronte al mondo il primato e la fecondità della totale e perpetua donazione di sé con la piena disponibilità alle esigenze della carità verso Dio e verso il prossimo.
Sull’esempio e sulla testimonianza di queste Vergini Consacrate, che vivono la loro fede con gioia e fatica, che ogni giorno vivono nell’amore, per amore, per amare, perseveriamo nel cammino di santità a cui tutti siamo chiamati.  In ciò ci siano di intercessione e di aiuto tutti i santi, che sono coloro che sono così affascinati dalla bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da lasciarsene trasformare. Per questa bellezza e verità e amore loro furono disposti a rinunciare a tutto, anche a se stessi, e vissero nella lode a Dio e nel servizio umile e disinteressato del prossimo.
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LETTURA PATRISTICA
Sant’Ambrogio di Milano
La fede nella Risurrezione dei morti

Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro» 

(Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)


Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui

Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale?
Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l'anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l'anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7,25 ss.).
Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte, quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l'annuale solennità del mondo.
E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l'esempio divino che la morte sola ha conseguito l'immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisse quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l'immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.
L'anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.
Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d'arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15,3-4).
L'anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64,3).
Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26,4).